Autismi 8 – Terapia di accoppiamento (1a parte)
di Giacomo Sartori
L’unica parvenza di attività in comune erano ormai i disegnetti infantili. Le casette con la spirale di fumo e la palla del sole, i caparbi omettini filiformi, le montagne a seghetta, il mare con le sue ondine. Niente sesso, niente conversazioni intriganti, niente cenette a lume di candela, niente cinema sul canale, niente televisione con i semi di zucca, niente delle cose normali che fanno le coppie. Guerra fredda. Interrotta appunto dalle sedute del mercoledì pomeriggio. Centoventi euro per disegnare un’ora come dei bambini. Il che fa due euro al minuto. Un euro ogni trenta secondi di disegnetti, sborsato da un marmocchio di un’età cumulata di novantacinque anni, quasi novantasette.
Di solito litigavamo anche sulla maniera di andarci, quindi ci ritrovavamo nella sala d’aspetto. Se io per esempio annunciavo che preferivo andare in bicicletta lei prendeva la metropolitana, se lei optava la bicicletta io andavo un pezzo a piedi e poi in autobus, e via dicendo. Manco a dirlo era nei quartieri ricchi al capo opposto della città, quindi c’era da sbizzarrirsi.
Nella sala d’aspetto ci lanciavamo uno sparuto grugnito di saluto, e poi ognuno si faceva gli affari suoi. O meglio, se uno leggeva i pieghevoli concernenti le più svariate pratiche yoga e spirituali sparpagliati sul tavolino di bambù c’era da scommetterci che l’altro metteva la testa nel libro che s’era portato da casa, se uno tirava fuori il romanzo che aveva in tasca l’altro decifrava caparbiamente gli annunci della bacheca sugli stage di rilassamento o di sviluppo personale, o sul passaggio nella metropoli della data guida spirituale orientale.
Faceva poi capolino la terapeuta con il suo sorriso incoraggiante da terapeuta, e guardandoci a turno e terapeuticamente negli occhi diceva che potevamo accomodarci e iniziare il nostro lavoro. Lei lo chiamava lavoro, insistendo molto sulla seconda sillaba, in modo da sottolinearne la pregnanza, ma anche l’incondizionata benevolenza che l’avrebbe accompagnato. Come appunto si fa con i bambini dell’asilo. Già prima che ci fossimo levati le scarpe e accomodati erano partiti due euro, si andava a rapidissimi passi verso i quattro.
Per la nostra terapeutica attività creativa la terapeuta ci dava dei normali fogli A4. E ci diceva per esempio che dovevamo fare un disegno che corrispondeva alla data parola, o che rappresentava noi stessi, o la nostra coppia. Ognuno di noi prendeva un foglio, e si serviva dei pennarelli da bambino o dei pastelli a cera di suo gusto, facendo beninteso attenzione a non incontrare la mano dell’altro, o peggio ancora lo sguardo. Poi si metteva all’opera. Ciascuno nel suo angolo, dandosi le spalle.
Io un po’ mi vergognavo, perché per quanti sforzi facessi i miei disegnetti risultavano dei disegnetti da bambino completamente deficiente. Cercavo per esempio di ottenere un effetto prospettico, e il risultato era una goffa disarticolazione dello spazio che faceva pensare a un terremoto immortalato da un paziente parkinsoniano. Mia moglie invece ha sempre disegnato bene, quindi secondo me partiva avvantaggiata. La terapeuta aveva molto insistito sul fatto che non contava niente essere dotati o meno per il disegno, ma io restavo pur sempre convinto che partisse favorita. I suoi disegnetti non sembravano i disegnetti di un bambino mentecatto: erano armoniosi, aggraziati.
