E alcuni audaci in tasca l’Unità
Oggi 29 aprile sull’Unità Il dossier sulla scuola di italiano per rifugiati Asinitas con focus sulla diaspora somala in Italia. Il dossier, curato/scritto da Gabriele del Grande e Igiaba Scego, sarà corredato dai disegni e dalle poesie dei ragazzi rifugiati che frequentano la scuola.
Parole, quelle dei ragazzi e quelle dei giornalisti, che illuminano il dilemma italiano sull’asilo politico. Un dilemma che spesso si tramuta nella tragedia della non accoglienza e del razzismo.
GIOCARE LA VITA
di
Tedros e Teklu (Eritrea)
In Libia i dallala comprano e vendono le persone come noi, come animali in un mercato. I dallala dicono: se sbarchi a Lampedusa bene, se muori è uguale. Per i libici l’importante è il denaro.
Noi siamo stati fortunati, perché siamo stati in Libia solo otto giorni.
Tedros: Siamo partiti all’alba. Il mare era calmo. C’erano 304 persone di tutti i paesi. Tutti stavano in silenzio perché avevano paura di essere presi e riportati in Libia. Eravamo felici di lasciare la Libia, perché il mare è meglio della Libia. Durante il viaggio tutti pregavano. Io ero seduto al centro della barca, era la prima volta che vedevo il mare. Ci domandavamo quanto tempo ci voleva per arrivare a Lampedusa. Eravamo 304, ognuno ha pagato 1200 dollari, 364 mila dollari.
Siamo arrivati il 31 luglio 2008. Quel giorno sono entrate nel porto di Lampedusa 6 barche, più di mille persone. Abbiamo lasciato in Libia più di un milione di dollari in un solo giorno. Quel giorno è arrivata anche la barca di Teklu con 320 persone, e un altro grande gommone che portava 150 persone. Era bucato ed era arrivato a Lampedusa portato dal mare.
Loro dicevano “gli italiani ci hanno salvato la vita”.
Teklu: Siamo partiti all’alba, il mare era calmo, tutti erano in silenzio. All’inizio abbiamo visto un delfino che ci ha seguito per 300 metri. Io ero seduto vicino al capitano perché solo lì avevo trovato posto. Il capitano era un tunisino, era una persona molto gentile. Quando siamo arrivati vicino a Lampedusa si è nascosto, confuso con gli altri passeggeri.
Tedros: Ho pregato per 28 ore perché un anno prima quando ero ancora in Eritrea avevo saputo che degli amici erano morti in mare. Quando una barca parte i dallala fanno una lista con i nomi e i paesi di provenienza, se la barca affonda in mare la lista va all’ambasciata eritrea o ad altri amici che informano le famiglie. Così abbiamo saputo dei nostri amici morti.
Teklu: Anche un mio amico con cui ero cresciuto è morto in mare, si chiamava Mekete. Sapevo che il viaggio era difficile ma non immaginavo quanto. L’ho capito solo dopo che l’ho fatto. Quelli che erano partiti prima di noi ed erano arrivati telefonavano e dicevano “non partite”, ma noi siamo partiti. Quando io sono arrivato ho telefonato e ho detto “non partite”, ma ancora stanno partendo e sarà sempre così perché in Eritrea non ci sono persone libere, ma tutti soldati.
Tedros: Quando si parte non si parla, poi si comincia a pregare. Quando si entra in acque internazionali, tutti sono felici. Lo capisci perché intorno a te, davanti, dietro, a destra e a sinistra, ci sono grandi navi con tante luci, come la città di notte.
Teklu: Quando sono partito in mare non avevo niente con me, avevo perso il portafoglio nel Sahara, avevo portato con me foto dei miei amici, dei miei genitori, la carta d’identità.
Tedros: Io invece avevo con me la foto di Abraham, un ragazzo che avevo conosciuto a Karthoum e che era morto in mare un anno prima. Sono stato a Karthoum un anno e sette mesi, non mangiavo, non dormivo, sempre lavoravo per guadagnare i soldi per venire in Europa. Abraham l’ho conosciuto a Karthoum, vendeva vestiti. E’ partito prima di me. Io avevo dato a lui la mia foto, e lui mi aveva dato la sua.
