Autismi 7 – Il mio testamento biologico

lomax1 di Giacomo Sartori

 

In questo posto e in questo momento, sotto questo cielo ancora invernale di vetro soffiato, vi chiedo di uccidermi. Non subito, quando ce ne sarà bisogno. Quando me lo meriterò. Quando sarò trafitto da tubicini e non risponderò alle vostre domande. Quando paragoneranno la mia esistenza a quella di un vegetale. Quando qualcuno vorrà a tutti i costi farmi del bene o del male, o anche solo prendermi come ostaggio della sua petulante (vanagloriosa?) coscienza. Quando la legislazione in vigore farà decidere i medici o i cammelli. Ve lo chiedo nel pieno possesso delle mie facoltà cerebrali. Insomma, così mi sembra. Certo potrei essere schizofrenico, o vittima di una primaticcia demenza senile, o anche solo ubriaco, ma non mi pare. Mi osservo nel riflesso della porta a vetri del bagno, e mi vedo come mi sono sempre visto, solo un po’ invecchiato. Arriva il momento in cui bisogna fidarsi di se stessi, nonostante le tante delusioni che ci si è dati. Attribuite insomma a queste mie parole l’affidabilità di tutti i chiacchiericci umani, che mentono sempre, ma alitano pur sempre atomi di vero. Uccidetemi, dunque.

Prima provate però a svegliarmi. Scrollate con tutte le forze il letto d’ospedale, afferrandolo uno da una parte e uno dall’altra. Dateci dentro con imbestialita abnegazione, senza lasciarvi intimidire dal rumore di ferraglia e dalle eventuali proteste degli altri comatosi (se un altro vegetante si sveglierà al mio posto, avrete pur sempre il plauso dei parenti!). Nel caso gli scrollamenti non dovessero sortire alcun risultato usate il vecchio metodo dei pizzicotti, preferibilmente all’interno delle cosce. Piantemi poi uno spillo nella mano, o anche sulla faccia inferiore della lingua. Strappatemi un’unghia con una tenaglia. Fatelo quando i medici non sono presenti, altrimenti rischiate di farvi sgridare. Se mi sveglierò e urlerò non vi tradirò, ve lo giuro: dirò che mi sono destato da solo. Provate anche con il solletico. Sappiate che i miei punti più sensibili sono le piante dei piedi, e anche le ultime costole, solo però sul lato, non sul davanti. Imitando il miagolare apocalittico e nasale di Carmelo Bene pronunciate le parole: “CHIESA CATTOOOOLICA!” e “INQUISIZIOOONE!”. Sappiate che la musica che più aborro, e quindi più suscettibile di farmi contorcere e urlare, sono i canti polifonici corsi.

 

Diffidate però della mia immobilità e del mio silenzio: potrebbero essere una finzione. Non date troppo peso al mio disinteresse nei confronti vostri e del mondo, e ancor meno al piattume delle curve mediche. Domandatevi ogni secondo se il mio vegetare sia un autentico vegetare. Non dimenticate che nella mia vita non ho fatto che tacere, che sono stato un virtuoso della passività. Tenete presente che i miei silenzi erano trappole dove le prede soffocavano nelle loro stesse parole. Non dimenticate nemmeno un secondo che ho passato decenni a tramare felpate strategie per carpire l’attenzione altrui, per dominare le persone che mi volevano bene, per sottometterle ai miei dispotici mutismi. Non ho esitato di fronte a nessun sotterfugio, ho dribblato ogni remora morale, lo sapete bene. Il mio assenteismo relazionale occulterà verosimilmente un’estrema strategia per avervi al mio servizio ventiquattro ore su ventiquattro, non è difficile prevederlo. Diffidate!

