* * da cenere oro
Venezia – Gran Teatro La Fenice
Ingresso posteriore
Bruno Maderna [ 1920 – 1973 ]
Serenata per un satellite (per flauto e marimba – 1969)
canto sommesso
forse sommerso
per un teatro
prima bruciato
e poi rinato
di Orsola Puecher
è una nave senza vele
un galeone all’ancora
che dondola pigro
grande e leggero
fermo sull’acqua
che scorre lenta
luccicante
di foglia d’oro
odoroso
d’essenze d’India
gommalacca
e resine
damasco cremisi
rosa antico e cinabro
e garanza e oltremare
gesso di Bologna – bianco di Meudon o bianco di Spagna – mecca fiorentina – essenza di trementina – adragante – mastice – gesso alabastrino – bolo armeno – sandracca – essenza d’aspice – balsamo del Canada – colla di coniglio – essenza di lavanda – biacca – fiele di bue – pietra d’agata – olio di papavero – mastice di Chio – ammanitura – guazzo
un violino nuovo
le corde tese
pronte a vibrare
al primo sfiorarle
porporina – aloe – melassa di canna da zucchero – cera carnauba – bitume giudaico – essenza di petrolio – sangue di drago – stucco – olio di lino – coppale di Manila – colla d’ossa – acquaragia – olio di noce – paraffina – olio paglierino – gomma arabica – colofonia – pomice
un veliero
quasi immobile
nel triangolo
delle luci distanti
nell’odore salso e putrido un grosso ratto nuota – il pelo nero scriminato e lucido come unto petrolio – increspa una lunga scia nella città sfatta – molle – nell’umido verde che risale le fondamenta e i pali neri
e l’acqua
accarezza
il silenzio
della nebbia
e la tristezza
trine
di marmo
solfeggiano
biscrome
una lampada oscilla appesa alla catena e scalda di riflessi tessere d’oro e lapislazzuli e rubino bizantino
a un pozzo di stanchezza
attinge la malinconia
di infiniti tramonti
di foschie e nuvole
di un tempo che ritorna
fra i velluti e le luci
e le statue polene
e le stanze negli specchi
le corde bruciano i polpastrelli – sartie animate come serpenti di un incantatore mago – marinai sul ponte in tempesta aprono il sipario – verde
stoffa e stelle trapunte
e legno armonico
fenice
dal fuoco
rinata
da oro cenere
da cenere oro
senza più memoria di passi e danza – di note e canti – a inumidire – gli occhi aperti del golfo asciutto – spegne i lumi al respiro trattenuto – al sollievo del LA unisono – al distendersi della musica – salpa nel libeccio – scricchiolando il legno nuovo della sua chiglia
Venezia – Gran Teatro La Fenice
La platea e i palchi 1
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è raro e strano piangere per un incendio – per l’incendio stupidamente doloso di un teatro – poi – il Gran Teatro La Fenice – il 29 gennaio 1996 – nessuna vittima – poi
sarà ricostruita come prima e dove prima – si disse e si fece – e cenere ora è di nuovo oro – ancora più oro e forse troppo brillante e nuovo – alcuni dicono – nuovo di colori intensi – troppo intensi – come forse erano le statue e le rovine antiche che ora vediamo bianche e sobrie – algide e immote – e l’antichità era invece anche quei colori intensi – coraggiosi – novi
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e forse quando c’erano più fiamme libere di lumi e fuochi per scaldarsi gli incendi erano più temuti e frequenti – fuoco come acqua e terra e aria – quasi in una specie di ordine naturale delle cose – fuoco che incuteva un sacro terrore – i teatri bruciavano spesso – e i materiali nobili di un teatro antico costruito in legno per essere leggero sull’acqua – stagionato da tante stagioni – arsero in fretta come un ciocco di rovere in una stufa – come i piedi di legno da burattino di Pinocchio bruciati sulle braci che Geppetto saprà e vorrà ricostruire
e là fu fuoco nel buio – antro acherontico d’Inferno – niente fallout poi di polveri sottili e velenose di diossine ed amianto che seguiranno l’incendio – fuoco cinerino in piena luce del giorno – molto fumo e rare lingue arancio – e l’implosione delle Tween Towers – l’11 settembre 2 – effetto collaterale – oltre ai corpi e corpi inghiottiti – che durerà ancora per anni e segnerà anche i corpi dei vivi – intorno alla voragine – al cenotafio di tanti corpi dei morti – al buco al posto di quei mostri alti e di materiali così poco nobili e naturali del moderno impero architettonico e che nessuno oserà più ricostruire tali e quali – da materiali mortali nulla più riprende vita