Dopo svariate decine di euro di disegnetti, per esprimersi direttamente in euro, venivano i commenti della terapeuta. A dispetto delle mie paure parlava dei miei sgorbi con una solennità trattenuta, manco fossero delle opere di un grande artista. Trovava sempre qualche particolare molto interessante, e che secondo lei esprimeva qualcosa di positivo. Un indizio di un’indole promettente, l’epifania di una nobile disposizione del mio spirito. Poi però mi faceva notare per esempio che la persona che avevo disegnato aveva le braccia staccate dal corpo, o che i piedi non toccavano per terra. Cosa voleva dire secondo me il fatto che i piedi restassero sospesi nel vuoto o che le braccia delle persone non entrassero in relazione?, mi chiedeva, sempre mantenendosi incollato alla faccia il suo sorriso incoraggiante. E io dovevo rispondere. Idem con mia moglie: prima le faceva molti complimenti, poi la tartassava.
A un certo punto guardava l’orologio, e ci invitava a approfittare dei cinque minuti che restavano per dire in maniera molto sintetica cosa avevamo tratto dalla seduta di quel giorno. Mia moglie aveva immancabilmente da spiattellare un sacco di cose, perché è una persona capace di ricavare una valanga di impressioni dalla più infima cacchina di mosca. Diceva che aveva imparato questo o quello, e che aveva capito quest’altro, che avrebbe approfondito quest’altro ancora. La terapeuta la contemplava come si contemplano gli allievi che danno molta soddisfazione. Lei continuava a parlare, e la terapeuta continuava a contemplarla con ammirazione. Bene-bene!, continuava a ripeterle.
Io invece sbrodolavo qualche frase che non voleva dire pressoché nulla, e poi mi arenavo. Bene-bene!, mi incoraggiava la terapeuta, come a dire che l’inizio era stato molto promettente. Per invitarmi a continuare assentiva con il capo, e faceva gli occhi grandi. Io fissavo lei e lei fissava me. Non c’era nessun motivo perché mi interrompessi, sembrava dire la sua vibrante benevolenza nei miei confronti. Io non sapevo proprio a che santo votarmi, per riempire i due minuti e mezzo, equivalenti a cinque euro, che mi toccavano. Mi sentivo le gocce di sudore sul collo e sulle tempie. Tra il resto mi scocciava che mia moglie mi vedesse in quelle condizioni.
Finita la tortura riassuntiva saldavamo il conto. Mia moglie pagava i suoi sessanta euro con un assegno, e io i miei sessanta euro in contanti. Vivevo in quel posto da quindici anni, ma non avevo ancora un conto in banca come tutti. I sessanta euro sgualciti nella tasca dei pantaloni venivano dai miei buchi nella terra durante quelle che tutti lì chiamavano le vacanze, in quello che mia moglie definiva il mio fottuto paese di origine. La terapeuta ci salutata fissandoci terapeuticamente negli occhi, e poi scendevamo le scale con l’odore di rispettabile palazzo parigino. E ci avviavamo verso casa. Ognuno separatamente, perché era escluso che avremmo trovato un accordo sulla forma di trasporto e sui dettagli connessi.
Il mercoledì successivo la terapeuta sporgeva di nuovo la sua testa sorridente nella sala d’aspetto: si mostrava ancora una volta molto felice di vederci. Mentre ci scortava verso il suo studio stringeva i palmi delle mani uno contro l’altro, e teneva i gomiti un po’ sollevati, come appunto quando ci si appresta a fare qualcosa di gradevole. Sempre sorridendo con gli occhi e con la bocca dava a ciascuno di noi il solito foglio A4, e metteva nel mezzo la scatola dei pastelli a cera o delle matite colorate. Mentre disegnavamo vegliava su di noi come un pastore si occupa delle sue pecore, come una missionaria premurosa. E quando avevamo finito faceva a ciascuno di noi dei complimenti, e con le solite domandine ci svelava gli arcani di questo o quel dettaglio. E ci tartassava.
