un’assoluta indifferenza verso se stessi

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di Chiara Valerio

Non so se ho molto da raccontare a proposito di questo viaggio, perché è stata soprattutto una storia di paesaggio, e di paesaggio attraversato in macchina. Mi sono fermato spesso per fare fotografie, erano come degli appunti visivi, quella pampa, quella estancia, quel colore della terra, quelle montagne sullo sfondo. Orizzonte mobile di Daniele Del Giudice è un libro di sguardi. È un diario nel quale le coordinate geografiche prendono il posto delle date. Il resoconto ordinato di un intervallo di spazio più che di tempo. Tra la Terra del fuoco e la banchisa australe, a 62°13’ sud e 58°54’ ovest, a Punta Arenas o Puerto Natales, a 90°00’ sud e 139°16’ ovest.

Come in tutti i diari che si rispettino, vi si incrociano paesaggi e persone. E le persone più che caratteristiche del luogo, sono funzioni. Come le montagne, i fiumi, le fattorie, le carreggiate sud non asfaltate. Chi ha studiato un po’ di matematica sa bene quale affilato determinismo stia dietro alla dichiarazione che qualcosa è funzione di qualcos’altro. Come in una singolare commedia geografica delle maschere Del Giudice premette una spedizione immaginaria a viaggi realmente viaggiati, uno suo e gli altri di esploratori quasi novecento. A tempi sfasati e luoghi ricalcati. Tutti viaggi suoi alla fine, di Del Giudice, ruminati e forse riscritti a partire dai diari degli altri perché Per sua natura, la Storia non è che scrittura in una forma diversa.

La scrittura di Del Giudice è ghiacciata e piena di vento muta i paesaggi in passaggi, abbacina, muove nostalgie che lasciano spossati. Perché col libro in mano, fermi a leggere, i fusi orari assomigliano tutti a quello avvelenano de La bella addormentata. E quindi un po’ è seduzione, un po’ attesa che qualcuno giunga, un po’ dolce dormire, un po’ lasciare che il tempo passi, che il ghiaccio si formi crocchiando come cristallo e che il mare si chiuda e ci lasci camminare sulle acque senza miracoli, quasi fossimo sul tetto di vetro delle stazioni. Col mondo che trascorre sotto i piedi. (…) nel più profondo dei ghiacci si lavora per le galassie e per le supernove. È come guardare le stelle nel pozzo.

Il pozzo dei racconti di Del Giudice, dove pozzo sta per fondo, per frescura e per riserva è l’esattezza. La necessità di catalogare così da arginare quelle descrizioni che, per costruzione, si tirano dietro l’interpretazione, la narrativa, la supponenza e il possesso. Le coordinate geografiche d’altronde sono asettiche, possono essere disegnate e condivise. Non sono di nessuno, nemmeno di chi le segna. Del Giudice è scrittore che abita senza colonizzare, la sua punteggiatura è essenziale, la struttura delle sue costruzioni è tensioattiva, leggera e nel contempo pronta a grossi carichi. L’ipnosi del paesaggio, la nostalgia, l’impossibilità, come rideva Bufalino, a riessere, la colpa miracolosa di ricalcare, ripetere, girare in tondo, aspettare qualcosa o qualcuno a un varco. Lì la distanza tra un meridiano e l’altro era di una cinquantina di chilometri, ogni settantacinque cadeva un fuso orario, volando lungo quella circonferenza si poteva rimettere ogni dieci minuti l’orologio, un’ora avanti o un’ora indietro, come vuoi, tanto è quasi sempre giorno e quasi sempre notte, e passare e ripassare il ‘date line’, illudersi di precedere il mondo di un paio di giorni nel calendario e aspettarlo poi da qualche parte.

Qualche parte è ancora uno spazio. E probabilmente i resoconti di viaggio, gli appunti attoniti e meravigliati del viaggio in auto del 1990 sono quelli che mi hanno fatto allungare la mano verso il mio vecchio atlante geografico a verificare che, nell’appendice fotografica, ci fossero immagini di quei luoghi. Certe osservazioni di Del Giudice chiamano infatti verifica immediata perché la bellezza delle parole ti toglie il fiato e quasi immobilizza, così che vorresti avere gli occhi puntati su quei luoghi per poter dire Posso calpestarli e riportarli a misura d’uomo. Quello che manca a Orizzonte mobile infatti è proprio la misura dell’uomo, il sudore, il tentennamento, è un libro infinitamente bambino, smisurato, infinito, evocativo, potenziale. Un diario di spazio perduto all’ombra di esploratori in fiore. Ogni continente ha la sua letteratura, (…) e l’Antartide non è un caso diverso dagli altri. In questo momento non penso al Gordon Pym di Poe (…) mi riferisco invece ai libri di Shackleton, di Scott, di Mawson, di Bove, De Gerlache e di altri, che nacquero qui. (…) sono gli ultimi e veri grandi racconti di avventura, il genere che Stevenson, nella sua classificazione del romanzo, definiva il più sensuale, dove gli autori furono anche personaggi e parti in commedia.

