Big Sue
di Vito Chiaramonte
Due uomini trasportano una grande tela che raffigura un grasso nudo di donna. Lei scivola quasi dalla superficie impennata e consunta del divano su cui dorme. Uno dei due la guarda in viso, quasi temendo di svegliarla. L’altro scende piano da una piccola scala perché ha intuito la preoccupazione del primo. Per strada, poi, una donna fotografa la sua immagine esposta nella vetrina di Christie’s, come in una macelleria, esibita e dissacrata. Big Sue, assistente sociale, per nove mesi, come in una gravidanza, ha posato per il pittore. La sua magnifica grassezza le conferisce un’aria insieme triste e trionfale, appena smorzata in tenerezza dal gesto di aggrapparsi allo schienale del divano, per non cadere, come i neonati che stringono il dito nelle loro mani minuscole, come a esprimere una memoria ancestrale di rami ai quali aggrapparsi per non precipitare, o di madri ai cui peli bisognava tenersi attaccati per non morire. L’immagine, allora, non è solo il ritratto di Big Sue, ma di quella corpulenta madre scimmia che ci portiamo dentro la testa, o nel dna, o nella memoria di quello che non abbiamo mai conosciuto e che, tuttavia, conosciamo meglio di quello che abbiamo imparato per aver visto. Colta nella dolcezza di un tempo lontano e immemorabile Big Sue diventa l’immagine stessa del nostro oblio apparente. E di questo dimenticarci la nostra animalità l’immagine non è disposta che ad esprimerne l’idea attraverso la rimozione che nasce dal ricorso alla bellezza della pittura, alla purificazione che i virtuosismi del pennello possono imprimere al brutto. Ma non è la fotografia di quello che vediamo ciò che conta: come nelle austriache madri veneri, sanguinacci paleolitici di materia feconda, le anatomie sezionerebbero l’intoccabile sacralità di una materia che può non avere braccia, e di seni e pance e ginocchia che devono stare lì, a trasbordare nello spazio di un quotidiano in cui quello che conta sono i 33 milioni di dollari con cui la tela è stata acquistata e il prezzo del petrolio al barile. La trasportano i due uomini in guanti bianchi come si porta in processione una reliquia, o un gonfalone, ignari di apparire come sarebbero – se esistessero – i membri di una confraternita che riconosce in Big Sue l’immagine del capro che abbiamo ucciso, della memoria di essere animali di cui ci siamo disfatti, dell’imbarazzo e del disagio di fronte al mondo che abbiamo distrutto e alle città che abbiamo costruito. A noi cannibali di noi stessi Big Sue, pingue e potente, ricorda che cibo ce n’è ancora, e che tuttavia si tratterà soltanto di mangiarlo con gli occhi, nell’immagine patinata del nudo pubblicitario, e che anche questo pasto sarà riscattato e rimosso da un’immagine di un’altra lei, stavolta gravida lei stessa, una brutta Kate Moss, finalmente senza moine, portatrice di una pancia in cui non è mai arrivato cibo, ma un figlio sì, magari un uomo inconsapevole che passerà accanto ad una donna nuda, sdraiata su un letto mezzo sfatto, o un divano consunto, per lanciarle uno sguardo perplesso e pensare che appena le quotazioni salgono quel quadro dovrà essere sostituito.
Canto a le madre.
Si trova le parole per dire l’emozione della representazione di una donna in gravidanza. Luminosa immagine delle mani afferrando il mondo per non scivolare. Il brano evoca la fragilità e la forza di una futura madre.
Quuando ero bambina e adolescenta, la vista delle donne in gravidanza mi creava malessere: troppo carne in straripamento, seni mostruosi, pancia immensa che porta un mondo. Per me la madre aveva una cittadella irraggiungibile, di amore impossibile. perché una madre in gravidanza non è nel presente, ma nel futuro.
Oggi leggendo il testo di Vito Chiramento ( mi fa commozione che un uomo abbia questo sguardo),
penso che ho cambiata d’idea, il big a una bellezza ancestrale, di dono immenso.
Vedendo la mia pancia vuota, mi viene una tristezza
senza parola.
véronique ti ringrazio…
grazie véronique.
Grazie Vito per la delicatezza…
@véronique
in questo momento t ‘ immagino con un bel pancione rotondo e allegro, lo sguardo luminoso, che fai la “cova” ai bambini delle tue parole tenere, piene di candore e trasporto….
