Il wrestler che è in noi
di Mauro Baldrati
Attenzione! Questo è uno spoiler del film; chi non vuol conoscerne l’intera trama, non legga.
Mickey Rourke-Randy è spesso ripreso di spalle, massiccio, abbronzato, coi lunghi capelli ossigenati come Hulk Hogan, l’anziano wrestler acciaccato protagonista di un reality americano, e noi lo seguiamo nei suoi spostamenti per lo schermo, come se ci guidasse in un viaggio impedendoci la vista del panorama; poi si gira e ci mostra quella faccia ricostruita, con imbarazzanti labbroni, occhi piccoli, le famose mani con le unghie enormi, giacca a vento lisa e scucita. E’ una vita grama, la sua, e ci sarebbe l’eco di Hank Bukowski, se non fosse che manca persino la follia felice, o la risata tragica: la sua è l’unica vita possibile, l’unica sopravvivenza di cui dispone, da quell’ammasso di carne maciullata che è. Dopo le glorie degli anni Ottanta, quando era “The Ram”, il campione, e c’erano i Guns N’ Roses, ora Randy si esibisce in incontri di provincia, dove la violenza è concordata, come sempre accade nel wrestling, ma lo è per compiacere il pubblico, che vuole vedere il sangue. E Randy, d’accordo coi suoi avversari, tutti ragazzi giganteschi pieni di steroidi, teneri, educati, rispettosi fuori dal ring, il sangue lo tira fuori: ha una lametta nascosta nelle fasciatura del polso, con la quale si incide la fronte, mentre è a terra fingendosi svenuto. Il sangue gli scende sulla faccia, tra le urla di tripudio degli spettatori. Oppure si rotola nel filo spinato, lacerandosi la pelle, o addirittura facendosi piantare punti metallici da un avversario che lo chiama rispettosamente “signore”, riducendosi una maschera sanguinolenta.
Ma oltrepassa tutti i limiti che gli sono concessi: si imbottisce di farmaci, di ormoni, di viagra, sottopone la sua carne maciullata a ogni sorta di violenza e di contusione. Così un giorno, al termine dell’incontro più sanguinario della sua carriera, collassa. Infarto, e divieto di continuare a combattere.
E’ dura per Randy, perché senza incontri, senza l’urlo del pubblico, è il nulla, è nessuno; ma cerca di sopravvivere anche a questa svolta. Lavora part-time al banco di una salumeria, con una buffa cuffia che gli trattiene la chioma, come un rasta. Cerca di guadagnare i dollari necessari per pagare l’affitto della roulotte dove abita, e le medicine di cui ha bisogno. Con l’aiuto di una spogliarellista, che frequenta in uno strip bar, si sforza di riallacciare i rapporti con la figlia, che lo disprezza perché non è mai stato un padre, non era presente quando lei aveva bisogno di lui. Randy si impegna a fondo, sua figlia è tutto ciò che gli resta. Le compra regali, le chiede di perdonarlo, di frequentarlo, di farlo sentire un vero padre. Perché ha avuto l’infarto. Perché è solo. Perché vuole vivere.
Lo osserviamo con disagio, mentre esprime per noi questo mix di sentimentalismo, di egoismo e disperazione. Riesce a strapparle un appuntamento, e se ne va contento, con la speranza che gli illumina lo sguardo. Ma quella sera si dimentica, si fa rimorchiare da una sgarruppata in un locale e va a strafarsi di coca e sesso. E’ l’ennesima rottura, definitiva, questa volta. Cerca anche di avere un vero rapporto con la spogliarellista, ma lei lo rifiuta, perché non intende “uscire coi clienti”. Il tempo è fermo, lo spazio è bloccato, la figura scalena non riesce a ricomporsi.
Al banco della salumeria, con la cuffia rasta in testa, con le vecchie signore americane che si fanno servire strabilianti cibi cotti americani, fa l’ultima scelta. Una scelta di sangue, una scelta autodistruttiva. Combatterà di nuovo. Incontrerà il suo antico avversario, l’Ayatollah, col quale ha già diviso antiche glorie.
Assistiamo al coronamento ineluttabile di questa vita buttata, di questo fallimento. The Wrestler avrebbe potuto avere un finale diverso, ma forse il regista Darren Aronofsky, amante delle vibrazioni forti, non voleva scadere nello happy end all’americana; così Randy, prima di salire per l’ultima volta sul ring, respinge l’unico segnale di speranza, forte e bello, che gli viene offerto. Lo butta via, e oltrepassa la linea proibita della corde, col suo cuore malandato, le sue speranze distrutte.
Così la violenza del wrestler che dallo schermo richiama la difficoltà di tutti noi di essere uomini, di esseri adulti, e padri: la violenza dell’esterno, fasulla, ignorabile, perché violenza di sovrastrutture, di Superii territoriali e mondiali, diventa violenza autentica, interna, che minaccia e distrugge la stessa vita.