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il dolore perchè brucia(va) un teatro: il dolore per la sua perduta patina a strati sovrapposti e semi trasparenti di fumi antichi di candele prima e poi – nel tempo – di fuliggini oleose di lumi a gas – dolore nel pensare ai respiri – ai vapori di fiati – che avevano ossidato la lucentezza degli ori – i colori brillanti degli affreschi – dolore per le scrostate piccole zone delle sue laccature – per le aree scolorite dei velluti fruste di strofinìi di tanti e tanti gesti consueti – per il perduto calore e colore di ventre delle sue luci quando si abbassavano riflesse e assorbite con morbida indolenza dall’essere vecchia della materia – soffrire per il ricordo del disarmonico accordarsi degli strumenti – brevi frammenti di partiture e arpeggi sparsi – e soffrire un po’ persino al ricordo dei suoi bagni vecchi – con l’acqua sempre a scorrere – a segnare sulle ceramiche incrinate una scia ruggine – odore di latrina di treno – spifferi di finestre che mal chiudono – per il palcoscenico di ponti sospesi e sartie e per le botole del sottopalco – per i miei passi di bambina per mano a mio padre – per lui – per mio padre – lui l’incantatore mago – che trasfuse in quel teatro magia – bellezza
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pensare perdute tutte le cose trascorse – i dolori di Euridici – e Traviate e tutte le altre tremule eroine – voci e voci – note e note – applausi – silenzi – vulnus della storia passati sopra – fuori – simboli – croci – bandiere – e da un dolore tutti gli altri i dolori dal vaso di Pandora dei dolori – e questo è il dolore dell’idiota
L’idiota è un angelo senza messaggio, colui che completa intimamente e senza distanza ogni entità che incontra casualmente. Anche la sua entrata in scena è legata all’apparenza ma non perchè nell’aldiqua esso richiami alla mente lo splendore trascendente, piuttosto perchè nel cuore di una società di attori e di strateghi dell’ego essa incarna un candore inatteso e una benevolenza disarmante… Non è il suo carattere infantile, nel senso corrente del termine, che gli apre una particolare via d’accesso verso gli esseri umani, a parte il caso in cui si dia all’espressione infantile un senso eterodosso. E’ possibile qualificare come infantile la propensione nelle relazioni con gli altri a non mettere in gioco il proprio Sè, ma a rimanere a disposizione quale completamento dell’altro.
da PETER SLOTERDIJK
“Sfere I. Bolle”
a cura di Gianluca Bonaiuti
ed. MELTEMI Roma
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e se sono così – che posso farci – se in segreto – ché tocca in chiaro sembrar cinici – mi consumo e tremo in profonda empatia per ogni cosa – per le alte e per le sciocche e insospettabili – per i ragni e per la sapienza geometrica delle loro ragnatele e per la galaverna che ne ghiaccia le gocce appese – per il salnitro che fiorisce in grumi di lanugine biancastra sulle vecchie pareti e per le loro macchie d’umido in cui vedo immagini – per le rane impanate e fritte che mi paiono piccoli uomini – subacquei di Lilliput con le pinne – per la gatta che sta sbranando a scricchiolìi d’ossicini un topo e per la banalità del quotidiano che percepisco sempre confinante con la vertigine dell’abisso
il falco vola in tondo nella valle
abbandonando le ali al vento
poi si lancia in picchiata e sparisce
inghiottito dal bosco di acace
potrei sentire nel rosso silenzio
la pena palpitante della preda
il soffio caldo di ogni suo rantolo
mentre viene stritolata dal becco
Non coerceri maximo
contineri minimo, divinum est!
Non esser costretto da ciò ch’è più grande
ma essere contenuto in ciò ch’è più piccolo, questo è divino!
