dyptique: dire fari (Forlani vs Cipriano)
Un libretto delle assenze
di
effeffe
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In questi giorni di partecipato sole e alla deriva di solitarie passeggiate e solitario stare in camera, adesso che la neve è scomparsa totalmente dai prati, ora verdissimi, di ritorno a casa mi sono fermato all’altezza della rotonda oltre la Dora, a un passo da dove abito. Ho alzato lo sguardo per notare la differenza tra la lampada appena sostituita e le altre del viale alberato. La lucentezza che la faceva nuova di zecca, uscita di fabbrica, del metallo ricurvo non sarebbe sfuggita nemmeno a un occhio poco avvezzo così come la luce del lume più fredda e meno filtrata dalle polveri di smog e di vento. Perché il lampione in questione me l’ero trovato spezzato al ritorno di uno dei frequenti viaggi dello scorso inverno. I due ragazzi curdi che lavorano all’angolo me l’avevano raccontato. Un inquilino al quinto piano aveva perso ogni speranza, il lume della ragione al dolore della recente scomparsa dell’amata moglie e saltando giù si era come aggrappato all’ultima luce. Dell’incidente restava la segatura mescolata alla neve, sul selciato e il segno della testa del lampione sostituita, più nuova di tutte le altre.
Mi aveva impressionato non il corpo che non avevo visto, il gesto estremo, l’urlo, che non avevo sentito, ma il peso dell’assenza della luce nei giorni precedenti all’intervento di rimpiazzo. Un albero monco, di metallo, inutilmente genuflesso sull’incrocio, che sembrava quasi un inchino riverente ai passanti, era.
E di colpo pensai a quella volta che Paolo Mastroianni mi presentò alla sua amica antiquaria. In una delle vie che alla maniera delle radici sfilano dalla Reggia fin dentro al centro della città. Mi aveva assai colpito quell’immagine del crocifisso senza un braccio. Che un cattivo gesto aveva amputato, forse solo una distrazione noncurante nel trasporto. E se ne stava davanti a uno specchio anch’esso antico, sul ripiano di marmo e appoggiato a un orologio con le sue lance in posa di tempo. Pensai al miracolo della cosa. Che non era per il Cristo di risorgere,ogni volta, con il distacco dalla croce e il suo pellegrinare in terra. Il vero miracolo era di rimanere inchiodato per un solo braccio al destino. Così come il signore del quinto piano che aveva sfidato il lume e la sua gravità di peso, pensai. La luce se l’era portata via con sé, nascondendola tra la neve.
Lampioni
(la notte condivisa)
di
Domenico Cipriano
Guida all’ascolto*: “The Lamplighter”
(John Surman)
from the album J. Surman, Upon Reflection
(ECM, 1148)
Le cose, riflettei, sono meno fragili delle per-
sone. Le cose sono lo specchio immutabile
in cui osserviamo la nostra disgregazione.
Bruce Chatwin, Utz.
lampioni 1
Sono come tutto il mondo
un simbolo, un segno che gratifica
il pensiero, un caldo gemito
creato dal nero.
Na-Av, 7 gen. 2002
lampioni 2
Potrebbero esistere eterne
col fascino consumato del tempo
le luci arancioni sulle strade,
silenziose candele artificiali
che resistono all’alba.
Le guardo intenerito
ogni sera, quasi attendessi
una parola, in un sussurro
la rivelazione della notte.
Na-Av, 9 gen. 2002
lampioni 3
Ne farei statue imponenti
con il loro occhio grande, pensieroso.
Soffrono nel filtro giallo
un eroico sorriso.
Na-Av, 7 gen. 2002
lampioni 4
È impossibile contarli tutti
se riescono a illuminare
la vallata, sono formiche
senza movimento ma al lavoro.
Si spengono per negata
energia, morte naturale
di una vecchia lampadina,
occorre un by-pass di scorta
per superare la notte.
Na-Av, 23 gen. 2002
lampioni 5
Hanno il colore arancio dei lampioni
i segni degli attacchi notturni
strisce mutilanti dello spettacolo serale,
e sotto si nascondono i morti.