 

La cosa più probabile, vi avverto, è che sentirò tutto quello che direte, spierò attraverso lo schermo delle palpebre i vostri maneggi. Beffandomi dentro di me del vostro sincopato dolore, ridendo sotto i baffi dei vostri maldestri tentativi di spigrirmi, della vostra crescente spossatezza. Prendendovi impassibilmente per i fondelli. Amandovi infine come vi avrei sempre voluti: disarmati. Cercate quindi di sorprendermi: abbaiate, scoreggiate, nitrite. Fingete di buttarvi dalla finestra, di finirmi con un coltellaccio, di masturbarvi. Parlate male di me, mercanteggiate in mia presenza i miei averi più cari, offendetemi. Sforzatevi di essere più furbi di me, non sottovalutate nemmeno un secondo le mie doti. Tenete conto che con mio fratello vincevo sempre, quando si trattava di simulare di non patire il solletico, che con mia moglie l’ultimo a scoppiare a ridere ero sempre io. E che ho sempre sotterrato nelle torbiere del mutismo i miei pensieri più abissali. 

 

Anche ammesso che fosse reale, il mio intorpidimento vegetativo sarà pur sempre una rivalsa nei vostri confronti: tenetene conto. Ditevi che sono in quello stato perché non ne potevo più dei vostri discorsi e delle vostre facce, per sottrarmi alle mie responsabilità. Non commiseratemi, vedetemi per quello che effettivamente sarò: un usurpatore. Riconoscete nel mio corpo fintamente o effettivamente vegetante un tiranno che ha preso il potere massacrando i suoi avversari e smanioso di distruggere le esistenze dei suoi nuovi sudditi. Consideratemi un’edera che vuole avviluppare i vostri corpi e stringervi il collo fino a soffocarvi.

 

Tenete anche conto che se c’è una categoria umana che detesto, e della quale non ho mai avuto la minima fiducia, sono i medici. Tenete presente che i medici non hanno mai capito nulla del mio stato di salute, non mi hanno mai guarito da nessuna malattia. Se vi dicono che sono morto, ci saranno novantanove probabilità su cento che sia ancora vivo, se vi dicono che sono vivo sarò probabilmente morto, e via dicendo. Forse la medicina avrà fatto molti passi in avanti, ma i medici resteranno gli asini presuntuosi che sono sempre stati. Non capiscono niente del corpo, figuriamoci del resto, figuriamoci degli origami impalpabili dell’etica. In ogni caso i responsabili più probabili del mio stato saranno loro. Provate quindi a sospendere tutti i loro trattamenti, a levarmi tutte le cannule: probabilmente mi alzerò e vi chiederò una sigaretta. Comincerò seduta stante a rimproverarvi di non averlo fatto prima.

 

Sappiate soprattutto che nel mio corpo silente si nasconderà un essere felice. Non dimenticate nemmeno un secondo che ho sempre agognato di non avere nessuna responsabilità, di non dover rispondere a quello che mi si diceva, di non essere angariato dalle mie stesse emozioni, di non dover scervellarmi per capire tutto quello che succedeva attorno a me, di non dover rincorrere delle speranze sempre vane, di non dover mandare a mente un’infinità di nomi di persone e di cose, di non dovermi guadagnare da vivere, di non dover lottare contro le mie pulsioni, di non dovere collezionare sofferenze di ogni tipo, di non subire i morsi delle delusioni, di non causare dolore a chi mi sta attorno, di non dover pensare giorno e notte al suicidio, di non sguazzare perennemente nell’acquaccia stantia dei rimorsi, di non dovermi alzare dal letto la mattina, di poter riposare e ancora riposare. Non nascondetevi che tutte le attività umane mi sono sempre apparse faticose e prive di senso, e il raziocinio sempre fallace, e che la sola condizione che mi ha sempre affascinato era il vegetare sprovvisto di pensiero. Non fingete che abbia mai avuto una qualche dignità, ricordatevi quanto ero indegno nelle azioni e nell’intimo. Non nascondetevi che ho sempre invidiato le piante, soprattutto quelle flemmatiche e placidamente assenti, quelle avvezze agli umidumi muscinali dei tropici. Trattatemi quindi con una relativa bruschezza, anche se con benevolenza: come un bambino che ha giocato e si è divertito abbastanza. Cercate di convincermi che è tempo che la smetta. Fatemi la contabilità dettagliata degli sforzi che pretenderò da voi, delle sofferenze che vi causerò, di quanto costerò alla società. Non esitate a sbattermi sotto il naso la mia nefandezza. Forse i vostri accorati appelli saranno più forti di tutto il resto. Forse in me resterà un barlume di altruismo.