[ epitaffio sulla tomba di Sant’Ignazio di Loyola
citato da Friedrich Hölderlin in Frammento di Hyperion ]
ennesime divagazioni
sotto forma di
NOTE
- Ed è per me un caposaldo della genesi familiare una vecchia cartolina tale e quale a questa dell’abbraccio a semi ellisse dei palchi e della platea della Fenice, visti dal palcoscenico [ e che abbraccio, anche, il solo dire o scrivere palchi_platea_palcoscenico (sì, palcoscenico, non palco come dicono quelli che non son di teatro) ]: parole che hanno calore, colore e persino odore per certi, per me, non forse come per altri. Se essa, la cartolina, non fosse arrivata a destinazione in un certo momento fatale per simmetrica coincidenza di circostanze, io non ci sarei (il che è fondante solo per me, ovviamente) e il futuro avrebbe avuto un corso diverso.
Mentre mio nonno Giorgio Puecher Passavalli nel 1944 veniva trasferito dal campo di prigionia di Fossoli a quello di concentramento di Mauthausen (numero di matricola 76529, vi trovò la morte per fame e stenti l’8 aprile 1945), da una fessura fra le assi del vagone merci lasciò scivolare il suo ultimo messaggio (di quei molti che mani pietose raccoglievano e recapitavano ai familiari dei deportati, passato il treno, se riuscivano a sfuggire al controllo di fascisti e tedeschi). E quel messaggio per mio padre Virginio era proprio una cartolina della sala della Fenice, chissà come giunta nelle mani del nonno.
Poche parole:
Ginio iscriviti pure a Filosofia
Papà
E l’indirizzo.
Virginio, detto Ginio, già iscritto al primo anno di Legge, era per il nonno la speranza di una possibile successione nello studio notarile, dopo la morte del fratello maggiore Giancarlo, partigiano, fucilato a 20 anni dai fascisti: la deportazione non era altro che una ritorsione per questo. La colpa dei figli sui padri.
Mio padre, timido, introverso e umbratile di fantasie, invece avrebbe voluto iscriversi a Lettere e Filosofia. Ma ai padri si obbediva senza discutere, allora, anche se, lui già aveva in sé il seme di un altro desiderio, coltivato in lunghi pomeriggi magici al teatro Gerolamo, dove la sua maestra elementare, appartenente alla famosa famiglia di marionettisti Colla, gli aveva istillato insieme all’ABC la passione di una vita, permettendogli di assistere alle prove e alle rappresentazioni delle avventure del piccolo popolo di legno. E così su quella cartolina l’ultimo pensiero, chissà fra quali altri terribili, del notaio Puecher fu questo permesso per il figlio e per i suoi sogni così diversi dal destino borghese e sicuro della famiglia (in cui mai avrebbe incontrato mia madre e mai concepito me come figlia: così questo cerchio si chiude e questo scritto è per lui così amato e perso così presto). E le innumerevoli volte che mio padre nel teatro della cartolina poi mise in scena i suoi spettacoli fu anche, di certo, con la consapevolezza, la malinconia, la gratitudine e la tenerezza per questa particolare svolta dei destini.
Nelle cose, a volte, c’è molta immateriale anima, in segreto.↩ - Che strano dolore acuto e freddo, allora, solo qualche anno dopo, di fronte alle immagini in diretta mondovisione delle torri gemelle bucate dai due jet, così azzurre nella foschia azzurrina dello skyline, cosi oggettive. Sì, all’inizio ci colse tutti, nella tranquilla dolcezza ignara di una giornata di fine estate, una specie di sbigottimento incredulo, sciocco, educato all’indifferenza dal sovrapporsi di altre immagini: effetti speciali di tanti e tanti film d’aeroporti e inferni di cristallo e dei loro forzati happy end dove l’eroe inseguito dal boato crepitante del fuoco, dallo spostamento d’aria del rombo di crolli, dal twirling dei tornadi, al foto finish, in un lungo effetto di tempi dilatati e musiche emozionali, arriva sempre per primo, prima del ruggito estetico di qualsiasi catastrofe. Sempre disinnesca il congegno a orologeria di qualsiasi bomba, recidendo il filo elettrico del colore giusto all’ultimo secondo del count down, mentre qualche bellezza, artisticamente imperlata di gocce di sudore e nero fumo come fard, lo attende in premio sui titoli di coda.↩
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Senze parole, Orsola…bellissimo…un abbraccio, V.
p.s.
