A mio modesto avviso… (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
di Lello Voce
Cchiu’ luntana mi staje
Cchiu’ vicino te sento
(Libero Bovio, Passione)
a J.
La poesia è un arte che abita il tempo. E che ne è abitata. Quale che sia la sua storia, più o meno dal XV secolo in avanti, i millenni precedenti l’hanno formata come arte dell’oralità e l’oralità abita il tempo (e fa risuonare lo spazio).
La poesia è, innanzi tutto, la sua durata, il suo realizzarsi, eseguirsi, performarsi nel tempo, attraverso le vibrazioni della voce del poeta, o di chi, in vece sua, la ‘recita’: troviere, trovatore, o giullare che sia.
Essa percorre il tempo, scorre dentro di esso; l’esistenza di figure come la dialefe o la sinalefe, la dieresi e la sineresi (essendo evidente che l’accorciamento, o l’allungamento a cui queste figure presiedono, non è certo di natura grafica, o segnica, ma piuttosto riguarda l’articolazione concreta dei segni, la loro esecuzione nel tempo, il loro ‘decorso’) è la prova inoppugnabile di quanto una poesia sia qualcosa che ha una durata nel tempo, un’esecuzione, un’azione agita con il corpo e con la mente, una disciplina della lingua e delle corde vocali, dei polmoni e del cuore, nel suo realizzarsi in un dato momento, con una certa velocità, con una durata, formalmente decisiva, che divide il suo nascere dallo spegnersi della voce che la esegue.
La poesia è un’arte che abita il suono. E che ne è abitata. La poesia è fatta di una materia precisa, quell’insieme di vibrazioni fisiche ed emissioni sonore che chiamiamo voce. La poesia si propaga. La poesia ha un corpo, corpo mutevole, che rimbalza e si infiltra, che penetra, fa eco, indica, si atteggia nello spazio, lo percorre, la poesia ha dita fatte di vocali e consonanti per battere e carezzare, per stringere e per allontanare, per catturare e per liberare, per coprire e per svelare.
Se per millenni la poesia è stata edificata sulle rime, ciò è accaduto per la sua natura squisitamente sonora e da questo punto di vista la rima e tutte le figure ad essa riconducibili (dall’allitterazione alla cobla capfinida) sono il corpo stesso della poesia, i suoi muscoli, i suoi polmoni, il suo fegato, il suo scheletro, e il suo cuore.
La poesia è un’arte che abita la voce, ne cavalca le onde (sonore), sta sulla loro cresta, sfrutta la loro energia, la loro ‘dinamica’, per trasformarla in una direzione, in un senso, in quello che la critica usa definire un ‘significato’. La voce della poesia è esattamente la voce del poeta, mai il contrario… Parlare di poesia muta, scorporata, puramente mentalistica è, dunque, fare un ossimoro. E’ ignorare la natura stessa della ‘funzione poetica’ (Jackobson) in cui i tratti sovra-segmentali assumono un’evidente significanza.
Parlare del corpo della poesia è invece la nostra necessità impellente. Quella che renderà di nuovo possibile il suo futuro, attraverso il riconoscimento della sue radici, l’auto-agnizione che le ridarà identità e dignità.
E’ la sua ‘durata’ il suo appartenere integralmente al tempo, al corpo, al luogo di chi la pronuncia, al suo ‘presente, il suo essere ‘atto’, che fa sì che essa possa ‘vincere di mille secoli il silenzio”; la poesia è una ‘materia’, una ‘concretezza’ (De Campos), prima che un segno, o un simbolo, e il suo dio è Efesto e non Apollo.
La poesia è un’arte che abita il ritmo. E che ne è abitata. Bisogna eseguire una poesia, anche se la si legge a mente, bisogna agire i suoi accenti, battere il tempo di ogni stress. Solo così quella poesia vive, si svela, perché la poesia è un’arte dinamica e l’immobilità la uccide. Il ritmo della poesia è il risultato dell’intreccio tra le ragioni della forma (e della storia) e quelle del respiro, tra la lentezza e il peso dei significati e la velocità e la leggerezza del suono che li trasporta.
La poesia è un’arte che abita la lingua. E che ne è abitata.