Quasi sempre mi diceva che dovevo sedermi meglio. Secondo lei stavo appollaiato sulla punta del divano: tutto rigido, tutto rannicchiato su me stesso. E tenevo chiuse le mascelle come se fossero delle tenaglie di ferro. Non fa bene tenere le mascelle tese come le tenevo io, mi spiegava. Io allora retrocedevo con il sedere fino ai terapeutici cuscinoni, e facevo quello che è rilassato. Lei assecondava la mia retrocessione ayurvedica con il suo sorriso incoraggiante.
Si capiva però che prima o poi sarebbe tornata all’attacco tenendosi la mano davanti alla bocca aperta, con il pollice e l’indice puntati sui due snodi delle mascelle. Avrebbe scrollato la testa, sempre premendo la mano a tenaglia sui cardini delle mascelle, per farmi capire che dovevo rilasciare la mandibola. Io mi sentivo come un disgraziato che non sa nemmeno camminare, che non sa tenere in mano la forchetta. È scocciante che a quarantacinque anni ti dicano che non sai sederti e non sai tenere la bocca come si deve tenere. Soprattutto quando per certi versi ti senti un grande scrittore.
Un paio di volte prima di iniziare con i disegnetti la terapeuta provò a farci conversare. Dovevamo parlare delle questioni che di solito non riuscivamo a affrontare. Di quelle che erano difficili da tirare fuori in condizioni normali. Di quelle che sapevamo che avrebbero potuto creare degli attriti. Mia moglie mi fissava con una faccia che voleva dire: mi sembra proprio che tocchi a te, no? Io la guardavo con una faccia simile, come si fa quando non si ha nessuna intenzione di farsi mettere i piedi sulla testa. Lei allora corrugava le sopracciglia: in pochi secondi quella situazione di stallo sarebbe degenerata in una serie di terribili recriminazioni e reciproche accuse, era evidente. La terapeuta però tagliava corto e sceglieva lei chi doveva cominciare.
Personalmente facevo una gran fatica a trovare un tema preciso, talmente vasta era la scelta: erano ormai secoli che non parlavamo mai di niente. E poi le confessioni in pubblico non sono mai state il mio forte. In ogni modo qualsiasi argomento tirassi fuori mia moglie mi saltava subito addosso. Erano tutte fandonie, sbottava, chiamando a testimone la terapeuta. Questa la invitava a lasciarmi parlare, perché era il mio turno. Con il suo solito sorriso incoraggiante, ma anche con fermezza. Mia moglie fumava di rabbia, perché se c’è una cosa che non sopporta è dover star zitta quando vorrebbe dire qualcosa.
Appena ricominciavo a parlare mi interrompeva di nuovo: le sparavo fuori grosse come una casa, esclamava. Articolando per bene ogni singola parola la terapeuta le spiegava che tutti e due dovevamo poter parlare senza che l’altro lo interrompesse: non si può esprimersi a proprio agio, se si è subito interrotti. Mia moglie sembrava una pentola a pressione che sta per esplodere. Lei non poteva lasciarmi dire tutta quella massa di ipocrite stronzate, ritornava all’attacco, appena mettevo lì una qualsiasi altra frase. La decenza ha un limite, diceva. La terapeuta ribadiva con ancora più risolutezza che doveva lasciarmi continuare. Alzava la voce, e l’ammoniva con l’indice. Come si fa appunto con i bambini.
Mia moglie guardava l’indice come se volesse morderlo, perché non ha mai sopportato gli indici ammonitori. Parlavo solo io, solo io avevo il diritto di esprimermi, gridava, sporgendosi in avanti. Se fa così mi fa paura!, esclamava la terapeuta, indietreggiando con il busto come quando appunto si è terrorizzati. Non sorrideva più. Per qualche attimo si temeva che la situazione degenerasse.
