Articolo precedente
Articolo successivo

African Inferno

pallavicini

di Marco Rovelli

Del romanzo “African inferno” di Piersandro Pallavicini (ed. Feltrinelli) alcuni giornali di destra hanno parlato bene, a fronte di un apparente silenzio di quelli di sinistra. Sul suo blog (a cui rimando per valutare l’ampiezza del dibattito), l’autore ribadisce la sua provenienza da sinistra. Ora, il libro di Pallavicini non è politically correct: ecco, è proprio questa la sua forza di sinistra (perciò a mio parere non c’è forzatura anti-ideologica in questo non esserlo). Il politically correct troppo spesso rientra in un vizio di formalismo “ideologico” che perde di vista le persone e le dinamiche concrete del reale. E’ evidente che due culture a confronto si devono assestare, perché ogni cultura è complessa e stratificata, e, visto che in ogni società esistono dominanti e dominati, porta i segni della dominazione. Ogni cultura insomma è ricca di contraddizioni. L’ingenuità (e dunque: i buoni da una parte e i cattivi dall’altra) non fa bene a nessuno, proprio perché riduce la complessità, e impedisce di comprendere il reale. Dopodiché va da sé che, come posizione etica, è assolutamente preferibile un ragazzo che ha fiducia nella ricchezza dell’altro piuttosto che un cinico che si adagia sul potere e sulla irriducibile non integrabilità delle culture: e temo che sia questa la motivazione di certa destra nell’apprezzamento del libro di Pallavicini, perché lo legge in modo da coltivare la propria cattiva coscienza. Il punto, allora, è che la questione non è di buoni e cattivi, ma è quella di comprendere che, per uscire dalle scosse di assestamento di una società in trasformazione, occorre affermare il principio elementare (ma oggi sotto attacco) del diritto universale. E’ solo tramite il riconoscimento dei diritti (umani e di cittadinanza: una legislazione inclusiva e non esclusiva) che possiamo pensare a una società multiculturale. E operare nella sfera dei diritti, questo solo noi “garantiti” dai diritti di cittadinanza possiamo farlo.

Print Friendly, PDF & Email

25 Commenti

  1. Nell’odierno assetto politico-economico mondiale, anche i diritti umani sono stati privati della loro universalità metapolitica e sono divenuti diritti politici dei cittadini (o meglio del cittadino, visto che l’ottica “occidentale”, a partire dagli Stati Uniti e dall’Onu, è a favore del diritto del singolo, del cittadino, e misconosce i diritti collettivi), entrando a far parte di un gioco postpolitico di negoziazione di interessi particolari. E nella difesa dell’uomo in quanto cittadino non rientrano i diritti di coloro che sono ridotti alla non-umanità, dunque alla non-cittadinanza, ossia dei due terzi degli abitanti del pianeta.
    Su questo è illuminante “Contro i diritti umani” di Slavoj Zizek (ed. it. 2005)

  2. Il politicamente corretto ammorba, nasce per buone ragioni e degenera rapidamente nell’ottundimento o nell’autocensura. Ce n’è moltissimo in rete. Pure qui su NI. Sono curiosa di leggere il blog di Pallavicini ma non l’ho trovato, non metteresti il link, se lo hai? grazie Marco.