La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili. Il compito del poeta è, perciò, far sì che le parole comunichino il più possibile, il meglio possibile, nel modo più imprevisto, profondo, il compito del poeta è ‘tenere in esercizio la lingua’, le parole (Pagliarani), o, se si preferisce, valorizzarne, scoprirne le ‘pieghe’ (Deleuze), dar loro una nuova forma in cui possano di nuovo riconoscersi e risuonare.
Durata, ritmo, suono, lingua: queste sono, a mio parere, le forme della poesia. Tutte le sue forme. Perché la poesia è un’arte plurale. La poesia non si scrive, essa si compone. A maggior ragione quando incontra altre arti, come la musica, rinnovando le sue più antiche radici, o altri media, come il video, le immagini, sperimentando sentieri ancora in buona misura inesplorati.
La poesia è un arte del corpo, tanto quanto della mente, e della sua semiotica concreta, non può in nessun caso essere ridotta all’esercizio di un codice muto, né può mai esserle precluso il dialogo con l’altro da sé, perché il dialogo con l’altro da sé è esattamente la ragione della sua stessa esistenza: essa pertiene tanto all’uso della lingua quanto a quello del respiro, tanto alla disciplina della parola quanto a quella della voce.
Essa è sempre se stessa, ma è sempre disposta a trasformarsi nell’altro, a fondersi, a cibarsi e ad essere fagocitata.
La poesia è un’arte che abita i segni. E che ne è abitata. Quale che sia la sua storia, più o meno fino al XV secolo, i secoli seguenti l’hanno, per l’appunto, irrimediabilmente ‘segnata’, infettata, ferita, colpita, mutata, l’hanno evoluta, fino al punto che le sue cicatrici sono oggi la forma della sua bellezza e della sua efficacia e dunque essa non è più, non può più essere suono, senza essere prima segno muto. Scrittura. Non può più essere pura oralità, anche se non potrà mai rinunciare ad essere ‘oratura’ (Hagège).
Ma il poeta, poi, scrive sempre ‘con le unghie’ (Haddad) e mai con la penna, il poeta legge sempre con le orecchie (e con la voce) e mai con gli occhi, il poeta immagina sempre con il corpo, e con il ritmo del respiro. La poesia è, insomma, etimologicamente, un ‘fare’.
Il suo andare a capo, nello scritto, è solo il simbolo di un movimento della voce, è l’insegna del ritmo, una notazione ‘temporale’, ma nulla di più. Certo non l’essenza del fare poetico.
La lettura poetica ad alta voce, perciò, non è mai un’interpretazione attoriale, ma piuttosto un’esecuzione, anzi una messa in atto, è una performance. Ma lo è da millenni. Da sempre.
Poesia performativa, multimediale, spoken word, hip hop poetry, jazz poetry, spoken music (come si dice oggi in certi ambienti letterari e musicali di New York, per i casi in cui la lettura ad alta voce si fonde con la musica), però, non solo sono definizioni insoddisfacenti (pleonastiche, o tautologiche, improprie, superficiali, parziali), ma anzi rischiano di indicare strade sbagliate. Se mi ostino a negare ogni altra definizione per ciò che faccio, che non sia semplicemente quella di ‘poesia’, è proprio perché credo che la mutazione delle forme del fare poetico a cui stiamo assistendo non influisca sostanzialmente sulla sua natura e sulle sue caratteristiche.
Oppure, se davvero ci occorre un nome nuovo per tutto ciò, noi quel nome non l’abbiamo ancora trovato. Perché le cose esistono prima dei nomi, anche se poi quei nomi, che sono essi stessi ‘cose’, ne influenzano la natura e la percezione.
La critica attualmente legge (ed è in condizione di leggere) solo due delle forme della poesia: la lingua e, sia pur sotto forma di modello, sia pur trasformando spesso la prosodia in simulazione, affidandosi alla reticenza, quella del ritmo.
Sulle altre non può, non vuole e soprattutto non sa dare risposte. Essa è insomma, letteralmente, ‘critica letteraria’, ma non è ancora capace di essere ‘critica poetica’.
