Non avevo capito niente

jorge_carrascosa
di Gianluca Veltri

    “A volte ho la sensazione che tutti gli ieri palpitino sotto la terra come se si rifiutassero di scomparire del tutto, l’enorme cumulo […] di quel che è raccontato e taciuto, di quel che mai si è saputo o non ha avuto testimoni o è stato nascosto”.
    (Javier Marìas)

Forse fu perché stavano per arrivare gli anni Ottanta, anche per me. Non per caso suonavo le serenate alla chitarra, sotto i balconi e persino al telefono. E nel nostro repertorio era entrato “Saturday Night Fever”.
Fatto sta che i Mondiali di Argentina, nel ’78, furono bellissimi per me. Qualche stagione prima, poco più d’un bambinetto, cantavo le canzoni sul pueblo unido e fremevo di rabbia pensando a Victor Jara e a quello che gli avevano fatto (lo avevano giustiziato mozzandogli le mani).
Invece nel 1978 mi inebetii appresso a Daniel Bertoni e Resenbrink. Mi appassionai agli imbrogli del portiere peruviano Quiroga, che si vendette agli Argentini (finì 6-0 e 35.000 tonnellate di grano furono regalate dal governo argentino a quello peruviano), mi divertì fare le ore piccole per via del fuso orario.
A Mexico ’70 non m’importava del calcio, ero piccolo. Ma da Monaco ’74 in poi mi si era aperto un mondo stupefacente, e Baires ’78 lo aspettavo da quattro anni. Non mi sfiorò neanche l’idea, in quei giorni dolci di giugno, della mostruosità di quell’evento. Così oggi raccolgo i frantumi d’un senso di colpa lungo decenni.
Quel Mundial è periodicamente rievocato perché vide “la più bella Italia di tutti i tempi”, meglio anche delle due Nazionali campioni nel 1982 e nel 2006. Baires fu il teatro di una delle nostre più memorabili esibizioni: 10 giugno ’78, Estadio Monumental, 70.000 spettatori. Argentina-Italia 0-1, Bettega al 67’ su geniale imbeccata di Paolo Rossi, non ancora Pablito. Che fegato! Umiliammo la Selección a casa sua, in piena dittatura. Gli unici a cantargliele, alla junta militare, furono le mamme di Plaza de Mayo e l’Italia di Bearzot.
Per me quelle settimane di partite dall’altro mondo, di coriandoli e pezzettini di carta lanciati nel cielo australe e depositatisi sul tappeto verde, sono aggrovigliate alle brezze di una gioventù senza memoria, a partite giocate nei cortili e persino sui marciapiedi fino allo sfinimento, ai pomeriggi di maggio che non torneranno più e ai palloni incastrati sotto le marmitte delle 127.
Nutrivo una viscerale antipatia per l’Argentina, questo sia detto a parzialissima discolpa: una squadra tronfia, predestinata a un successo ineluttabile. Erano prepotenti. Esprimevano l’arroganza del potere ─ ma per me non era certo il potere militare della triade Videla-Massera-Agosti. Era piuttosto un fastidio generico, il mio, epidermico, antropologico. Come padroni di casa erano assai poco ospitali. Obbligati a vincere, da una necessità che andava al di là del fatto sportivo. Odiavo Ardiles, Olguin e Luque, sembravano mezzi delinquenti mandati a intimidire e spadroneggiare. Non è che le mie impressioni fossero tanto sbagliate. Anche i capelloni, come Tarantini o Kempes, a cui spontaneamente sarebbe andata la mia simpatia, erano capelloni in un modo sbagliato e sinistro, da infiltrati. Antipatia viscerale per i padroni di casa, dunque. Ancor più che verso i padroni di casa tedeschi di quattro anni prima: entrambi avrebbero comunque privato del titolo una delle squadre più meravigliose della storia, l’Olanda di Neeskens.