  3. @effeffe
    quando si è affermato un comportamento virtuoso da parte di una autorità “morale” o “politica” (li metto tra virgolette perché non mi riferisco solo a istituzioni, ma anche ad addensamenti o magari invece a reticoli di pensiero che si considerano per qualche ragione identitari, come succede spesso a sinistra) un comportamento virtuoso che si è definito non attraverso una esperienza, personale o intellettuale, ma attraverso una specie di consegna di idee, del genere: “è così che si pensa per pensare bene”, è difficile che si mostrino i propri dubbi, le proprie scelte di pancia, non si vuol restare “soli”. E invece di manifestarli e metterli alla prova, li si nasconde, spesso anche a se stessi.
    Ci sono moltissimi argomenti tabù, la Serbia è il primo che mi viene in mente, ma anche la genitorialità omosessuale, il razzismo, la xenofobia, l’antisionismo. Tu davvero pensi che la gente dica la verità, quando dice non sono razzista o non sono xenofobo? Non si azzarderebbe mai. Io non sono affatto convinta che sia un bene essere antirazzisti o antixenofobi in questo modo, soprattutto antixenofobi,si nasconde solo sotto il tappeto un grumo che sarebbe stato molto più sano sciogliere in pubblico.
    Chiedersi perché c’è questo istinto di chiusura nei confronti dell’altro, che fa dire, qui è casa mia, andare a vedere da cosa nasce, capire che anche l’altro lo prova a casa propria, che probabilmente è la memoria millenaria di un istinto di autodifesa, e medicarlo “davvero”, questo bisognerebbe fare, ma se si dice subito è male, è scandaloso, se lo provi sei un reprobo, ti mentiranno sempre tutti e soprattutto, SI mentiranno sempre tutti, per non sentirsi “cattivi”.
    Perciò tutto questo antirazzismo etc rischia di rimanere superficiale, di maniera, fragile.
    Come si fa ad accogliere interamente un altro se non si è capaci di accogliere interamente se stessi, anche nel peggio, io non lo capisco, se non come una rappresentazione culturale di facciata.

  4. E’ una riflessione che sto facendo proprio in questi giorni attraverso la figura dell’Idiota di Dostoevskj. Un personaggio che probabilmente disarciona questa sorta di limbo morale – i cattivi sono loro- così magnificamente sostenuto dal “pensiero unico” . In questo senso il maggiore tabù è sicuramente quello del progresso, soprattutto per le sinistre. Come due maestri – altro tabù contemporaneo- avevano ben visto, Christopher lasch e prima di lui George Orwell. In questo momento, per esempio, la mia massima simpatia va a un personaggio concettuale che all’orecchio sinistro suonerebbe quasi come conservatore, per non dire reazionario: la persona per bene. (proprio così, staccato) Per capirci quello che a Napoli preso in una situazione per certi versi estrema, si lascia cadere le braccia sussurrando “ecchecazz!”
    Common decency, la chiamavano i nostri, appunto, maestri.

    effeffe

  5. La formula “persona per bene”, che sembrerebbe una cosa semplice, in effetti è una delle più contrastate:-)

    forse soprattutto nell’accezione “la gente per bene”, la gente per bene è subito letta come filistea

  6. Ops… ho digitato un comando sbagliato…
    A proposito di “gente per bene”, proprio in questi giorni sto considerando la possibilità di fare uno strappo alla mia non-partecipazione ai diritti-doveri del cittadino, e mettere una crocetta, quando sarà il momento, sul nome di De Magistris…

  7. @alcor … il tuo ragionamento dà parola esatta alla mia idea intorno al perbenismo etc etc … nel frattempo, però, mi viene un dubbio: non cadiamo nello stesso errore di chi rimuove la propria difficoltà di fronte alla realtà, conformandosi al buonismo/benismo/giustismo… dominante (forse, in realtà spero), quando troviamo negli altri questi comportamenti, certi come siamo (in alcuni passaggi storici e sociali) che l’ipocrisia sociale e morale non ci riguardi, che “politicamente” ci sono quelli… insomma che il male non ci sfiora e invece gli altri ci sguazzano e per di più senza accorgersene … purtroppo mi sembra, ma non mi sto riferendo a te, anzi a me per primo, che un po’ “filisteo” (… ci siamo intesi anche se la parola è sbagliata) lo sia ciascuno di noi… è un vero casino, insomma.

  8. @vito

    non dico che l’ipocrisia sociale e morale non mi riguarda, al contrario, se ho detto quel che ho detto è proprio perché ne ho fatta esperienza personale, solo che con gli anni si aguzza la vista, magari, certi meccanismi di cui una volta non ci si accorgeva si vedono più chiari, io ho avuto una giovinezza ideologica, diciamo che sono stata esposta direttamente al virus e ho qualche anticorpo in più pur continuando a credere sostanzialmente in quel credevo e per delle ragioni che mi parevano buone sia allora che adesso, ma deleghe non ne do più e penso che non dovrebbe darle nessuno, almeno quando si pensa