Ma questa sua ‘omertà’ è di grave danno alla possibilità della poesia di raggiungere i propri obiettivi: la poesia, senza la critica, è zoppa, rallenta, va a balzelloni. Ed è stupefacente che, pur di fronte all’evidenza di tante esperienze poetiche che nel mondo oggi intendono la poesia come un’arte della voce, del suono, del corpo, che la mescolano e la fanno interagire con altri media e altre arti, la critica non abbia ancora accettato la sfida di rinnovare radicalmente le sue categorie e i suoi strumenti di analisi e di giudizio. Ma che anzi spesso, almeno una parte di essa, preferisca arrestarsi al pregiudizio.
La poesia è un’arte che abita il mondo. E che ne è abitata. La poesia è un’arte che crea mondi a partire dal mondo. Dunque essa non può ignorare il mondo. La poesia è una dinamica di senso e significato messa in moto dall’energia dell’attrito del reale a contatto con i sogni, le speranze i dolori degli uomini.
La poesia è un’arte che abita il desiderio e la speranza. E che ne è abitata. La poesia è ragione del sentimento e sentimento della ragione, è esercizio della speranza attraverso la lingua, anche quando essa articola la disperazione e l’orrore. Anzi soprattutto allora.
La poesia è il desiderio che non si appaga e che non smette di desiderare, la poesia è ciò che insegna la speranza, ciò che addestra gli uomini a sperare sempre meglio, a scoprire una ‘speranza concreta’ (Bloch).
La poesia è un’arte che abita la politica e la storia. E che ne è abitata. La poesia è, dunque, sempre politica perché il poeta senza la polis semplicemente non esiste, e non esiste il senso del suo dire, a meno di trasformare in soliloquio ciò che è strutturalmente dialogo, o, quanto meno, ventriloquio.
La poesia è sempre politica anche quando è poesia d’amore perché mai, come in amore, la politica si realizza, è necessaria, perché l’amore è relazione. La poesia è sempre politica, anche quando è puramente introspettiva, perché nessuna polis potrà vivere a lungo se essa non sarà formata da uomini che sappiano guardare dentro se stessi, tanto quanto sono capaci di leggere le contraddizioni in ciò che li circonda.
Ed essa lo è a maggior ragione quando si realizza in pubblico, quando, cioè, essa ritrova il circolo di una comunità, quando si situa tra la gente, quando il poeta, infine, restituisce al mondo ciò che al mondo ha rubato, per dargli un nuovo nome.
La poesia viva è, insomma, quella che vive già oggi per un pubblico che ancora ‘non c’è’ (Deleuze) ma che essa stessa, prima o poi, farà nascere. Perché la poesia, da sempre, ha nostalgia del futuro, ma colloca la sua speranza nel presente.
Solo per specificare, com’è giusto, che lo scritto è ospitato dal “Verri”, n°39, febbraio 2009.
E per dire grazie a Massimo e a tutti gli amici di NI per l’ospitalità.
lv
La dialefe, la sinalefe, la dieresi, la sineresi, sono accorgimenti metrici per far tornare la misura metrica nel computo sillabico, e in quanto suddivisione sillabica diversa dell’ordinaria appartengono solo di rimando all’esecuzione orale, ma pertengono in primo luogo al metro, essendo, per dir così, escamotages metrici. Inoltre queste figure metriche erano utilizzate con i metri regolari. Ma col e nel verso libero sono pressoché sparite.
@macondo.
certo che sono accorgimenti metrici, ma il metro individua il ‘tempo’, la quantità del verso. Per l’appunto, come sa chiunque abbia recitato ad alta voce almeno una volta a scuola, l’esametro latino o anche più semplicemente qualche brutta poesia carducciana. E sono strettamente collegati anche alla possibilità di ‘memorizzazione’, poi indispensabile alla ri-produzione orale.
Che siano solo di rimando pertinenti all’esecuzione orale, temo sia difficile da dimostrare, anche perchè l’esecuzione orale era l’unica maniera di fruire la poesia, e non solo la poesia, ma qualsiasi altro testo scritto. Il famosissimo scherzo del ‘fesso chi legge’ insomma, a Pompei, nell’epoca di augusto, riusciva sempre, passami la volgarità dell’exemplum. Ma per questo e tante altre questioni riguardanti il rapporto tra scrittura e oralità rimando a Frasca e al suo bel libro.