Un abbraccio
tra due giorni è l’8 marzo, si farà un gran parlare delle donne e del loro corpo non si dirà nulla. se ne parlerà come di vittime della violenza degli uomini, si rincorrerà un facile qualunquismo e si dimenticherà che non c’è protezione se non c’è rispetto. e rispetto è guardare le donne per come sono con le loro parole fragili come veronique, con la loro bellezza di carne qualunque. anch’io bambina avevo paura della maternità, guardavo il corpo splendente di mia madre e le invidiavo la maturità. la bellezza delle donne la inventano gli uomini come vito e salvatore che sanno fermarsi a guardarle. da questi sguardi incantati nasce la bellezza.
a parte la noia dell’otto marzo, che ogni anno giunge, inesorabile con la sua carica di semplificazione & stupidità politicamente corretta.
chissà quando lucian si deciderà a buttare quel vecchio lercio divano sfondato.
Parole dolce di Salvatore e di Agata.
E’ vero cio che dice Agata “La bellezza delle donne le inventano gli uomini che hanno il rispetto e la tenerezza nel loro sguardo.”
A l’uomo che ti accompagna in silenzio,
a quello che tace il suo desiderio, ma lo svela nella carezza,
a quello che ti fa sorridere e sentire nel caldo,
a quello che ti dà un nuovo corpo nel amore,
a quello che ti fa danzare,
a quello che ti dice vieni,
a quello che ama la bambina che eri,
a quello che ti crede forte, invece sei fragile,
a quello che ti crede ragionevole, sei invece onirica,
a quello che ti crede acqua, sei invece fuoco,
a quello che ti rassicura, ti fa dimenticare la paura di scomparire,
a quello, il fratello, l’amico, l’amante.
Per rispondere a Tashtego,
Il 8 marzo è importante, forse è diventato ancora una giornata del consumo: in Francia, fai le spese e ti offre una rosa. Che vuole dire questa rosa?
Vorrei un immenso rosaio di parole, di gesti per dire la bellezza e la dolcezza delle donne.
Ci sono uomini che hanno una manera di parlare dell’amore per loro compagna che è un vero canto all’amore. Uomini e donne in realtà cercano amore nel loro fragilità.
@tashtego… a proposito del divano di Freud è come se ti chiedessi: come mai Caravaggio ha raffigurato vestiti con i gomiti strappati nella Cena in Emmaus? non era preferibile un bel corsetto secentesco, elegante, bello, da quale sbucava una candida manica di camicia di lino? Ma te l’immagini Big Sue su un divano di Design? Non sarebbe negare tutto quello che l’immagine esprime? Il divano pulito e nuovo io lo lascierei alla pubblicità in cui kate moss mostra le gambe sorridente, felice solo di quelle e del divano, terribilmente sovrastata da uno sfondo nero, come se si lanciasse all’indietro, inghiottita da un pericolo che non vede.
Big Sue è una Mater Matuta post moderna, è un archetipo. Per chi dovesse venire in Campania, suggerisco una visitina al Museo civico di Capua. C’è una sala dedicata alle “MATRES MATUTAE”, statue in pietra raffiguranti le pù importanti divinità preromane dei popoli osco-atellani. Tonde, spaziose, abbondanti…..provenienti direttamente dalla Big Mama (Africa), origine della creazione e della natura e dell’uomo. Ancora oggi diciamo “mamma mai bella!” “mamma ro’ carmine!”. Ma non si pensi al mammonismo o al mammismo.No, per carità. E’ solo restituire l’oiginaria forza e potenza creatrice alla donna, prima che il misoginismo giudaico-cristiano la imprigionasse nel mito di Eva, stravolgendone il mito stesso.
@vito
d’accordo, anche se non trovo niente di male in un divano di ikea.
il fatto è che su quel divano così “espressivo” lucian ci ha steso nudi i corpi più o meno sfatti e lividi di generazioni di modelli e modelle e allora me lo immagino un po’ sporco e unto e graveolente.
e poi caravaggio, ma certo.
@tahtego … beh si… in effetti
tashtego
il divano ‘sporco,unto e graveolente’ sta a l. freud come il caos da accumulazione folle dello studio di reece mews,7 sta a f.bacon.
ottimo pezzo questo di chiaramonte