Articolando bene ogni sillaba la terapeuta spiegava invece a mia moglie che ognuno di noi aveva a disposizione l’identico tempo di parola. Era quindi importante che lei facesse la differenza tra le sue impressioni e la realtà oggettiva. Io avevo la sensazione di rinascere: proprio le parole che ci volevano, mi dicevo. Finalmente qualcuno che mi capisce, e che cerca di rimettere un po’ d’ordine in tutta la faccenda, mi dicevo. Forse non è vero che i centoventi euro sono buttati nel cesso, mi dicevo.
Quando però toccava a mia moglie la terapeuta la lasciava sparare fuori una serie interminabile di ingiustizie e di calunnie nei miei confronti, una lista da far impallidire il peggiore degli assassini. La fissava anzi con il suo sorriso incoraggiante. Bene-bene, commentava, invece di porre un termine a quei deliri.
A sentire mia moglie ero l’essere più egoista della terra, pensavo solo a me stesso, non ero mai disponibile nei suoi confronti, fin dall’inizio le avevo imposto una serie di angherie, a cominciare dai ripetuti tradimenti che l’avevano quasi uccisa dalla sofferenza. Più parlava più si infervorava, più le venivano in mentre altre terribili accuse nei miei confronti, altre prove a suo avviso schiaccianti. Ero infantile, dispotico, paranoico, avaro, non sapevo avere dei rapporti adulti, l’unica persona con la quale avevo un legame molto forte era mia madre, un legame per l’appunto esagerato, patologico. Bene-bene, ribatteva la terapeuta, con il suo sorriso incoraggiante.
Avrei voluto che prendesse le mie difese, o comunque cercasse di ristabilire qualche misero spezzone di verità, e invece non faceva che aizzare mia moglie, la quale aveva già parlato il triplo di quello che avevo parlato io, e aveva snocciolato un numero di parole cinquanta volte superiore. Cominciavo a domandarmi se non fosse più dalla sua che dalla mia, a dispetto di tutti i sorrisi che mi prodigava quando era il mio turno. A guardarla si sarebbe detto che non si ricordasse neanche più che esistevo.
I disegnetti funzionavano molto meglio degli esercizi di conversazione, su questo eravamo d’accordo tutti e tre. Mentre io e mia moglie disegnavamo eravamo entrambi tranquilli, concentrati e tranquilli. Eravamo a un metro uno dall’altra, ma non ci guardavamo in cagnesco, non ci indirizzavamo delle frecciate. Era già un ottimo risultato. E anche quando avevamo finito di disegnare e la terapeuta ci faceva sopra i suoi bei discorsini non ci guardavamo torvamente. Anzi, senza darlo troppo a vedere eravamo curiosi dell’opera dell’altro. Si vedeva dai movimenti del collo, dalle occhiate che avrebbero voluto ostentare indifferenza.
Qualche volta finito il disegnetto dovevamo scrivere tre aggettivi che ci ispirava, qualche altra dovevamo chiudere gli occhi e metterci in sintonia con l’emozione che sprigionava, sentendo il suo gusto sotto la lingua come se si trattasse di un cibo molto buono. O anche dovevamo pensare a una musica che si adattasse, e poi gradualmente smorzare la musica fino a avere il silenzio interiore. Ogni mercoledì c’erano delle novità.
Anche la maggior parte dei litigi domestici verteva ormai sulla nostra terapia di coppia. È perfettamente comprensibile, visto che era l’unica attività che svolgevamo assieme. Decisamente non sapevo allineare due frasi di fila: la terapeuta non si metteva a sghignazzare solo perché le facevo pena, mi diceva mia moglie. Bene-bene!, diceva imitando la terapeuta, dopo aver scimmiottato i miei incomprensibili balbettamenti. Io le ribattevo che in realtà la terapeuta aveva capito benissimo come stavano le cose: aveva capito chi provocava i litigi, di chi c’era da aver paura, chi era la persona violenta. Se non prendeva posizione era per mostrarsi imparziale: una terapeuta deve mostrarsi imparziale, fa parte del gioco. Mia moglie faceva quelle sue pupille sarcastiche suscettibili di mandarmi seduta stante in bestia. Litigavamo di nuovo.