Va bene tutto ma immaginare una poesia SEMPRE prima di tutto scritta mi pare davvero azzardato….
La mia obiezione era in merito al primo capoverso (o paragrafo), in cui sostieni che tali figure metriche presiedono “l’articolazione concreta dei segni, la loro esecuzione nel tempo, il loro ‘decorso’ e sono “la prova inoppugnabile di quanto una poesia sia qualcosa che ha una durata nel tempo, un’esecuzione”. Ora, a me pare che questo paragrafo non rifletta una esperienza storica di esecuzione orale come può essere la recitazione di una poesia novecentesca o ancor più contemporanea, ma sia piuttosto generico, e io ne capisco solo che la poesia è recitabile. Il che mi pare un po’ poco. Perché il punto mi pare essere quale sia la differenza tra la recitazione di una poesia contemporanea e una d’altre epoche storiche? Le figure metriche di cui sopra non fanno la differenza, perché oggi sono praticamente scomparse, essendo legate a una metrica non più “condivisa”. Che differenza c’è, dunque, fra recitare un sonetto del dolce stil novo, poniamo, e una poesia di Penna? Mi pare che oggi sia il ritmo di un verso l’oggetto recitabile, ovvero la sua scansione post-metrica tradizionale, e nel verso di oggi dialefe, sinalefe ecc. sono assenti.
Mi permetto di obiettare senza aver letto il “bel libro” di Frasca. Peccato mortale?
@lello voce… bello, ben scritto, una secie di distillato sul testo poetico che condivido e che mi fa pensare … poi, in merito alla questione sollevata da Macondo: la poesia scritta, si potrebbe dire, è scritta suo malgrado… la sostanza della poesia è fonica… e poi ci sono gli studi di neuroscienze e poesia
No, macondo, non aver letto Frasca non è peccato mortale, naturalmente,
E la poesia del Novecento non è La poesia, ma solo una poesia, così speriamo ce ne sia una del duemila e ce ne sono state tante altre.
Il ritmo di un verso non so se sia’un oggetto recitabile’, ma se intendi che il ritmo è una delle caratteristiche di un verso, certo, ma questo cosa cambia?
E’ peccato mortale se non seguo il filo del discorso?
bellissimo pezzo, non è frequente leggere qualcosa di non banale sulla poesia, con questa prospettiva così ampia. Grazie.
@ lello,
quel che volevo dire, e magari l’ho fatta troppo lunga, in sintesi è che, azzerata o rifiutata la misura metrica tradizionale, la poesia moderna si fonda sulla scansione ritmica (o ictus, o “centroidi” come li definì Fortini), la quale mi sembra costituire il punto centrale anche dare il ritmo o il tempo all’esecuzione orale. E che a questo livello dialefe, sinalefe, poco c’entrano.
@macondo – scusa ma continuo a non capire perchè per te ritmo e scansione metrica siano cose differenti. La scansione metrica è esattamente ciò che dà ritmo al verso. L’ictus altro non è che l’accento (in inglese ‘stress’) cche in lingue non ‘quantitative’ come l’italiano normalmente (ma non sempre, quanti oceàno ho letto in vita mia a fine verso…..) coincide con quello ‘ortografico’.
Detto questo, un verso libero non è un verso ‘smisurato’,esso risponde comunque ad una regola, pur non essendo essa quella tradizionale. Dunque anche in esso può esserci dialefe, sinalefe, ecc. o può esservi introdotta, per ragioni ritmico-interpretative da chi esegue il testo. Le figure retoriche sono ‘strumenti’, non fini. Chiunque può usarli per farci ciò che vuole….
Inoltre la mia era una trattazione ‘storica’ (che parolone!) dell’argomento e dunque, giocoforza, non era nè voleva essere limitata al Novecento (che palle questo Novecento!).
Ma comunque grazie infinite per la voglia di approfondire e discutere che hanno i tuoi commenti.
lv
Così come la Storia del Teatro non dovrebbe essere una Storia della Drammaturgia, e come la critica teatrale non dovrebbe mai essere una critica della drammaturgia, certamente si dovrebbero valutare altri parametri per la poesia in quanto agita.
