Dell’ora, del qui – su “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca
di Marco Rovelli
La strada che conduce alla rivolta è la parola del testimone: il guaglione apprende a vivere da don Gaetano il portiere, che gli racconta storie, e la Storia. A far da sfondo prospettico alla vicenda del guaglione, a far da coro, i racconti della guerra, e in particolare della rivolta di Napoli, l’insurrezione/resurrezione del popolo napoletano contro i tedeschi, la rivolta che libera la città e dà nuova forma al popolo. In una rivolta il popolo smette di essere”soldatino di piombo“ e passa la linea della maggiore età, prendendo in mano il suo destino – così come fa il guaglione accettando la sua personale rivolta. Sono dunque le “consegne di una storia“ che don Gaetano passa al guaglione, la sua “eredità”, affinché il figlio di Nessuno possa riconoscere la sua origine, la sua appartenenza, e si riconosca figlio di un popolo, di una città che si leva e consacra il suo sangue. Così come il proprio sangue, nella lotta al coltello, consacra lui stesso. La rivolta, l’amore.
Intorno al guaglione, a don Gaetano e ad Anna – una serie di altre figure e di “quadri“ memorabili. Ne citerò due. Il Vesuvio a cui il guaglione – sempre accompagnato dalla sua guida, don Gaetano – ascende, e in vetta al quale conosce il desiderio fisico, il sesso che gonfia, la cenere fecondata, ravvolto in una sorta di nube della non-conoscenza – una pagina che richiama alla mente, in maniera del tutto incongrua, l’erotico Gesuvio di Georges Bataille. E poi quella pagina, struggente, dedicata ad Aniello, una creatura indifesa, che muore sotto le violenze del padre: “Una volta – scrive il guaglione di quel padre – gli tirai contro una pietra. Nemmeno se ne accorse. Non valevamo niente. Se la tirava un altro con più mira e più forza, se tiravamo in molti, Aniello si poteva salvare“. E anche questo, come tutto il resto, parla di noi. Dell’ora, del qui.
(pubblicato su l’Unità, 8/2/2009)
Assomiglia a MONTEDIDIO. Ancora una volta c’è un ragazzo, sta crescendo, è in quella terra di mezzo dell’adolescenza con uno sguardo di nostalgia alla vicina infanzia appena trascorsa e una fame di futuro incerto lì, che sta per cominciare. Ancora una volta sarà l’Amore a permettere questo passaggio, un amore che si nutre di carne e sangue. C’è il buono, c’è il guappo, c’è la ragazza da salvare, c’è chi aiuterà il buono a scappare.
Ma per fortuna c’è la prosa di Erri De Luca, che si può permettere anche di essere un po’ sempre uguale a sé stesso, continuando a essere veramente bravo.
Per fortuna lui scrive asciutto, breve, con una interessante necessità nelle parole anche se di necessità di raccontare una storia vecchia non ce ne è.
Anche se poi le storie sono tutte vecchie, sono tutte già successe una volta, prima, nel passato.
Eppure la sua gente è una bella gente, i suoi personaggi sono bei personaggi, sono veri e verosimili, sono un po’ matti e un po’ malati, hanno poteri magici o solo molta fantasia.
Trovo la scrittura di Erri De Luca estremamente “terapeutica”, in un momento di eccesso di parole, in un momento in cui ai vertici delle classifiche dei libri più venduti troviamo libri di troppe pagine, spesso inutili. Mi quieta la sua scrittura, nel suo essere così scarna ogni parola invece diventa necessaria, non viene voglia di tirare via, viene voglia di tornare indietro e rileggere meglio, ancora più adagio, magari ad alta voce, per sentire in bocca e nelle orecchie il buon sapore e la bella musica di poche parole scelte, come le predilette.
C’è la guerra, la seconda Guerra Mondiale, a Napoli, quando stava per finire, quando il popolo ha avuto un guizzo di ribellione che ha vinto la paura di morire. Anche questo l’autore lo aveva già raccontato in MORSO DI LUNA NUOVA. Ma non importa, si può ripetere, magari si deve ripetere, per capire meglio, per provare a ricordare e magari servisse a non dimenticare
Sono d’accordo, è così. Anche a me è balzato agli occhi il parallelismo con Montedidio. E qui c’è una sorta di “ripresentazione” (con tutto quel che significa questa parola sacra) di quel tracciato.
E sì, in tempi di eccessi di parole, questa scrittura gestaltica (perché la parola, in Erri, fa sempre leva sul silenzio, dal silenzio aggetta) è necessaria.
Ho un po’ trascurato, negli ultimi anni, i libri di Erri de Luca. Questa è una buona occasione per rimediare. Anche se, da quanto arguisco, dev’essere una storia eccezionale, del tutto singolare. Credo cioè che, e purtroppo, oggi i guaglioni abbiano altri “maestri” che li guidano…
PS.: ci sarai, sabato, marco?
Esatto, sangue e sperma.
E’ quello che ho sempre pensato della scrittura di De Luca.
Ma il silenzio?
Vero, mac, ed è forse anche per questo che una storia così dev’essere raccontata, oggi. (Aggiungo, poi, che uno che insegna a scuola deve cercare – proporzionalmente alla propria consapevolezza – e ambire di essere anche maestro. Fregandosene, peraltro, di ciò che i manuali di pedagogia contemporanea dicono).
