Breve confessione di un terrorista potenziale e provvisorio
di Flavio Santi
Come la lettera rubata di Poe, forse a dirlo chiaramente si rimane più nascosti e si rischia meno. A metterlo sotto il naso di tutti. Comunque senza giri di parole posso dire di avere partecipato a un piano per eliminare il presidente del governo signor Silvio Berlusconi.
In me il lato oscuro e quello raziocinante convivono a fatica, come due boxeur incarogniti, mi sento anarchico nelle ossa ma riconosco la necessità di uno stato, di alcune strutture che reggano la macchina sociale. Forse le riconosco perché so quanto sia facile passare il guado e spaccare tutto. Non so fino a che punto sia vera la storia che i Santi vengono dall’est ed erano zingari o che, sta di fatto che io mi sono sempre sentito del sangue slavo nelle vene, sangue di gente bellicosa, incazzata col mondo, il sangue grumoso degli ustascia, di Gavrilo Princip il regicida di Sarajevo. Una parola e un concetto che amo molto è dissipare, dissipazione, dissipamento. Che è un disperde ma con coscienza, con una tetra allegria. Comunque questa oscillazione alla fine mi ha portato a cercare di conoscere qualcuno o qualcosa che potesse soddisfare il mio desiderio di uccidere quell’uomo. Possibile che a Milano non ci siano delle cellule, magari piccole, piccolissime, che non stiano pensando a qualcosa del genere, mi dicevo quando capitavo là per andare al cinema o al ristorante indiano. E quando seduti davanti a un pollo tandori ben rosolato e profumato, gli amici mi chiedevano “Si può sapere a cosa pensi?”, allora staccavo l’interruttore e cercavo di non pensare più a commando scelti che fanno irruzione ad Arcore, entrano nel megasalone, rovesciano il tavolo di marmo, catturano il Berluska, gli puntano la pistola alla tempia e con un solo colpo fanno schizzare parti della pregiatissima materia grigia del premier su un piatto di ostriche del Morbihan. Ma mi restava per tutta la serata quella sensazione, che qualcosa o qualcuno stesse lavorando proprio in quel momento a quel piano di eliminazione cruenta, e che anzi telepaticamente stesse comunicando con me. Solo che io non conoscevo ancora il codice di decriptazione.
Nei romanzi a questo punto si dovrebbe dire “ma quel codice non tardò a concretizzarsi…”, invece nella realtà quel codice tardò molto a concretizzarsi, e io passai mesi e mesi a farneticare, a imprecare e invocare un qualche segno, un indizio. Alla luce del sole non c’era niente che ci assomigliasse neppure lontanamente: i centri sociali erano diventati praticamente delle oppierie, dove la responsabilità civile a forza di farsi di marjuana o di popper era diventata più sottile di una cartina per le canne. I gruppi marxisti-leninisti, manco a parlarne: la rivoluzione si va a fare con le cravatte? I ragazzini che portavano le magliette con quel superfusto della guerriglia di Che Guevara non sapevano nemmeno chi era. Il codice si concretizzò un pomeriggio di aprile dello scorso anno, quando nell’atrio dell’università incrociai il senegalese che vendeva i libri delle Edizioni dell’Arco. Era molto incazzato. Parlava velocemente in un suo dialetto africanoide, scuotendo le mascelle e lanciando sputi grandi come grani di pepe.
“Ahmed che c’è?”
Suoni sconnessi.
“Ahmed, dai, che è successo?”
“Ahmed incazzato”
“Sì, l’ho capito”
“Italia paese di merda”
“Sì, Ahmed, ma perché?”
“Italiani merda” e giù una cascata di rumori in cui l’unica cosa che si distingueva era l’arrotare dei denti superiori sugli inferiori, e ogni tanto ci infilava in mezzo la sua lingua rossissima, che gli sfuggiva come fosse un toro inferocito.
“Italiani merda, merda. Berlusconi merda, ma finito…”
Non capivo “finito”: era riferito ad Ahmed, agli italiani o a Berlusconi? o a tutti e tre?
Il permesso di soggiorno non era stato rinnovato, ma Ahmed aveva in serbo una sorpresa.