“e se sono così – che posso farci – se in segreto – ché tocca in chiaro sembrar cinici – mi consumo e tremo in profonda empatia per ogni cosa – per le alte e per le sciocche e insospettabili – per i ragni e per la sapienza geometrica delle loro ragnatele”
Orsola, mentre sto ascoltando Maderna, voglio dirti che della tua nota n.1, che ci regali en passant, se ne potrebbe fare un romanzo straordinario.
E poi, anche, che, per lavoro, un paio di lustri fa (quasi 3), feci il rilievo geometrico del teatro Gerolamo, piccolo gioiello dimenticato.
Che belle queste tue cose…
attendiamo il seguito delle avventure del piccolo popolo di legno, del notaio Puecher e da che mai sarebbe stata concepita come figlia…
Che cosa STUPENDA!!!
bravissima… stasera con calma ci tornerò ancora.
Bellissimo! La delicatezza dell’insieme lascia senza parole.
certo che, a forza di passare valli, ne hai accumulata di bravura, di eleganza, di delicatezza; ogni volta stupefacente. Ma come farai mai a fare anche il fuoco?
che dire? struggente bellezza.
bravissima.
Questa memoria scavata dai materiali, dalla cenere che ne resta ed espressa con una cura,una grazia che è impossibile non ammirare.
eccezionale.
si ha bisogno di questi respiri.
grazie
lisa
fuoco Orsola. Le tue parole sono fuoco. Altro che ceneri. Altro da ceneri.
effeffe
Un bravò a cuore aperto (quasi barnardianamente) alla nostra Orsola, un po’ maga, molto pittrice delle parole e dei suoni, che ha inventato, io credo, un genere nuovo. Non sono accecato dall’affetto che nutro per questa donna: io penso che se le dessero una cinepresa vera (come se la dessero a Furlen) verrebbe fuori un vero film di parole, immagini, suoni e musica. Il suo buon sangue di grande teatro non mente.
Io ho difficoltà a esprimere
la meravigliata gioia che ho provato nell’essere investito da questa pioggia d’oro di suoni e note musicali di parole e ceneri infuocate, di immagini, che richiamano il dolore a risanare
lo stupore, l’ammirazione, l’affetto.
La definizione di *capolavoro* che da “il Garzanti” è:
“opera eccellente, l’opera migliore di un autore, di una corrente letteraria o artistica.”
Scrittura sulle acque, rifletti e luci azzure.
Musica, musica nei versi nella mente di un nave,
viaggio in palazzo Fenice, colori dorati e rossi,
fuoco dell’anima, magia per una rinascita,
una memoria propia a Orsola, su una cartolina
piangono stelle e fuoco, sempre vivi dentro l’infierno.
” – Pur est le mot. Il appelle un feu. Il y a là cendre, voilà qui prend place en laissant place, pour donner à entendre: rien n’aura en lieu que le lieu. Il y a là cendre: il y a lieu.
– Où? Ici? Là? Où sont des mot sur une page?”
(Derrida, Feu la cendre)
grazie Orsola
manca un’esse alle parole plurali, o alla pluralità della parola: sarà un refuso dell’esse non esse?
Se posso, Orsola, due confessioni solo mie. La prima: le righe più convenzionali sono quelle che mi hanno toccato di più (“Ginio iscriviti pure a filosofia”, le parole ultime del notaio, il treno che fila: questo davvero è tutto). La seconda: quando annunciarono scosse sismiche ad Assisi (e possibili danni in basilica a persone ed a cose), mi preoccupai istintivamente per gli affreschi. Ho giustificazioni?
molte grazie.
chapeau.
non omnis moriar chi viene ricordato con tanta grazia.
“un muro di fuoco”
“un candore inatteso”
un carissimo saluto
Adelelmo
grazie
[ Continua – À Suivre – To Be Continued ]
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[…] hiberno pulvere ** da cenere oro […]
Orsola, che meraviglia, sembra di sentire gli odori, di avere i materiali sotto le dita , le note e i suoni nelle orecchie, le luci e il buio della platea e i riflessi dei canali tremuli negli occhi e nel cuore quel magnifico parallelo tra barca e teatro che basta la parola sartie ad evocare…E la cartolina del nonno.
Sei bravissima!