Sabato, dove?
@ Alcor
Credo che di silenzio, e silenzi, la scrittura di De Luca sia piena. I personaggi dei suoi libri sono di poche parole – e quando sono, sono parole piene, decise e decisive. Per essere tali, le parole, devono prendere forma sul silenzio che le precede e le forma. (Ricordo il memorabile incipit di Aceto, arcobaleno: “Dev’essere stato il fulmine a svegliarmi” – la scrittura, e il racconto di quell’uomo di poche parole, che prende forma su un buio che lo precede, su un silenzio che viene rotto, e che fa da traccia e senso a tutta la narrazione). E la lingua, poi, di De Luca, è anch’essa (per come la sento io, per come mi – letteralmente – suona) intramata di silenzio. Asciutta (a cominciare anche dall’uso parco degli articoli), secca – quasi a scolpire ogni singola parola. Mi ha sempre dato l’idea, come accennavo sopra, di un’iscrizione che aggetta dal vuoto.
Scusa marco, ma in Aceto,arcobaleno la voce narrante parla per tutte le cento e più pagine, e anche in Non ora, non qui e anche in Tre cavalli e non risparmia certo in retorica, dov’è il silenzio, a meno che tu non pensi che corrisponda a un periodare breve?
Né vedo l’asciuttezza, solo un esempio preso aprendo un libro a caso: “Guardo i capelli, riconosco il colpo di polso che li aggiusta a onde, penso che il legno della tua spazzola è come il vento dell’Atlantico che scava onde lunghe.
E anche se usasse pochi articoli, abbonda in aggettivi: “Dvora, leggera dentro scarponi di vecchio cuoio abbronzato, mano arrossata dal cavo della via ferrata, ciglia sbiancate dal sale del sudore e sorriso puntato sui miei capelli scossi da un loro vento segreto anche dentro una stanza”
Cosa sia questo vento segreto dei capelli non so, ma certo che sia una lingua asciutta e intramata di silenzio non mi pare tanto sostenibile, forse se asciugasse le metafore si asciugherebbe un po’ tutto, ma cosa resterebbe? e ti piacerebbe ancora?
Credo che piaccia molto proprio la sua retorica un po’ dannunziana (linguisticamente parlando).
finito ieri sera….come sempre erri de luca mi convince di qualsiasi cosa, raggiunge una pienezza con così poche parole. M’incanta.
C’è qualcosa che ricorda montedidio…ma la sostanza della storia è diversa. In ogni caso pare di ascoltare buona musica leggendolo.
“la città sotto ha il vuoto, quello è il suo appoggio. Alla nostra massa di sopra corrisponde altrettanta ombra. E’ quella a reggere il corpo della città” pag.13
Cara Alcor, provo a risponderti e formulare (e formularmi). Penso che il silenzio di questa scrittura stia nel suo continuo far segno a un altrove (quello che ti fa chiedere, ad esempo, “che cos’è questo vento segreto dei capelli”) che però è sempre un altrove “qui ed ora” (in questo senso il titolo del suo primo romanzo, Non ora non qui, può anche essere letto come un’antifrasi – se uso bene il significato della figura retorica, e non sono sicuro). Le metafore che usa, infatti (prendiamo proprio le frasi scelte da te), sono sempre estremamente materiche, realissime. Sono sempre gli elementi naturali i referenti, realissimi – e pure, in quella matericità, si coglie uno scarto, uno spostamento/scostamento, che la fa essere fuori di sé, a designare altro, appunto. A designare quel silenzio in cui esse “prendono corpo”. Mi pare una lingua “intramata di silenzio”, dunque, in questo senso: che fa segno sempre a “cose” che però non si esauriscono mai in se stesse, cose che vengono “evocate” in senso etimologico: e-vocate, chiamate fuori come da una fila di plotone, trascelte, chiamate a fare un passo oltre se stesse.
Del resto, poi, la citazione di Gianni è una buona figura di tutto questo: il vuoto sotto che regge il corpo della città.
Non insisto:-)
Bellissima recensione. Segnalo ai non napoletani che la figura di don Raimondo è un omaggio di De Luca allo straordinario libraio ed editore Raimondo Di Maio. Lo sospettavo e ne ho avuto la conferma in un recente articolo dello stesso Di Maio. Chi è interessato veda qui il mio blog: http://dispersioni.splinder.com
Recensione impeccabile. Concordo pienamente con la definizione di romanzo di formazione. Se il silenzio si “accumoglia” di significato, la lingua scarna non manca l’obiettivo di lasciar segni indelebili. La passione del filologo sprizza da ogni passaggio e contagia. Non conosce limiti, dalle lapidarie aggettivazioni dei casi del latino (p.69) ai virtuosismi “di mestiere” (nel senso nobile che parte da Scarpetta) con il napoletano improbabile dell’irresistibile La Capa. A chi sceglierà l’avventura di leggere “Il giorno prima della felicità” sarà riservata anche la gradita sorpresa di scoprire quale sia la professione dell'”impostore” e dove, nella città eterna, si possa visitare la “cotognata”.