“Vendetta”.
Il bello degli africani è che si aprono con grandissima facilità, come un fiore di orchidea in una serra ipersolarizzata.
Ahmed conosceva dei tipi a Osnago, a nord di Milano, oltre Arcore, che stavano progettando qualcosa.
Le resistenze di Ahmed erano molto deboli, bastò che gli comprassi tutti i libricini che aveva in mano, erano sei, e per 37 euro e 20 (ogni volumetto costa 6 euro e 20) comprai con i libricini anche il suo segreto. Quei tipi di Osnago erano una cellula autonoma di sette persone, cinque italiani e due islamici che stavano progettando qualcosa contro qualcuno. Lui li conosceva perché Wahid, uno dei due islamici, che aveva conosciuto anni fa al dormitorio di via Calvino a Milano, e con cui allora capitava qualche volta di masturbarsi insieme, questo Wahid poi si era messo con sua sorella Yasmine che lo teneva informato di tutto.
Eccoci, mi dissi.
Per altri 20 euro (gli ho fatto la spesa per una settimana in pratica) ho avuto il cellulare di uno degli italiani, Poison (era evidentemente un nome in codice): **********.
La notte stessa, dopo aver passato una serata in uno stato di eccitazione estrema, verso l’una, faccio il numero. **********. Uno squillo solo, poi una voce. Profonda. Sento la turbina impazzita del mio cuore. Non si presenta, mi chiede solo chi mi ha dato il numero. “Ahmed” dico io. “Bene, domani a Osnago, alle dieci di mattina. Fiat bravo nera. Non un minuto di più”. E stacca.
La notte sogno una donna enorme, altissima, avvolta in una cappa nera, una specie di grandissimo cono, assomiglia a Belfagor, il fantasma del Louvre, ha il volto coperto da una maschera d’oro e a un certo punto apre la bocca, ma non escono parole, solo dei fortissimi ticchettii di sveglia, toc toc toc, pesanti e inesorabili. Mi svegli sudato. Le tre. Il buio mi avvolge come una camera iperbarica. Un po’ di vento tiene sveglie anche le tapparelle. Mi riaddormento. Secondo sogno: un uomo magro, sì lo riconosco, è quell’impiegato della biblioteca dal volto quadrato, maglione nero a collo alto, è filonazista, l’ho visto io una volta fare il saluto, adesso marcia per strada con un gruppo di altri vestiti in nero, si sente il rombo cadenzato degli stivali: tum tum tum. Sono sconvolto. Marciano e nessuno dice niente. Anzi gli fanno strada. Tum tum tum. Passo dal sogno al dormiveglia. Ho la sensazione di non aver dormito. Ma sono già le sei e mezzo. Mi devo alzare.
Prendo la bici. Arrivo in stazione. Faccio i biglietti. Salgo sul treno. Mezz’ora. Milano. Metro. Porta Garibaldi. Salgo un altro treno. Dieci minuti. Venti minuti. Mezz’ora. Scendo dal treno. Sono a Osnago. Guardo l’orologio: 9 e 24, dieci minuti di ritardo. Prendo un caffè. Mi metto in sala d’aspetto. Mi manca il fiato. Fuori c’è un’aria primaverile. Non c’è tempo per i dubbi. Cancellarli. Dovevo pensarci prima. Eccoci. C’è una normalissima Fiat bravo nera, per non dare nell’occhio. Gli insospettabili, gli insospettabili, mi ripeto nella testa. Se qualcosa verrà, sarà dagli insospettabili, dal tuo vicino di casa, dal postino, da quel ragazzo sorridente amico di tua figlia. Sarà dietro la maschera tranquillizzante dell’anonimato che esploderà qualcosa. Guardatevi dagli insospettabili…
Mi mettono in testa la federa di un cuscino. Dieci minuti di spinterogeno, poi sfiata. Si sono fermati. Mi fanno scendere. Mi tolgono il cappuccio. Siamo dentro un capannone. Eccoli, sparsi nell’ampio spazio dell’hangar i sette uomini che passeranno alla storia come coloro che uccisero Berlusconi: tutti maschi, sui quarant’anni, facce normali da impiegati, qualcuno anche ben pettinato, penso che nella vita di tutti i giorni siano persone gentili e anche un po’ fragili. Eccoli, gli insospettabili. Hanno nomi epici: Poison, Hateful, Apice, Scheggia, Khomeini, Wahid e Ihab.