Le informazioni nel ‘78 mi arrivavano vagamente. Quando vidi Videla festeggiare sugli spalti come un mafioso intuii che laggiù doveva esserci un governo “di quelli sudamericani”, ma niente più. Pazzo io, e pazzo il mondo. Io non notai quel losco signore accanto a Videla, ma tutto il mondo sapeva che il suo nome era Licio Gelli. Né si capiva perché lo stesso capo della junta si recasse negli spogliatoi prima delle partite, in compagnia del segretario di Stato americano Henry Kissinger. Non sapevo che, mentre si giocavano le partite al Monumental, a qualche isolato da lì, nel Garage Olimpo, all’ESMA, si praticavano raffinate torture su chiunque non fiancheggiasse il regime militare. Anche se per la verità, come si seppe poi, durante le partite della Selección gli aguzzini si regalavano due ore di vacanza. Si sospendevano la «picana» e il «sommergibile»: per il tempo della partita, niente scariche elettriche ai genitali, niente immersioni fino al soffocamento dentro secchi di acqua traboccanti di escrementi. Giovani, ragazze, studenti, mamme. Sequestrati di notte, senza che alcuno assistesse. Tenuti nascosti, seviziati, precipitati nel Rio della Plata ancora vivi. Bambini fatti nascere nelle celle clandestine e dati “in adozione” agli amici dei militari. Il catalogo delle mostruosità sarebbe orfano senza gli anni ’70 argentini. E proprio in quel tempo nero, in quel lembo al termine della terra, si svolgeva uno degli eventi della giovinezza da me vissuti con più pienezza. Un evento sportivo manipolato e sudicio, fin dalla sua genesi: si doveva anestetizzare l’opinione pubblica, ed era opportuno, dopo oltre due anni di regime e terrore, suscitare febbre nazionalista. Lo stesso obiettivo ─ con altre armi e opposti risultati ─ che si sarebbe perseguito qualche anno dopo, con la scemenza delle Malvinas/Falklands.
Si iniziò a programmare il Mundial fin dal 24 marzo 1976, giorno in cui il regime di Videla prese il potere. Doveva essere la vetrina dell’Argentina, contro i detrattori. Contro il tedesco Paul Breitner e l’olandese Johan Crujiff, che restarono a casa. Non furono gli unici.
Non seppi nulla di Jorge Carrascosa, se non anni dopo. Non sapevo che il capitano della nazionale argentina, alla vigilia del Mundial e prima di Daniel Passarella, era lui, Carrascosa. Non era possibile opporsi al regime. Jorge fece una scelta di dignità e rifiuto. Come Bartleby, lo scrivano di Melville, disse “no”, nel modo più semplice e definitivo: ritirandosi dal calcio a neanche trent’anni, sparendo dalla circolazione. Senza spiegare nulla, mai, neanche nei decenni a venire. Si ritirò per non dare lustro a quel governo di assassini. Per non dover gioire delle stesse gioie di Massera e Gelli. E di Monsignor Pio Laghi, partner tennistico di Massera, che al dittatore battezzava i nipoti. Perché il suo nome non finisse imprigionato, nelle pagine della storia, in un abbraccio mortale con chi torturava e ammazzava in nome di Dio e patria.
Ricordo la felicità di quei giorni, della sera in cui mi recai a casa di un mio compagno, per vedere la storica notturna di Italia-Argentina, quella di Bettega; di me che imbastivo telecronache facendo il verso a Nando Martellini, e giocavo invaso dalla spensieratezza ingannevole di quei pomeriggi interminabili ─ ecco Causio che passa a Tardelli, lancio in profondità verso Bettega… ─ tra una partita vista in TV e un’altra.
Ho spesso pensato, da piccolo, di avere un sosia ─ non un gemello nelle fattezze somatiche, ma un «gemello di geografia» ─ in ciascun continente. Chissà cosa provava il mio alias sudamericano, in quei giorni per me di gioiosa eccitazione. Forse gli avevano rapito sotto gli occhi il padre; forse avevano torturato sua madre con la picana. Forse aveva un fratello maggiore che non avranno ritrovato mai più, desaparecido, scaraventato vivo nell’oceano, perché vestiva in modo stravagante o s’era fatto notare in un’assemblea all’università.
Il mio sosia avrebbe vissuto tutta la vita con il senso di colpa d’essere sopravvissuto a tanta crudeltà, mentre io annegavo nella mia beata futilità.
Non avevo capito niente.

[pubblicato su Mucchio Selvaggio, n. 653, dicembre 2008]

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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