Il ritmo della poesia ne è l’essenza stessa. La poesia è musica strappata al silenzio, talora persino musica insensata, ma musica. E’ COME dico quel che dico; spesso quel che dico non è originale o è, appunto, insensato (nella poesia moderna). In quel COME, il ritmo, la sistemazione sul bianco del foglio dei caratteri, è d’importanza capitale. La poesia è la forma dell’ignoto, potremmo dire. In nessun altra arte, forse, la forma (il ritmo) è così importante, se non nella musica, che è puro ritmo, è interruzione di silenzio. Ciò si dà nella metrica classica e nella poesia novecentesca, in Dante e Montale. Nella poesia, una virgola o un a capo sono questione di vita o di morte (esteticamente parlando). Cos’è questo se non ritmo?
Questo libro: http://www.amazon.co.uk/Meter-Poetry-Theory-Nigel-Fabb/dp/0521713250/ref=sr_1_1?ie=UTF8&s=books&qid=1236600864&sr=8-1
cerca di trattare metodicamente gli invarianti del metro nelle diverse lingue dell’umanita’. Potrebbe essere un passo in avanti nella comprensione dei discorsi sintassi/metro/sillabazione e su come la prassi poetica ha lavorato a riguardo.
Qualche giorno fa, Boncinelli sul Corriere ha ricordato gli sviluppi degli studi del cervello, secondo i quali avremmo una sintassi innata, prima del ritmo. Qui l’articolo: http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/09_febbraio_28/edoardo_boncinelli_come_si_parla_il_cervello_lo_sa_gia_3f7f72ea-056d-11de-b310-00144f02aabc.shtml
@ GiusCo,
prima di passare a studiare gli invarianti del metro nelle diverse lingue, non sarebbe meglio fare un giro nel nostro orticello? Autori e manuali, ancorché ottimi, non mancano certo. Alla rinfusa: E. Raimondi, R. Cremante, M. Pazzaglia, M. Fubini, C. Di Girolamo, M. Ramous, A. Marchese… oltreché i validissimi (ma non manualisti) Mengaldo e Beccaria. Anche perché la poesia italiana ha specificità proprie di versificazione: endecasillabo, novenario ecc. Comunque, se dividiamo il verso nelle sue due grandi componenti, metro e ritmo, il metro è solo una misurazione “tecnica” del verso, che regola e organizza la numerazione sillabica, mentre è il ritmo deputato alla scansione (con distinzione tra accenti forti su cui si organizza il ritmo poetico e accenti ortografici, i quali ultimi possono anche non coincidere con quelli forti), quindi alla lettura del verso.
A mio modesto avviso…
si mandi a memoria [ presente e futura ] testi/tasti come questo.
Lello Voce sposa [ sempre ] suono e senso. Un sentito grazie. Dal PUBBLICO [ mai nato? ]. E pecco – lo so – perché sono “in ascolto”. Come i bambini seguo la Musica…
“La poesia è un arte che abita il tempo. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita il suono. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita il ritmo. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita la lingua. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita i segni. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita il mondo. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita il desiderio e la speranza. E che ne è abitata.”
“La poesia è un’arte che abita la politica e la storia. E che ne è abitata.”
La poesia è un’arte che abita La Voce
[ abita l’attore e manda a memoria – per il pubblico futuro, per il popolo futuro ]
@Chiara – Nobile e chiarissima ciò che si manda a memoria infine è la piega del dolore, della stupefazione, della gioia, del desiderio e del piacere. Che tutti comunicano e resistono attraverso il fiato. E la voce.
Lei, poi, più d’ogni altro lo sa. lei, poi, più d’ogni altro, sa che è gonfiando di parole le vite che smagriscono i corpi.
E dunque grazie a Lei. Definitivamente.
[u know that now answer is: kNOw future? hug u, dear, thank to waste ur time reading me…]
[e il mio pessimo inglese…]
[…] di Lello Voce Fonte: Nazione Indiana (link all’articolo) […]
@ Lello:
tributo che le si deve, Tlatoani – per la radice r’ossa che radica e r’esiste.
[ No time lost! Future is: today. It is: cONtamination. Language is a Virus. Play it Your way. Hugs and bites. Growling the dust away! ]
LOTTA love
Chiara