Per le armi ci si appoggia a gruppi islamici, e qui Wahid e Ihab sono i contatti. Armi che comunque transitano di solito dalla ex Jugoslavia. Il piano è in via di definizione, a loro serve un insospettabile, preferibilmente giovane e incensurato, da collocare in una città come tante, to’ Pavia, soprattutto per smistare o nascondere il materiale.
Benissimo.
L’incontro dura poco, dieci minuti al massimo. Di nuovo federa in testa. Non ci salutiamo neppure. Percorro quattro, cinque metri, non so, inciampo su una specie di zoccoletto, lo evito, capisco che sto uscendo, sento l’aria nelle mani, risalgo in macchina.
Dopo dieci minuti circa, via il cappuccio. Stazione di Osnago. Non ci salutiamo neppure questa volta.
Il treno arriva quasi subito, come se si fosse messo d’accordo. C’è una precisione nelle azioni di ogni cosa che è agghiacciante se non fosse casuale.
Casuale?
Il controllore che mi timbra il biglietto ha uno strano sorriso. Consegnandomi il biglietto mi dice, quasi sussurrando: “Fatto esami?”. Farfuglio qualcosa e ringrazio. Fatto esami? Cazzo significa? Sì, in un certo senso, sì, gli esami della storia. Ma il candidato vero, oh sì cazzo, quello deve ancora presentarsi alla commissione esaminatrice.
Aspettando a Milano il treno per Pavia, mi proietto già il film dell’attentato: la macchina di Berlusconi tampona una Fiat bravo nera, dalla Fiat scendono quattro uomini in passamontagna, hanno delle mitragliette in mano, ma questa volta non sbaglieranno, mi dico, l’errore è già stato fatto in passato, questa volta sceglieranno bene, e infatti uno dei quattro sfonda il parabrezza col calcio della mitraglietta MP5K, è una giornata di sole, così serena da contrastare con la violenza che si sta consumando. Il signor Berlusconi è senza guardie del corpo, guida il suo autista, che non è armato, è in incognita, sta andando da una supersquillo nei pressi di Olgiate. È da anni che lo fa, in grandissimo segreto, ma finalmente si è saputo. È stato smascherato. Qualcuno è stato pagato per parlare. Macchina tamponata, autista immobilizzato (sugli altri niente violenza, per carità!), lui rannicchiato sul sedile posteriore, tenta di chiamare qualcuno al cellulare. Aprono la portiera, lui farfuglia qualcosa del tipo “Ma insomma, cos’è? Eh, ho capito, dai, siete di “Scherzi a parte”, va bene, va bene”, ma dagli strattoni capisce che no, non è su “Scherzi a parte”, e allora cambia registro: “Non vedi chi sono io, comunista bastardo! quanto vuoi? sì, ti do tutto, quanto vuoi?”. Lo gettano sulla strada a corpo morto. Un solo colpo chirurgico sulla nuca. Addio dottor Berlusconi.
Ero abbastanza soddisfatto della regia, certo ci avremmo lavorato in queste settimane in sala montaggio, ma le scene c’erano tutte e grondavano rabbia e violenza. Ma anche, quello che era essenziale, giustizia.
Finalmente.
Finalmente?
In fondo, mi dicevo tentando di autoconvincermi (la morte non è mai bella, è sempre una bestia nera, una manciata di sale sul cuore), è quello che vogliono molti italiani, li sento cosa dicono negli uffici, nei bar, per strada, cosa sussurrano. Cosa si dicono nell’angolo più nascosto della loro coscienza, in fondo agli occhi, nel ripostiglio più remoto della loro anima, lo dicono, se ne pentono, ma poi se lo ridicono. Che sia un incubo o un sogno a occhi aperti se lo ripassano spesso. Lo so. Sì, lo so ma io chi sono per decidere della vita di un altro uomo? per quanto detestabile, è lecito ucciderlo? sto cedendo, no, devo uscire da questo rovo della coscienza, ma sì, concèntrati, una via d’uscita ci dev’essere. Una soluzione. Ecco: perfino Gesù disse di portare la spada, la guerra, e non la pace. Insomma lo faccio per gli altri, per la comunità, per il paese… Alzai la testa in cerca di una conferma. Nuvole grigie in cielo. Tutto taceva. E tu, passeggero che condividevi il mio stesso binario e forse aspettavi il mio stesso treno, tu che avevi l’aria saggia e serena, che rappresentavi l’opinione comune, la persona incrociata casualmente, tu che avresti fatto? Ma anche tu tacevi inerte…
Mi avrebbero richiamato loro.
Ancora oggi aspetto. È passata un’estate, un autunno, e un inverno sta per finire. I primi giorni di marzo lambiscono i nuovi germogli sugli alberi, dopo la pausa invernale la vita sta rinascendo. Fra un po’ il ciliegio fiorirà di nuovo. Ogni volta che squilla il telefono mi dico che è la volta buona, cerco con la forza del pensiero di modificare la curvatura degli eventi, in qualche modo. Mi ripeto “Sì, sì”. Ma all’altro capo della cornetta c’è sempre qualcun’altro, che ingombra, impaccia, occupa immeritevolmente la linea telefonica. Cerco di starci e usarlo il meno possibile e sollecito a fare altrettanto. Uso la scusa delle bollette sempre più care.
Niente.
Cerco di tenermi informato sui tigì e sui giornali per vedere se magari un gruppo di Osnago o dintorni è stato catturato, se fra gli islamici sospettati di attività terroristiche c’è anche Wahid (ma il cognome non lo so!) e quell’altro, Ihab. Niente.
Forse non si sono fidati, certo con la faccia che ho: dovevo togliermi gli occhiali. Non si fidano di quelli con gli occhiali, dovevo immaginarlo. Ma poi per farmi coraggio mi dico: ma no, anzi, quelli con gli occhiali sono più insospettabili ancora.
A Osnago a cercarli non ci torno, non erano questi gli accordi, e poi se fossi in prova e loro mi stessero spiando per vedere fino a che punto sono affidabile? ma sì, forse è come se fossi congelato, mi hanno messo nel loro freezer e aspettano l’occasione buona per scongelarmi come fossi mezzo coniglio ghiacciato.
A volte li sento anche questi brividi di ghiaccio.
Sarà la storia a resistere alla violenza o la violenza a resistere alla storia?
[tratto da La guerra civile in Italia, ne abbiamo parlato qui]
La vera merda siete voi che licenziate colpevolmente il “pensiero”, tenendovi stretto fra le natiche il rumore dell’insipienza. Continuate a sparare le pallottole dell’imbecillità.
Nel simpatico paese in cui viviamo (vivete) qualcuno con poco senso dell’ironia e della letteratura sarebbe capace di far chiudere il sito, per un pezzo del genere.
pezzo magistrale che sfonda, letteralmente è il caso di dire, le sfatte parete della letteratura per darci una lezione della violenza che ci inquina. Bravi!
Premesso che il racconto mi è piaciuto, vorrei però fare un paio di osservazioni. Concordo con Jacopo Galimberti sulla “pericolosità” (nel senso di effetto boomerang, che si ritorce su NI) di un testo come questo. Se vi ricordate l’immenso polverone sollevato intorno alla bellissima – sottolineo e ripeto: bellissima, commovente, e più forte di molti racconti – vignetta di Mauro Biani su Brunetta, concorderete che qui siamo parecchio più avanti. Chiunque volesse appigliarsi, come sempre più spesso succede, a questo pretesto, avrebbe gioco facile. In America “Death of A President” avrà fatto alzare al massimo a qualcuno il sopracciglio, qua non ce la possiamo neanche sognare, tanta libertà di fiction.
Eppure questo non è ancora il vero punto. Il punto è che ci sono alcune cose a mio parere sbagliate, nel racconto. Per esempio quando si parla del “cuore grumoso degli ustascia”. Sarò bacchettone, ma non riesco a tollerare un passo che suona: “sangue slavo nelle vene, sangue di gente bellicosa, incazzata col mondo, il sangue grumoso degli ustascia, di Gavrilo Princip il regicida di Sarajevo”. Non sopporto questo anche solo fuggevole apprezzamento per gli ustascia, avvicinati poi a Princip, che era un giovane debole e manovrato, un assassino sì, ma simile a tanti anarchici regicidi tra otto e novecento, non un sadico frate francescano tagliatore di gole come il Fra Diavolo direttore del Lager di Jasenovac, Fra Majstorovic. Il regime degli Ustascia è stato abitato dai più feroci e vigliacchi massacratori del XX secolo, gente che faceva cose davanti a cui inorridivano persino le SS, assassini talmente efferati che i soldati italiani d’occupazione in Jugoslavia, anche loro niente affatto degli stinchi di santo (basta leggere i libri di Del Boca), li avevano diffidati – pur essendo alleati – dall’avvicinarsi alle loro zone di competenza, altrimenti li avrebbero presi a fucilate. Assassini spaventosi “con le spalle protette dalla Wehrmacht a l’anima dalla Chiesa Cattolica”, come scrive Sebald ne “Gli Anelli di Saturno”.
E non mi piace, sulla stessa linea, che l’assassino potenziale di Berlusconi in questo racconto abbia sangue slavo, né che si unisca a un gruppo di fuoco collocato in area vagamente islamica. Non è il momento, mi pare, neanche per via di fiction, di ribadire certi stereotipi.
Il racconto è bello, ripeto, ma queste zone d’ombra mi hanno infastidito.
Non preoccupatevi. Lo spettacolo è l’antidoto più efficace contro l’urgenza della storia. E poi come si fa a pensare di scatenare una rivoluzione uccidendo uno che ha già pronto un mausoleo? Sarebbe solo l’avvio della fase 2. L’apertura del testamento e la discesa dello Spirito.
“la scrittura è un’interrogazione tentativa, per conoscersi…” la frase è tratta dall’ultimo libro di Arbasino “La vita bassa”. Il brano di Santi è proprio la tipica negazione di quanto riportato da Arbasino. Non si crea, interrogando se stessi e gli altri per entrare in un mondo d’interrelazioni proficue culturalmente. Santi veste con un abitino narrativo piccino, piccino il solito manifesto antropologico-politico. Le mitragliette servono per una variazione di voce, perché ripetere senza immaginazione l’indignazione e la ripugnanza nei confronti di uomini ritenuti, evolutivamente, al di sotto degli scimpanzé, può sembrare rozzo.
Tranquilli, nessuno vi tappa la bocca. L’assassinio di Berlusconi e’ un’ossessione piuttosto ricorrente nella letteratura italiana dell’ultimo decennio. A chi interessa il genere consiglio “Kill?” dell’ingegner Vacca Roberto, anno 2005, edito da Marsilio. Signore gentile e simpatico il Vacca, tuttora in liberta’, spesso in televisione.
dinosauro, dal modo come utilizza le citazioni, si direbbe che l’unico ad essere “piccino piccino” è lei
Per fortuna è andata buca… Dopo Unto dal Signore anche Santo & Martire, no, proprio non lo sopporterei
C’è “L’omicidio Berlusconi”, di Andrea Salieri, Edizioni Clandestine, del 2003 (ma il tono è diverso, surreale, l’omicidio è casuale, il libro è quasi un esorcismo). L’autore è ancora in libertà.
Sono d’accordo con luigi weber sugli ustasha. Tuttavia ho avuto l’impressione che la svista non sia casuale, che contribuisca a dirci qualcosa del protagonista.
(non fosse, magari)
Ripeto, quello che ho già detto prima: qua mi pare che il principio sia lo sfondamento. Ovvio che uno che vuole uccidere il nr simpatico premier magari tanto a posto poi non è, questo mi sembra di capire dal tutto. O sbaglio? una mente infetta, inquinata, ma poi perfettamente inserita nel quotidiano
non sono nemmeno riuscito ad arrivare a metà racconto, molto probabilmente perchè quando si mischia indottrinamento politico e narrazione alla fine si perde di vista una delle due. E questo pezzo, che per la storia raccontata, certamente necessitava di suspense, è a mio avviso molto noioso. In rifermento ad alcuni commenti, non credo che NI rischi la chiusura per questo, così come non la rischierebbe per qualsiasi altro articolo sul Berlusconi. Faccio notare che è molto curioso come autori, o meglio persone, che vogliono il ridimensionamento almeno mediatico di Berlusconi non fanno altro che scrivere di lui, continuando ad aumentarne l’esposizione. forse il problema è che Berlusconi anche con qualche estimatore/dissacratore (nel caso di NI solo dissacratori) continua ad essere Berlusconi con la solita notorietà, ma i secondi tolto di mezzo l’argomento Berlusconi con i relatici annessi e connessi forse non sono capaci o non vogliono, o meglio non trovano redditizio non solo dal punto di vista economico, ma anche in termini d’immagine o di seguito presso il pubblico, scrivere di altro…(travaglio docet)
correggo l’errore: con qualche estimatore/dissacratore in meno
Neanche Oliviero Beha mi pare sia in galera: “Sono stato io”, Marco Tropea Editore, 2004.
Lavora ancora in RAI?
berlusconi: arma di distrazione di massa
non tormentarti, sposta solo il tiro
baci
la fu
Io ricordo: “2005 dopo cristo”, uscito per Einaudi Stile Libero e scritto a quattro mani da Raimo, Pacifico Longo e Lagioia.
E “Chi ha ucciso Silvio Berlusconi” di Giuseppe Caruso, per Ponte alle Grazie.
Ovviamente tutta gente a piede libero.
…e dovresti fare una carneficina, un olocausto, nastrage insomma, la strage degli “innocenti”
la moderazione è il mio forte :)
“sangue slavo nelle vene, sangue di gente bellicosa, incazzata col mondo, il sangue grumoso degli ustascia, di Gavrilo Princip il regicida di Sarajevo”.
chi vorrebbe la verità storica o il politcally correct in questo brano è un pazzo. Le affermazioni possono essere pericolose se prese alla lettera, ma questo non è un manifesto politico, racconta emozioni viscerali, e le emozioni viscerali (purtroppo) non seguono sempre la ragione.
si, il punto debole non è l’idea del racconto, ma il suo sviluppo, che non da risalti scenici o surreali o qualsiasi altro espediente per evitar la noia (il nano che va da una supersquillo, wow, ma che, hai chiesto aiuto alla nonna?). va be che è solo un racconto, ma essendo il tema quasi stropicciato inventati qualcosa. dai, cazzo, non si può far morire berlusconi di un colpo chirurgico, anche se a me non sta poi cosi antipatico, fagli almeno cucire il pene sul trapianto tricologico, inventati una striscia di sangue lunga almeno 16 cm., che so, cazzo, inventati qualcosa, così è troppo piatto.
Il centro sinistra dice che è ora di finirla con l’antiberlusconismo. Un po’ come dire agli antifascisti di smetterla di essere contro Mussolini.
Quell’uomo, caricatura all’ennesima potenza dell’indefinito italiano medio, è la radice di molti dei mali che affliggono questo paese.
Che senza di lui non starebbe poi tanto meglio, questo forse no, però avrebbe meno vergogna di se stesso. Una vergogna così grande da spingerci a distruggere tutta la bellezza che ci circonda e che un tempo, forse, avevamo nell’anima.
Il racconto è scontato, dunque non riuscito. La figura di Berlusconi è talmente inflazionata che, se si decide di trattarla, occorre farlo in maniera spiazzante. Il racconto così svolto invece, paradossalmente, a mio avviso la rafforza. Occorrerebbe sforzarsi di tirar fuori da questa figura quel che di più mostruoso ha, il vuoto pensante, quel volto in cui potrebbero benissimo, come nel SIGNORE DELLE MOSCHE, ronzare insetti immondi, e stupidamente geniali, o genialmente banali. E’ la banalità l’aspetto più sconcertante del fenomeno Berlusconi, una banalità che evidentemente di banale deve avere poco. Non è la squillo il problema del berlusconismo, ma il fare sì che a molti di noi possa venire in mente la squillo per sbertucciarlo: una sclerosi della fantasia e della creatività, anche di quelle distruttive.