Pensa la vita al ritorno di operai,
frutto di una missione eroica
ritornare a casa, e loro,
i morti, non hanno virtù, né casa,
solo un accidentale passaggio
di notte condivisa.
Na-Av, 23 gen. 2002
lampioni 6
Le luci spoglie filmano
la presenza nella notte
col filtro giallo nei contorni.
Passaggi di autobus sulle loro storie
di ombre, imprudenti fantasmi
tesi negli sguardi rubati
ai volti di capannoni vuoti.
Na-Av, 23 gen. 2002
lampioni 7
C’è il buio tra partenza
e arrivo, il nero privo
delle luci. Un vuoto
da colmare col pensiero
in cui disegno una candela,
così chiudo la notte
nella cera e il freddo
ne custodisce la forma.
I commenti a questo post sono chiusi
Hem… ho visto solo io il gesto nazzista.. del crifisso riflesso..?
(la foto purtrppo stà prima del brano esplicativo)
Credo di avere letto due bei testi pur nella differenza di forma: una prosa classica e neutra, colta, per dire il vuoto che arpeggia suoni nell’esistere quotidiano, una poesia dal lessico quotidiano che dice il buio come fine naturale, e iltorpore vuoto come situazione permenente dell’essere hic et nunc, secondo i dotti. Apprezzo e , naturalmente , approvo.
Ci mancano veri lampioni di etica luminosità.
Hem… ho visto solo io che il lampione impacchettato somiglia agli alberi impacchettati di Christo?
Confesso di esser rimasto affascinato nella lettura di entrambe, quella diffusa volontà (non sempre raggiungibile) di trasportare il lettore verso una flessione spaziale è stata raggiunta in toto. Come sempre estimatore di Cipriano, della sua fresca e concreta voce, incredibile persopoeta.
Abrazos
… ho visto adesso le vignette di Vauro mandate in onda ad annozero presentano il precario in croce appeso solo per un braccio…
L’idea di mettere “in busta” la luce è molto suggestiva. Ti fa pensare che te la puoi portare in giro. Come un Diogene post-moderno nella stoica ricerca della verità. Ma un lampione non è di per se la luce. E non si muove. Il nostro post-moderno Diogene non saprebbe più cosa cercare. E soprattutto resterebbe fermo. Immobile. Appeso. Come la luce utile ma fissa di un lampione.
Ciao FF
Di energie artificiali, la barba dei lampioni. Di luce e miniera segnacolo, talpa sbucata dai cieli.
Ancora complimenti.
Indiani Vesuviani
i lampioni, usa-e-getta delle nostre emozioni, li amiamo, li odiamo, li benediciamo, gli diamo calci, li abbracciamo per sostegno, li usiamo per sbatacchiare la nostra ira…..poi c’è qualcuno che li immortalizza in poesia…
Belle, belle belle, entrambe le espressioni. E profonde nello scuro della vita.
Ma lo stile di Francesco Forlani è inconfondibile. Leggevo e mi suonava dentro la sua voce, quella del photoshoperò, o come diavolo si chiama.
Mi piacciono:nella rivelazione della notte, nella “notte condivisa” dove passeggiano anche i morti. Sì, che mi piace.
Nel racconto di Forlani c’è un gusto al muoversi con le cose della stessa matrice.Perciò com- muove. .
Sono le cose sempre più a testimoniare di noi del tempo, più dell’io stesso,
Maria Pia Quintavalla..
Le cose, riflettei, sono meno fragili delle per-
sone. Le cose sono lo specchio immutabile
in cui osserviamo la nostra disgregazione.
Bruce Chatwin, Utz.
Ho apprezzato entrambi i testi e ho avuto modo di trovare una chiave di lettura nella frase citata da Chatwin..
In Forlani ho rivisto Torino come in alcuni racconti di Arpino, una descrizioe fredda lucida disperata anche.
C’è una luce piccola che trema sull’orla della vita.
La scrittura di effeffe è poetica, libretto del mondo fragile.
Un fremito, una foglia pallida, un murmuro.
La storia dell’uomo aggrappato all’ultima luce, all’ultimo fantasma
entra nella mente, velata, nella ferita di un lampione.
La presenza di effeffe è sempre una grazia.