“These things that have comforted me, I drive away
This place that is my home I cannot stay
My only faith’s in the broken bones and bruises I display”
il tuo racconto / analisi mi trova ocncorde. Io, il film, l’ho trovato bellissimo, doloroso. Unica pecca i due soliti stronzi che si sono alzati, davanti a me, sui titoli di coda.
Ne parlano tanto che lo vedrò.
“Così la violenza del wrestler che dallo schermo richiama la difficoltà di tutti noi di essere uomini, di esseri adulti, e padri: la violenza dell’esterno, fasulla, ignorabile, perché violenza di sovrastrutture, di Superii territoriali e mondiali, diventa violenza autentica, interna, che minaccia e distrugge la stessa vita.”
La violenza interna è devastante si, ma la violenza delle sovrastrutture non scherza. Non sottovalutiamola.
Ad una trasmissione su radio24 valerio mastandrea raccontava del suo personaggio in giulia non esce la sera. Uno scrittore. Diceva che racconta gli intellettuali di oggi. Intellettuali a mezzo servizio, intellettuali digitali, li definiva. Mi siete venuti in mente voi.
Certo che non scherza, Nadia, e non va sottovalutata. Ma se non si traduce in violenza interiore, cioè se riusciamo a mantenere un equilibrio – qualcuno parla anche di distacco – possiamo combatterla, depotenziarla, addirittura ignorarla.
elena, il tuo commento è apparso in questo istante sul mio video, anche se è stato scritto ieri sera, forse per via di “parcheggi” che talvolta effettua il sistema wordpress, e non l’ho capito. Dunque secondo mastrandrea su radio24 se un intellettuale scrive su un giornale si chiamerebbe “intellettuale di carta”? E se parla in televisione, o alla radio? E se fa una conferenza? E se viene intervistato per esempio in un documentario?
Sai Mauro, io, che non sono un intellettuale, la sera, quasi ogni sera esco con Giulia
effeffe
e comunque sia, bella lettura, mauro. devo dirti che in una delle mie vite ho lavorato per un paio d’anni con una società che organizzava grandi eventi. e così tra un concerto dei police e un altro di vasco rossi mi sono ritrovato nel back stage di due serate wrestling a torino. devo dire che per me è stata un’esperienza sconvolgente, e ne sono uscito non solo vivo ma anche entusiasta. In realtà i lottatori incarnavano degli archetipi contemporanei – mi ricordo un combattimento in cui il plot, la fabula vedeva come protagonisti un vicino scassaminchie e prevaricatore che punta il vicino borderline e con uno stratagemma riesce a coinvolgere dallal sua parte anche degli sbirri e tutti addosso allo sfigato che alla fine vince. Quel che mi ha impressionato di più era il pubblico. Prima degli incontri mi aspettavo di vedere facce naz pop (sul modello del concerto di Baglioni, o Max Pezzali ) e invece ho visto belle facce, per lo più, uomini e donne, tanti ragazzini, che in qualche modo vivevano insieme ai lottatori qualcosa d’ancestrale. Vi assicuro poi che la tavole rotte sulla schiena di un avversario erano vere, e anche quelle assai impressionanti.
In quel gran circo insomma, ho avuto come il sentore di assistere a qualcosa di autentico
effeffe
Grazie a te, effeffe; interessante anche il tuo racconto, del “gran circo”, che mi sembra una definizione azzeccata; e le “facce naz pop” dei fans di Baglioni e Pezzali è da trascrivere :-)
Mentre guardavo “the wrestler” pensavo e speravo parecchie cose.
Pensavo all’ambiguità, alla contiguità, fra personaggio e attore, pensavo ai diversi modi in cui si puo’ concepire il proprio lifestyle ed esserne più o meno soddisfatti. La vita di quell’uomo non potrebbe mai essere la mia, io avrei interpretato l’infarto come un segnale di cambiamento e poi la relazione con queste due donne come una mano tesa ma no, questa non è la mia vita né queste sono le mie aspettative; lui ha fatto del catch la sua ragione di vita, dei suoi compagni una famiglia, del pubblico i suoi amici.
Era giusto che tornasse da loro poiché quella era la sua vita. Talvolta è dura accettare che non esiste un punto di vista “normale”, unico, uniforme, in epoca di globalizzazione (parola orrenda che descrive il tentativo di renderci tutti uguali, tutti ugualmente schiavi).
d’accordo con il wrestler alla Mickey Rourke e la cinepresa dietro portata a mano,tremolante,ma è con il western di Gran Torino e la cinepresa montata sul dolly,elegante, che vedo ‘America per quello che è,un’arena.Scrivi del Gran Torino, e non mi dire che è fascista.