 

Se nonostante questi miei disinteressati consigli non riuscirete a svegliarmi, affrancandovi dal pericolo mortale che incomberà su di voi, sopprimetemi. Fatelo pensando che avete il mio pieno avvallo. Fatelo con gioia, come si sfila una carota dalla terra, pensando già a mangiarla. Agite dicendovi che anch’io al vostro posto agirei nello stesso modo, che qualunque essere sensato della nostra epoca impaziente lo farebbe. Non fingete però di farlo solo per me, ve ne supplico. Risparmiatemi questa indegna farsa. Ricordatevi che ho avuto molti difetti, ma non ho mai sopportato l’ipocrisia. Considerate che il mio attuale avvallo sarà solo un enigmatico cimelio sbocconcellato dalla sabbia, una forcina ossidata appartenuta a un essere che ora è alito del deserto: in quel momento vorrò solo continuare a vegetare. Lo agognerò con l’energia sorda e inarrestabile appunto dei vegetali. Il mio sangue sarà pura linfa di vita, limpida di rimorsi e di scorie delle lotte quotidiane. Il mio respiro vaporerà puro e lieve come quello di una foglia di palma che accarezza un cielo di topazio.

 

Abbiate il coraggio di essere sinceri: ammettete che lo farete per voi, per assicurarvi uno straccio di sopravvivenza. Ditevi chiaramente che mi state uccidendo perché il vostro esistere è diventato impossibile, perché altrimenti vi ucciderei io: consideratela una legittima difesa. Fatevi forza dicendovi che nei frangenti sciagurati l’uomo ha sempre ammazzato, che ci sono forse cose peggiori. Ditevi che chi stigmatizza le uccisioni uccide in genere per procura, dall’altra parte del mondo, surrettiziamente, o anche solo ha tanto ucciso in passato da averne le braccia scarlatte. Ditevi che quello che vi chiedo è il più innocente degli ammazzamenti, è una residua connivenza prima di prendere commiato. Uccidetemi come si liquida un batterio, senza badare alle sue palpitazioni plasmidiali di nocivo ma forse anche compassionevole bacillo. Per parte mia avrei continuato a vegetare, perché vegetare è sempre stato il mio traguardo.

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4 Commenti

  1. “Sappiate che la musica che più aborro, e quindi più suscettibile di farmi contorcere e urlare, sono i canti polifonici corsi.”

    Difficile scoprire la strategia truffaldina di Giacomo Sartori, quando indica “i canti polifonici corsi” come strumento che, facendolo contorcere e urlare, potrebbe risvegliarlo dallo stato vegetativo. Ma questo è il Web.

    Sarebbe infatti autanasia, e lo dice esplicitamente il coro di Uri – Uri, anche se non è in Corsica – si trova al limite della zona di lingua e cultura sardo-corsa.

    “L’hana mortu cantande”

    http://www.youtube.com/watch?v=vJbqqWxrato

  2. Non vorrei sembrare invadente, ma, cercando il coro di Uri, sono incappato in un altro video, e non mi è sembrato del tutto O.T. proporlo sotto un post che, se anche marginalmente, accosta musica e morte.

    Si tratta dell’ultimo concerto di Andrea Parodi, un ragazzo turritano che abitava a un passo dalla mia casa, in paese.

    “No potho reposare”.

    http://www.youtube.com/watch?v=Izae0lx9gyk

  3. Per non uscire dall’Isola, credo che S’accabadora sapesse già tutte le considerazioni e gli intimi contorcimenti contenuti in questo testo, anzi ne fosse addirittura depositaria da parte dell’ intera comunità , e, senza troppi se e ma, estraeva la carota..
    Tutto rimaneva all’interno di un atto intimo, individuale, privato.
    Ma questi sono tempi in cui i corpi sono cosa pubblica…

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