D. Del Giudice, Orizzonte mobile, Einaudi (2009), pp. 142, € 16,50.

A latere

Ma come potrebbe essere un viaggio avventuroso e alla fine del mondo se ogni mattina c’è la telefonata di mia madre?. Eppure io devo a mia madre la passione per la geografia e, accidentalmente, per l’Antartide e la fine del mondo. Mia mamma ha sempre comprato cartine mute. Di quelle formato A4 che a metà degli anni ottanta, e forse ancora, si vendevano nelle cartolibrerie. Insieme alle penne e ai quaderni stavano squarci di mondo incolori, apolitici, piani, dove i fiumi erano linee più o meno tortuose e il mare e la terra quasi interscambiabili, ghiacciati pure. Nelle cartine mute il bianco è sempre bianco e l’unica cosa che conta sono i bordi. Nelle cartine bianche ogni pezzo di mondo è Antartide.

“Bisogna tenere i libri distanti dai dolori. Capisce cosa voglio dire?” (Lo stadio di Wimbledon, 1983)
“È impossibile ricordare tutto”, invocheresti la distrazione perché è la sola che scampa al dolore (Orizzonte mobile, 2009)

In Natura morta Antonia S. Byatt osserva che certi colori per manifestarsi aspettano certi pittori e che per esempio il giallo attendeva Van Gogh. Io credo, e comunque mi rallegra pensarlo, che il bianco ghiaccio abbia davvero aspettato la penna di Daniele Del Giudice.

Poiché il suo animo è sensibile, si lascerà conquistare dalla bellezza delle forme. Resista. Cerchi un altro tipo di attenzione. Tuttavia sono contenta che in Antartide non siano arrivati i due punti.

[La fotografia in apice è di Lavinia]

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3 Commenti

  1. Aspettavo che qualcuno ne parlasse su Nazione Indiana.
    Ringrazio Chiara Valerio che lo ha fatto.

    Sarebbero necessarie motivazioni convincenti per sostenere quella che, per me, è la collocazione di Daniele Del Giudice nel panorama delle letteratura italiana contemporanea, ma non ne sento il bisogno. Se, chi è interessato a sapere quale sia la grandezza di questo scrittore, si accosta alle sue opere, non può più avere alcun dubbio.

    Per dire dove, secondo me, bisogna collocare Del Giudice, userò ciò che è stato detto di un altro grande scrittore italiano: “in alto e discosto da tutti”.

    Dice Chiara:”la struttura delle sue costruzioni è tensioattiva, leggera e nel contempo pronta a grossi carichi”. Non so se interpreto bene il suo pensiero, ma questa cosa me la sono detta più volte a proposito di Del Giudice: è l’unico che sia riuscito a superare la dicotomia Calvino/Gadda. La sua scrittura è oltre il manierismo/classicismo.
    Fa categoria a sé.

    E non sarò certo io a proporne una definizione, un termine che lo individui.

    Solo mi viene in mente un nome, fuori della letteratura, Canova.

    Bazlen, Voltaire, Alitalia, ciclotrone di Ginevra, e ora questi che non conosco tutti. Ma conosco Shackleton e Scott, posso tentare di immaginare cosa mi aspetta.

    [Il libro non l’ho ancora letto perché aspetto vacanze serene. Non si può affrontare Del Giudice sapendo che potresti essere costretto ad interrompere, perché c’è qualcosa che “devi fare”.]

    Ciò che Chiara indica come “dolore” – nello stesso modo di Del Giudice – per me è fatica dolorosa. La fatica dell’affrontare l’assenza.

    I segni più chiari, nella pareti della casa di Voltaire, lasciati dai mobili che non ci sono più

    L’addetto alla verniciatura, all’areoporto di Ginevra, che attraversa la grande I, vuota, del pannello per verniciare il logo.

    In “Atlante occidentale”

    Ora, Shackleton.

    Banalizzare tutto quel ghiaccio come pagina bianca mi pare necessario, perché: “Annientato nella sua autonomia, il finito riassume importanza come cifra del trascendente” (Cases).

    Insomma, parafrasando una frase dello stesso Del Gudice: “Ogni scrittore utilizza il suo materiale, scrivere sul ghiaccio non è un caso diverso dagli altri.”

  2. a parte un certo metaforismo del testo di chiara e il mio non concordare sul giudizio che viene dato del libro, convergo in pieno sulla bellezza delle carte mute e, in generale della conformazione (formazione?) geografica: da piccolo e anche da grande e anche da molto grande nel senso di quasi anziano mi sono applicato con costanza alla progettazione et raffigurazione di luoghi geografici non esistenti, cioè di invenzione, disegnando cartine a colori di spiagge e golfi e promontori con rovine archeologiche stratificate: godo enormemente nell’osservazione della geografia inestricabile delle terre fuegine et patagoniche descritte dal Del Giudice e da tutti quelli che l’hanno fatto prima di lui: possiedo una carta nautica della zona di Capo Horn: terra e acqua: corridoi e stanze d’acqua, sentieri d’acqua strettissimi, nell’apparenza cartografica, forse molto più ampi nella realtà.
    detto questo non ho molta voglia di andarci in quei luoghi: mi sanno di troppo freddo e di troppo nudo e di troppo ferocemente indifferente e di troppo tempestoso: come la superficie desolata di un pianeta lontano, deserto, inutile.
    troppo prossima al nulla antartico, troppo vento, troppo gelida l’acqua.

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