  9. Nel discorso di Alcor c’è qualcosa che non funziona.
    Lei sembra asserire che il politically correct è una vernice che maschera la vera natura humana, le vere pulsioni.
    E le vere pulsioni è meglio che si manifestino, come “un grumo che sarebbe molto più sano sciogliere in pubblico”…
    Anche a me non piace il politically correct, ma non mi nascondo la sua utilitas.
    Sono infatti convinto che violenza, razzismo e quant’altro consideriamo politicamente riprovevole, sia di fatto insediato nella natura umana per via genetica, vale a dire “naturale”, e che compito della cultura sia combattere e contrastare costantemente la natura, sia “fuori” che “dentro” di noi.
    In questo quadro – che occorre completare con un altro dato importante: la non-esistenza dell’individuo come lo concepiamo noi – il politically correct agisce da argine artificiale a contenere e tenere sotto controllo pulsioni del tutto spontanee di origine evolutiva, presenti nell’umano come nel pre-umano e nel non-umano ancestrale…
    Il nostro essere «di destra» consiste appunto nella legittimazione ideologica di queste pulsioni naturali.
    Mentre la sinistra è essenzialmente cultura di opposizione al naturale.
    Se la smettessimo di considerarci spiriti liberi (Houellebeq ha le idee chiare in proposito) e cominciassimo a vederci per quello che siamo, cioè prodotti genetici il cui sviluppo è influenzato da ambiente e educazione, le cui idee sono originali per una piccolissima percentuale e per il resto sono «ricevute», apprezzeremmo di più le idee «ricevute», appunto.

  10. Se sei convinto che “compito della cultura sia combattere e contrastare costantemente la natura, sia “fuori” che “dentro” di noi” non dovrebbe bastare neppure a te, anche l’opportunismo del politicamente corretto fa parte della “natura”, è un meccanismo di autotutela sociale all’interno di un gruppo, anche.
    Il politicamente corretto ha un ruolo importante quando aiuta a far massa sufficiente da portare alla correzione di leggi inique, in questa misura mi va bene, ma quando diventa un automatismo del pensiero, o del non-pensiero non mi va più bene. Persino quando mi fa comodo.
    Anche perché è un meccanismo fragile e per tenerlo in piedi ci vuole un dispendio di propaganda enorme, mentre riconoscere le pulsioni e combatterle attivamente prevede maggior fatica, ma dà risultati più stabili, insomma, educazione, che è quello che tu chiami compito della cultura, invece di passività.

  11. @alcor
    so che non sei d’accordo, ma io sono convinto che quello che tu chiami “pensiero” sia quasi sempre automatico.
    ed è un bene che sia così.
    quella che chiami passività (e che io chiamo spirito gregario) è necessaria alla convivenza e non si distingue, se non in qualche dettaglio più teorico che di sostanza, da quella che tu chiami educazione.
    insomma l’umano è tipologico.
    l’educazione è un processo di formattazione preventiva per implementare lo spirito gregario e interiorizzare le regole: ma l’interiorizzazione è sempre molto superficiale, lo spirito ferino resta acquattato sul fondo della “coscienza” e il politicamente corretto può servire a tenerlo a bada.
    io so di avere un'”anima” di destra e cerco di tenerla a bada, non mi illudo di “essere” di sinistra, perché la sinistra è una veste, una (per me necessaria) forma mentis culturale, niente di “essenziale”, vale a dire di riconducibile ad una ipotetica “essenza naturale” humana…
    (le virgolette sono necessarie quando si usano termini del cui referente non si è sicuri…)

  12. guarda che stiamo dicendo cose simili, la differenza è che il tuo quadro è più statico e fondamentalmente più pessimista, diciamo che il tuo pessimismo è apocalittico, mentre il mio è solo intellettuale e prevede prassi, cura e pedagogia, tu credi che ci voglia il Mose per tenere l’Adriatico fuori dalla laguna, mentre io penso che si possa lavorare anche sulla tenuta delle barene e la limitazione delle valli da pesca

  13. perdonami tash, sono stata approssimativa e frettolosa nella definizione di pessimismo, e anche riduttiva, salvo solo la laguna, ma adesso non ho tempo per pensare