Eravamo veramente molto diversi, ci diceva ogni tanto la terapeuta, altalenando lo sguardo in qua e in là come quando si cerca un qualsiasi punto in comune tra due intricate geometrie, senza trovarlo. Noi annuivamo, perché era un dato di fatto quasi impossibile da negare. Il colore dei capelli, l’origine geografica, il carattere, le occupazioni, le opinioni politiche, il modo di relazionarci con gli altri, la maniera di gestire i soldi, le preferenze alimentari, l’orologio biologico, la regolazione termica del corpo, il modo di vestirsi, le preferenze in fatto di tapparelle la notte, i gusti dei gelati, le aspettative esistenziali, lo stile e il colore dei sogni, la musica, tutto.
Il problema è che né io né lei volevamo dividerci. La terapeuta ce lo aveva domandato esplicitamente, prima all’uno e poi all’altro, e avevamo entrambi risposto: no. L’unica cosa sulla quale eravamo d’accordo, beninteso sostenendo con veemenza il contrario durante le diatribe e gli alterchi, era che non volevamo lasciarci. Non sapevamo perché era così, ma era così. Eravamo tenuti assieme dall’unico elemento dissonante, la volontà di restare assieme. Un bel dilemma. Anche la terapeuta qualche volta sembrava non sapere più che pesci prendere: sulla sua fronte orientaleggiante compariva una ruga orizzontale che contraddiceva la gaiezza terapeutica della bocca e degli occhi.
(continua)
Ho apprezzato l’analisi ( ma posso usare la parola analisi senza pericolo…) della seduta con la terapeuta. Da una situazione ordinaria,
Giacomo Sartoro con il suo sguardo quasi scientifico fa la colletta dei gesti, atteggiamenti nella coppi: moglie/marito/terapeuta.
L’ironia vince in ogni paragrafo, e forse la tenerezza (penso alla tenerezza, perché credo nell’amore, lo spero), vince. Forse un altro lettore verrà nell’impossibiltà separazione, una malattia. prefrisco pensare a una tenerezza che viene sostituirsi al desiderio.
Non saprei giudicare se la realtà dà ragione alla mia idea, non ho sperienza di coppia, forse per schivare litigi.
La manera di parlare delle donne degli uomini è diverso, lo diceva un amico. E’ vero. Una donna puo analisare con un’amica tutto un pomeriggio una storia d’amore. Non vedo un uomo dettagliare con i suoi
amici una storia d’amore.
E’ lo stesso sentimento di impotenza: urtare a un muro. Perché non mi ami? Perché non mi parli? A chi pensi?
L’uomo tace.
Nel racconto, Giacomo Sartori mostra come la donna risponde bene alla terapeuta. Leggendo, il sorriso mi è venuto.
Dopo anni di analisi, posso dire che non serve di niente. Vale meglio prendere una penna e scrivere.
Sartori mi piace tanto. Anche questo mi ha fatto ridere mentre soffrivo e/o soffrire mentre ridevo.
(continua, per fortuna)
Dal momento che Sartori mantiene sempre le sue promesse, e che quindi la seconda parte sarà certamente altrettanto bella della prima (con o senza finale spiazzante?), la domanda che mi sono posto è: quando tutte queste storie confluiranno in una storia, non è che la sua bravura gli sarà d’ostacolo
piuttosto che d’aiuto?
Grazie a Sartori e a Raos.
Secondo me chi affronta con maggiore consapevolezza e coraggio la situazione è il marito. L’analisi si paga, cara signora, si paga in denaro frusciante, mica con assegni. Il motivo è inutile rivelarlo ma è bene spiegare a chi bazzica certe faccende dell’animo che non è di ordine fiscale ma di natura emotiva complessa, direi.
Carlo Capone