A Karthoum avevo un motorino e trasportavo le persone. Lo avevo comprato dopo un anno di lavoro e prima di partire l’ho venduto. In un anno e sette mesi ho guadagnato 5 mila dollari. Così ho fatto il viaggio. E ho mandato anche un po’ di soldi a casa. Quando sono arrivato in Libia, a Tripoli, ho scritto ad Abraham per sapere come stava ma lui non rispondeva. Così ho chiamato un parente in Italia che mi ha detto che Abraham era morto in mare.
Teklu: Meketé era un mio amico, siamo cresciuti insieme nel mio villaggio a Shimangus Tahtay, vicino ad Asmara. Suo padre era un colonnello. E quando lui è diventato disertore gli ha ordinato di lasciare la casa, gli ha detto vai ovunque ma non qui. La madre che era un medico gli ha regalato 10 mila nafqa, circa 300 euro, e così lui era andato in Sudan e io non l’avevo più visto. Era il fratello che mi informava del Sudan, della Libia, e che poi era morto in mare. Lo incontravo ogni anno nel mio paese il 10 settembre alla festa del Meskal, la festa della Croce. Cucinavamo, preparavamo tutti insieme la carne, compravamo i vestiti, le scarpe, ci vestivamo bene per la festa, giocavamo, ci divertivamo, ballavamo. Lui era un bravo suonatore di Kraar, una specie di chitarra.
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la vera tragedia della nostra generazione, un mondo incapace di accogliere, e che lo sarà sempre più.
I disegni sono di questa bellezza che viene dell’emozione.
Blu come regno della nascita o della morte, con tutte le luce della speranza. Blu cupo per annegare nella notte, fare viaggiare nel cielo, placare la fame. Una nave ha ali per attraversare il mondo, lasciare la morte e la desolazione, per credere raggiungere una casa sulla batiggia.
Un racconto evoca il passaggio nel deserto e l’incidente, la ferita nel corpo. Il rosso cerca il blu per fuggire.
Un nave pieni di corpi, di sudori, di dolori.
Questi designi meritano uno sguardo lungo.
In pochi giorni, su Nazione Indiana, sono comparsi dei racconti di fughe dal proprio paese. Sulle vicende – prima di Mohamed Altawil, palestinese, e ora di Tedros e Teklu, eritrei.
Questi racconti tendono, giustamente, a mettere in evidenza, a far risaltare la drammaticità di queste che non sono ancora “ascese”, ma che rischiano, per responsabilità degli abitanti dei paesi da loro raggiunti, di diventare, ancora una volta, “discese” in un altro inferno, altrettanto tragico di quello abbandonato. Anche se non sempre e non per per tutti.
Proporrei allora, senza dimenticare tutto questo, e proprio perché ci troviamo su Nazione Indiana, di pensare po’ di più sulla funzione del “racconto” – questa volta davvero “realistico” e necessariamente autobiografico – di questi “uomini in fuga” che, attraverso la narrazione delle loro esperienze – perseguono un fine di “conoscenza”.
Mostrare e mostrarsi per quello che sono, per rompere il muro di estraneità che spesso viene eretto tra loro e “gli abitanti del posto” a causa dell’ignoranza, sul cui vuoto vengono costruite tutte quelle mitologie negative che spesso causano lo scivolare dell’evento in tragedia.
Abbiamo bisogno di storie, storie, storie, che raggiungano tutti.
Quest’invito non nasce dalla mia testa. Tempo fa, un mio carissimo amico che “ha vissuto a lungo con gli zingari”, come dice lui stesso,
(due suoi pezzi sono stati pubblicati qui, su N.I) esacerbato dalla diffidenza che i suoi concittadini mantenevano nei confronti dei suoi amici rumi, decise di scriverne le biografie – una piccola serie – di farne un piccolo libro e distribuirlo gratuitamente alla popolazione: “Se li conosci, non li eviti”, dice.
https://www.nazioneindiana.com/2008/04/14/il-figlio-di-davide/#respond
naturalmente “rom”, al plurale, fa “romà”, non rumi
io il dossier l’ho letto e voi?
effeffe
Ho visto i designi e i testi cha accompagnano.
Sono di una grande bellezza.
Che accompagnano.