  14. berlusconianamente pensavo che per la laguna potesse andare bene una soluzione ampiamente sperimentata altrove nelle terre basse: la diga.
    mobile o no che sia.
    mi piace l’idea del mose e credo che la limitazione eccetera sia un palliativo a fronte dell’innalzamento dei mari.
    ed è probabile che non basti nemmeno il mose.
    anzi è sicuro.
    però io non sono né pessimista nè apocalittico: solo percepisco l’umano in modo differente da te: nessuna sacralità, poca individualità, totale animalità e un luminoso destino di distruttore di specie animali e di pianeti.
    nessuna apocalisse, solo qualche catastrofe.
    quelle non ce le toglie nessuno.
    forse di auto-distruttore

  15. @ tash

    sono pienamente d’accordo con te, in particolare per l’autodefinizione “né pessimista né apocalittico”.

    Infatti se è vero che “qualche catastrofe non ce la toglie nessuno” – avendo sempre pensato che la catastrofe è l’unica, vera, forza riformista – ci rimane sempre una speranza.

  16. Molto strana questa affermazione: “Il nostro essere «di destra» consiste appunto nella legittimazione ideologica di queste pulsioni naturali.
    Mentre la sinistra è essenzialmente cultura di opposizione al naturale”.

    Come dire che chi è a sinistra combatte contro la sua stessa “natura”, mentre a destra si accetta e si asseconda la propria natura.

    Ma il “chi” e il “cosa” decide di stare a sinistra o a destra è naturale o culturale?

    Insomma viene rispolverato Hobbes: homo homini lupus.

    Faccio notare di passaggio come la concezione hobbesiana dello Stato
    inauguri in modo palese la lunga stagione occidentale della biopolitica e del biopotere – di quelle concezioni politiche, cioè, che fanno del bìos, della vita, l’elemento cruciale dell’esercizio del potere e del controllo sociale.

    Se uno poi si prende la briga di leggersi almeno le prime 45 pagine di Le strutture elementari della parentela di Claude Levi- Strauss si accorgerà con i fatti alla mano (niente opinioni), che la distinzione in bianco e nero è assolutamente artificiale, che natura e cultura sono in una relazione molto più articolata e complessa di chi vuole mostrarla come il male contro il bene.

  17. massì, tutto è più complesso di quel che sembra e molte sono le pagine di cui abbiamo mancato la lettura, tuttavia non credo che natura sia male e cultura sia bene: penso che male e bene non esistano e che la convivenza umana possibile a patto di reprimere alcune pulsioni fondamentali, a patto di ritualizzarle, irregimentarle nella norma, eccetera: cioè a patto di arginarle con la cultura e la cultura è, perciò stesso, sinistra, in quanto combatte sopraffazione, gerarchia, uso strumentale dell’altro, razzismo, schiavitù, eccetera, tutte cose che esistono ancora, sono ben vive in quanto secreto del cosiddetto animo umano, co-esistono nel mondo civilizzato dalla sinistra che è mitigazione, ragionevolezza, giustizia, eccetera…

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

L’incredibile vicenda di Baye Lahat. Storie di un paese incivile.

di Marco Rovelli (Ho rintracciato questa vicenda in rete. Per adesso non è ancora uscita dal perimetro sardo. Grazie alla rete...

Il mago dell’Esselunga e il laboratorio della produzione

di Marco Rovelli Quando vai a fare la spesa all'Esselunga ti danno un film in regalo. Grazie, dici. Poi, se...

12 dicembre

Le nostre vite gettate sul tavolo verde della finanza – Per un audit del debito pubblico

di Marco Rovelli Stiamo soffocando di debito pubblico. Ma che cos'è davvero questo debito sovrano? E' da poco uscito, per...

Severino Di Giovanni

di Marco Rovelli Ha scritto Alberto Prunetti sul suo profilo facebook: “La storia dell’anarchico Severino Di Giovanni di Osvaldo Bayer,...

Un altro sogno di Madeleine

di Marco Rovelli Madeleine si guardava intorno, non c'erano più né alto né basso. Il sogno ruotava su se stesso,...
marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: