Da tutte le parti

di Vincenzo Martorella

Prendete “Both Sides Now”. Direte: quale? Buona domanda, perché la questione è tutta lì. La prima e l’ultima, come un pendolo definitivo. La prima, e la sua ingenuità soltanto apparente; l’ultima, che gronda e trasuda, tracima ed esonda qualcosa, difficile da definire. Dove tutto è sottile, e subdola, innocenza Joni Mitchell sostituisce la vita, la grana delle cose, le rughe della sua voce. Si cresce, già. E si matura. Si cambia. Sembra facile. Non sempre gli artisti ci riescono, in fondo.

Se, e quando, invece, si è anche un retro, oltre che una faccia, diventa possibile qualsiasi meraviglioso prestigio: come, ad esempio, guardarsi indietro (brivido), riprendere tra le mani fette e spicchi di un passato, di schegge di vita annegate in un bourbon dal gusto ormai amarognolo, ma che si è bevuto, brindando, alla salute. E alla faccia.

In questa semplicistica equazione la grandezza di Joni Mitchell è addirittura avvilente per quanto enorme, e forte, e granitica, si manifesti. Non nasconde nulla. Ogni ruga un trionfo, ogni sigaretta una ruga in più nella voce, e macchiolina nei polmoni. Ma proprio quella macchia e quella ruga sono oggi il plusvalore di Joni Mitchell, nata Roberta Joan Anderson, pittrice e musicista, poetessa e sibilla, testimone e indovina. Se la vita è solo una questione di percorsi, e tragitti – come qualcuno vuol farci credere – il tempo che la Mitchell ha trascorso al pit-stop deve averla irrobustita. Perché tutto il suo stile è nel modo in cui prende le curve, nel come costruisce le traiettorie, controlla le sbandate: non una indecisione (o forse mille, un milione), non uno sbaffo di polvere sulla strada. Per lei, che è viaggiatrice di mondi e anime, la pulizia dell’asfalto è diventato un punto d’onore. Per carità, ci si può lasciar tutto, sopra, compresi i propri sbagli, ma è l’eleganza che conta, la leggerezza, la classe.

Ecco, se prendete le due versioni di “Both Sides Now” (l’una, la prima, addirittura lontanissima, è in Clouds; l’altra, più recente, è nell’album omonimo, uno di quei lavori che si fanno per onorare un contratto, mica per altro, e dentro c’è tanta emozione che gli altri ci farebbero camminare i treni, con un quarto) a far la differenza è la strada sotto la voce, la polvere nei sentimenti. Da giovane, Joni guarda dritto, e ha fiducia, sebbene il problema non sia dei più semplici da risolvere: io – dice – dell’amore, e della vita, ho conosciuto soltanto l’illusione, ma l’amore, e la vita, proprio loro quella roba là, no, non so cosa siano. Epperò, mica robetta. E, nella confessione dolorosa, aiuta poco la cristalleria vocale, e l’ottimismo dell’accordo maggiore. Tant’è che, quando ci ritorna su – come per togliersi un dubbio, come per trovare quella parola sulla punta della lingua – la pittrice cambia tavolozza, squadra la tela e tira giù un taglio come neanche Fontana. Lo squarcio è talmente profondo – e drammaticamente bello – da far apparire tutto quello che abbiamo visto e sentito prima un’approssimativa e dilettantesca prova. Un cartone preparatorio.

È nel taglio, nella luce che passa attraverso, che si realizza lo stuporoso effetto finale, la trasformazione. Cui partecipa un signore, di nome Vince Mendoza, che di mestiere non fa l’arrangiatore, ma interpreta i sogni. E ammaestra i desideri. Solo lui avrebbe potuto costruire – meglio di Gondry, credetemi – uno scarto così preciso e credibile tra sogno e realtà, tra finzione e verità, tra canzone e vita.

Appunto, il problema è lì, anche. Nel senso che mica è facile dire dove finisce l’uno e inizia l’altro. Anzi, questo è esattamente il problema, dietro al quale ci affanniamo un po’ tutti. Joni Mitchell, però, ha una soluzione. Un’idea. Perché la seconda “Both Sides Now” arriva alla fine di qualcosa. Di un tragitto, di una serie di storie, di un insieme di stati d’animo. Tutti hanno a che fare con l’amore, e sembra che – alla fine – disegnino una specie di mappa, di carta geografica dove ogni punto è un tratto del viso. L’aveva detta Borges una cosa così, e Joni la fa sua con la grazia di chi non ha più paura, e ha incendiato tutti i nascondigli. Pensate, l’album si apre con “You’re My Thrill”, e lì capiamo tutto, se ascoltiamo con attenzione il vibrato col quale lei urla l’ultima ripetizione del verso. L’abbiamo già sentita, una cosa del genere: abbiamo già traballato per la stessa sofferenza riflessa, per la stessa difficoltà nel tenere la nota. Giusto, era Billie Holiday. È da lei che una cosa così l’abbiamo sentita la prima volta. È da lei che abbiamo imparato – noi come Joni Mitchell – che la vita e le canzoni sono quasi la stessa cosa: dipende da che lato le prendi, da quale punto le guardi, con quali occhi le ascolti.

Il prestigio, l’illusione sta in questo trucco tirato fuori dal cilindro, dunque. Quando rilegge “Both Sides Now”, lungi dal renderla un fiore essiccato tra le pagine di un libro, la Mitchell la trasforma in un bilancio: nel resoconto di un’esistenza, nel tratto finale di una strada lunghissima, di cui conosce ogni curva, ogni versante d’aria. È la strada, più che la meta, ad essere allora avvincente. Ogni tappa un brandello di cuore ed esistenza, grammi di sale sparsi sul bicchiere di tequila offerto a una persona seduta sullo sgabello accanto. Nell’America stracciata, lacerata, vilipesa, offesa e denigrata, la Mitchell rivendica il peso dell’esperienza, la forza di un passato privato – una forza problematica, tutta iscritta nel senso ultimo della riflessione su cosa è stato e cosa potrebbe essere -, che non è il ripiegamento su se stessi, badate bene, ma il coraggio di puntare sull’amore come essenza del cambiamento. Anche se poi non cambia nulla. O tutto, ed eravamo soltanto troppo distratti per accorgercene.

Quando Joni Mitchell sceglie i brani della scaletta di Both Sides Now non racconta soltanto i propri, di batticuore, non rende pubbliche le asimmetrie del cuore, del suo. O, almeno, non solo. Prova a costruire una storia universale dell’amore, un posto nel quale ognuno di noi può ricordare di essere stato. Con i colori tipici delle foto sbiadite, le coperte all’uncinetto, l’albero lontano sullo sfondo di un verde troppo acceso, i momenti quelli. Mentre Billie Holiday canta se stessa, e mette in musica un’autobiografia dolorosa e dolente, la Mitchell indica anche una speranza, una opportunità. Nell’apparente impossibilità di una risposta – l’amore? la vita? – sembra dirci che una risposta c’è, ed è solo in fondo alla strada, e quella risposta sarà tanto più esatta quanto l’avremo vissuta viaggiando.

Viaggiare così è un lusso che ti concedono in pochi. Dopo “You’re My Thrill” arriva “At Last”, e il cuore va sull’ottovolante. Mendoza fa una cosa impossibile, come ogni vero prestigiatore: prende un vecchio tema – che è già in bianco e nero – e lo fa ancora più bianco e ancora più nero. Il terzinato così elegante (lo suonano gli archi, mica quella pippa del nostro bassista); il movimento di due corpi che danzano sulla pista da ballo dei propri rimpianti, e che – infine – diventa vera, felice: at last, alla fine, dice, l’amore l’ho trovato. E ha il ritmo del terzinato, trasmigrato ora al pianoforte, mentre gli archi suonano una cosa mica tanto felice, mica tanto at last. Così iniziamo a capirlo, ‘sto trucco di Mitchell e Mendoza, così iniziamo a sospettare, ad avere la sensazione del più dolce degli inganni, del più tenero dei raggiri. Che diventa certezza quando arriva “A Case Of You”, piazzata, in questa mica tanto bizzarra road map del cuore, a metà percorso. A metà, quando la strada alle spalle sembra pochissima, il viaggio pare iniziato da un minuto e la meta è lì, la vedi, quasi la tocchi. No, nient’affatto. Ci vuole ancora strada, e polvere negli stivali, e rughe nel cuore, e dolore nelle caviglie.

Ci vuole questa cosa meravigliosa che è la pazienza dell’amore, la faccia tosta per resistergli, e la fiducia nell’attesa. Il silenzio della sospensione e la prontezza nell’avvistarlo. Il fiato per gridarlo e le lacrime per vederlo.

Che poi arrivi o no, è un dettaglio. Uno di quelli minuti, minuscoli, che a volte non li vedi neppure. È che Joni Mitchell canta con tanta precisione da convincerti che no, non era vero, non è successo niente: posso bere una cassa di te, e stare ancora una volta dritta sulle mie gambe.

Alla tua.

*

Critico musicale e storico della musica, Vincenzo Martorella ha insegnato “Storia della Musica Alternativa”, presso la SSIS dell’Università di Bari, “Storia della musica del XX secolo” al campus di Firenze della New York University; presso il Conservatorio di Terni ha tenuto cicli di conferenze sulla storia del jazz, materia che per quindici anni ha insegnato, insieme a “Metodologia della Critica Musicale”, “Storia della Popular Music” all’Accademia della Critica di Roma, dove ha tenuto un “Laboratorio di Scrittura Critica”. Negli ultimi anni ha tenuto conferenze, guide all’ascolto e corsi di storia della musica in tutt’Italia.

Autore di centinaia di articoli e saggi, direttore di collane editoriali e festival jazzistici, ha al suo attivo numerose pubblicazioni; l’ultima è Art Blakey. Il tamburo e l’estasi, edito da Stampa Alternativa nel 2003. Nell’autunno del 2009 uscirà presso l’editore Einaudi un suo libro sul Blues, primo di una serie di tre volumi che esploreranno, in un’ottica innovativa, la storia della musica del ventesimo secolo.

Ha scritto per numerose testate italiane e internazionali (“L’Espresso” e “Liberazione”, tra le altre); collabora con “Il Manifesto” e “Alias”. Ha diretto il bimestrale Jazzit e MUZ, rivista di rock.

*

[Questo articolo è già apparso, in versione leggermente diversa, su MUZ di marzo/aprile 2007 (numero 3 della nuova serie).]

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15 Commenti

  1. Caro Vincenzo, hai fatto proprio bene a segnalarmi quest’articolo, che non avevo letto nella sua prima uscita. Che dire… pochi, penso, sanno rendere la complessa bellezza dell’arte di Joni come te. Play it again, Sam! (come dire “Facce ancora, Vicié…”). Baci.

  2. grande stile di presentazione, anche per me che nella mia abissale ignoranza nulla sapevo di tutto ciò. Grazie assai, la voce della Mitchell è piena di sapori e profumi di gran livello

  3. Allora, qui è questione di fisica, non di metafisica. Avevo commentato brevemente senza aver visto il filmato. Ora che l’ho visto voglio fare un appunto sulla meravigliosa fisicità di questa (meravigliosa, anche, lo è stata eccome) donna. Guardate il movimento delle mani, degli avambracci, più raramente delle braccia, mentre canta. Come gioca – come una cantatrice jazz – a contenere la propria fisicità che vorebbe sottolineare ancor più marcatamente la propria totale adesione alla musica e alle parole che sta cantando. Perché è un gioco, è la prossemica, è la cinesica dei grandi cantanti: questo quasi-far-finta di contenersi fisicamente per trasmettere ancor più emozione al pubblico. E continuare ad essere, a qualsiasi veneranda età, così belli emozionati, in piedi su un palco, con tutta quella gente che ti applaude e così tanta bella musica alle spalle…

  4. Ne approfitto per dare il benvenuto su NI a Vincenzo, contando di poter pubblicare presto altri scritti suoi.

    Tutto è nato da Sergio Pasquandrea, che ha avuto l’idea di parlarmi di lui quando gli ho scritto per chiedergli il contatto di un altro scrittore-jazzofilo che pubblicherò presto. Insomma, un bel circolo virtuoso tra sconosciuti accomunati da una stessa passione. E quando NI serve a questo tipo di contatti, e a far scoprire cose nuove a chi forse non vi avrebbe avuto accesso altrimenti, io sono davvero contento. Ecco, l’ho detto.

  5. Ecco cosa cerco nelle letture:
    quella trasversalità che attraversa con naturalezza le certezze, ed è inutile resistergli, quel saper costruire le sensazioni partendo dalle fondamenta della struttura, per arrivare solo all’ultimo ad occuparsi della facciata, quell’ubiquità che ti permette di condividere il paesaggio emozionale, per poi riportarti nell’isola deserta dei tuoi pensieri.

    Quando questo accade poi sotto forma di “recensione”, dove spesso ci si ferma alle note di copertina, all’incasellamento della ricerca personale negli stili di omologazione ed alle poche info di wikipedia, allora, assistiamo ad un miracolo.

    Per questo dico che V è mio fratello, perché cerca di dare forma a quegli aspetti che sfuggono alla maggior parte di noi, e lo fa partendo dal proprio universo interno, straripando dal privato per sfociare nell’universale.
    E sì. perché quelle emozioni sono le sue, magari sono anche quelle dell’artista, ma molto spesso sono le mie, le tue che leggi, quelle di un altro a mille chilometri da qui e nascono sotto i nostri occhi, si palesano all’improvviso, e assumono un aspetto preciso e magico nel momento esatto in cui, anche noi stessi, riusciamo appena a percepirne il colore.

    Un amico disegnatore che è appena tornato da un recente viaggio in Mali, dove ha vissuto per un mese alla maison de la kora, la casa della seconda moglie di Toumani Diabate a Ntomikorobougou, mi ha raccontato che quando ha iniziato a ritrarre con le matite ed il “pennello magico” le persone del villaggio, tutto il cortile si fermava a guardarlo e che, non a caso, nel mese in cui ha vissuto con loro, gli è stato assegnato il nome di marabut, colui che legge il futuro, l’uomo che cura con gli oggetti, the magician, insomma.
    Ecco, è con gli stessi occhi che leggo le parole di Vincenzo, perché lui guarda oltre, perché sa come accarezzare la mia anima, perché ogni volta trovo qualcosa di magico, naturale ed irripetibile.

    Peccato solo che da un po’ non leggo le sue impressioni su questo piccolo mondo,
    (che belle V quelle notes dove con semplicità ed intelligenza descrivevi gli accadimenti di questa “zozza società” parlandoci di governi, finanziaria, tagli al fondo dello spettacolo o, con stupore dalle pagine di un giornale musicale, del comandante Marcos)
    ma oramai il fango si è fatto così limaccioso che anche un marabut come V, fa fatica a vedere lontano.

    Grazie di aver ancora disegnato per noi, caro V, con quelle linee che congiungono i sentimenti, che dividono le convinzioni, che illuminano il domani.
    E grazie ad Andrea e Sergio, che non conosco personalmente ma sento molto più vicini di tanti altri che frequento, per avergli lasciato aperta la porta.

    A presto.

  6. Sono entrato in un tunnel perverso: non faccio altro che ascoltare Joni Mitchell al posto di lavorare!!! :-(

  7. mi dispiace, gianni. anzi, no! io ho letto tre volte il tuo intervento e ancora rido, invece di lavorare…

  8. Felice di aver contribuito.
    Ora sono in giro per lavoro e sono di fretta, ma domani sera appena torno a casa mi rileggo il pezzo con calma.
    Intanto benvenuto a Vincenzo anche da parte mia.

  9. lettura davvero gradita. quando lo stile diventa jazz e il jazz poesia. e quando la parola aduna una comunità felice d’essere qui, fra i mortali.

  10. struggentissimo “oggetto canzone non identificato”. se ne consiglia l’ascolto tra un commento e l’altro del post “la stanza separata”
    ah, l’illusione della vita!

  11. Ho trovato molto interessante il disco “Shine”… anche se uno dei miei preferiti rimane, in questo periodo, “Shadows and Light”…

    Un gradevole articolo di vera “critica” musicale. Centra in pieno la difficile descrizione di armosfere, volontà, talento, intenzioni.

    Complimenti

    Ivan

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