“Brutus is an honourable man”, diceva il Mark Antony scespiriano, e l’effetto trascinatore della sua arringa fu quello di rovesciare retoricamente il concetto dell’onorabilità di Bruto attraverso la sua ripetizione incalzante. Immaginiamoci se Marco Antonio avesse eliminato, per una sorta di scrupolo politically correct, dalla sua frase il nome proprio, il soggetto. Sicuramente l’effetto sulla folla sarebbe stato nullo. Ora, proprio questo ha fatto nell’ultima campagna politica, il candidato della “sinistra”. E gli effetti li abbiamo visti. Ma questo vale nella lotta politica ad personam, che di politico ha poco, perché trasforma il discorso politico in un discorso morale, demonizzando l’avversario. E il Marco Antonio scespiriano poteva usare a suo profitto quell’artificio retorico perché era, come Bruto, un uomo di Potere. La lotta tra di loro era una lotta per il Potere. Ma se non si vuole limitarsi a sostituire al Potere una persona, Brutus, con un’altra, Marco Antonio, ma si vuole mettere in questione la natura e gli effetti perversi del Potere e la sua gestione, allora non basta o è sbagliato demonizzare l’avversario. Trasformarlo nel Male. Perché Brutus è una pedina del Potere, che provvisoriamente gestisce. E se si vuole combattere il Potere in quanto delegittimante la potestà e la sovranità democratiche del cittadino, che sia Brutus o Mark Antony a esercitarlo è irilevante. Per cui una critica al Potere deve andare al di là del soggetto che lo gestisce, e centrarsi sull’oggetto storico Potere, per cui, anziché “prendersela” con il soggetto Berlusconi, è più utile indagare la storia recente, politica, economica, sociale, culturale, che ha reso possibile a un individuo la presa del Potere.
impulsi puerili che molti di noi avranno provato di fronte alla sua ennesima esternazione barzelletta maschia mascella e vanesia vanteria.
che sia arrivato il momento di diventare adulti?
come e con chi non so
però forse bisognerebbe ripartire…
dimenticavo
la “breve” confessione m’annoiò
Se berluscone uscisse di scena in un botto (non necessariamente dipartendo) sarebbe ovviamente un bene per la politica italiana. Non necessariamente per l’Italia. Perchè berluscone non è un problema politico (non arriva, in tutti i sensi, ad esserlo): in realtà è un problema estetico. Disgusta la bruttezza di ciò che dice, di ciò che fa, che propaganda, che spaccia… Il vero problema politico è che berlusconi abbia un peso politico. Il problema estetico sfocia invece in una questione di buon gusto, che notoriamente è di pochi (perciò estranea alla democrazia formale). Dunque Santi prova a riportare le cose alla dovuta dimensione, però usando armi estetiche spuntate: il racconto non graffia. La verà tragedia, peraltro, (quando non si posseggono armi adatte) è che estetica e politica non possano fare a meno l’una dell’altra.
Un problema estetico è anche un problema morale. Quando si dice “una bella persona” le due cose vanno insieme, a questo credo che alludesse Sean Penn comunicando la sua contentezza per il fatto bche il nuovo presidente fosse “una persona elegante”.
Se Berlusconi uscisse di scena ci si liberebbe di un problema estetico, ma resterebbe quello politico… Quoto niky lismo
Mi chiedo spesso se vivo in un posto dove B. non troverebbe nulla a cui aggrapparsi. Semmai qui sarebbe Berluskoning, da koning re naturalmente. Una regina peraltro qui c’é, ha la guance rosse che prendono fuoco come quelle delle raccoglitrici d’oltretanaro quando scendevano per olive in liguria e i proprietari del posto guardavano loro i polpacci. Ha polpacci potenti, la regina, e un figlio biondo che ride sempre e si é andato a cercare moglie nel conosur e un suocero – dicono – che stava indecentemente mischiato forte con la junta del paredon.
Il racconto di Santi mi é piaciuto molto.