E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare

di Antonio Sparzani
leopardi_linfinito

La traditio lampadis, cara agli scrittori dell’antichità, suggeri- sce che la fiaccola della poesia passi da un poeta all’altro in occasione di qualche avve- nimento importante nella vita di entrambi. Una tradizione, peraltro ben lungi dall’esser sicura, vuole che la morte di Tito Lucrezio Caro, il 15 ottobre del 55 a. C., sia coincisa con l’assunzione della toga virile da parte di Virgilio. L’ispirazione dell’uno, vuole la traditio, parola qui quanto mai ricca di significato, passò all’altro. Lucrezio, illustre poeta, celebrato in tutta la latinità, scrisse un lungo poema intitolato De rerum natura, la natura delle cose, e fu così, oltre che poeta, anche scienziato – allievo in questo di Epicuro – e studioso della natura di insospettato interesse. Quella che voglio farvi leggere è la fine del libro III di questa sua opera, nella quale si medita sulla morte e sull’inutilità di prolungare a tutti i costi la vita; forse un accenno ante litteram all’indesiderabilità dell’accanimento terapeutico, nel quale però si espone una peculiare argomentazione. Sarà bene riportare gli ultimi versi del libro, nella traduzione di Luca Canali, che sta nell’ottima edizione (Rizzoli 1990) a cura di Gian Biagio Conte, Luca Canali e Ivano Dionigi. Ecco qua: (qui, per chi volesse, il testo latino dell’intera opera,

1076 Infine quale sciagurata cupidigia della vita
ci spinge con tanta forza a trepidare negli incerti pericoli?
Eppure v’è una fine certa dell’esistenza che attende i mortali,
né possiamo evitare la morte, sfuggire al suo agguato.
1080 Inoltre vagoliamo prigionieri sempre dei medesimi luoghi
e vivendo non è possibile plasmare alcun nuovo piacere.
Ma mentre ciò che desideriamo è lontano, ci sembra superiore ogni cosa;
poi quando l’oggetto della brama ci è dato, aneliamo ad altro,
e un’eguale sete della vita perennemente ci affanna.
1085 È dubbio che cosa ci porti il tempo futuro,
cosa ci rechi il caso, quale esito incalzi.
E certo protraendo la vita non sottraiamo un istante
al tempo della morte, non riusciamo neanche a scalfirlo,
per far sì che possiamo meno a lungo essere morti.
1090 Ti è lecito dunque seppellire vivendo quante generazioni vuoi;
tuttavia ti aspetterà non meno quell’eterna morte,
né meno a lungo non sarà esistente colui che termina
oggi il corso della vita, di colui che da molti
mesi e da molti anni è già prima scomparso.

Come sempre cito più versi del necessario, un po’ perché penso che leggere i classici faccia bene alla salute, e un po’ perché penso che citando solo lo stretto necessario, non si capisca dove siamo.
I versi che ci interessano di più sono gli ultimissimi: “né meno a lungo non sarà esistente…” [nec minus ille diu iam non erit]; come “né meno a lungo”? Chiederebbe chiunque: se io vivo più di te, allora tu sarai esistente meno a lungo di me, cioè sarai morto per più tempo. Mettiamola nel linguaggio degli insiemi: l’insieme di tempo in cui tu sarai morto sarà più ampio dell’insieme di tempo durante il quale sarò morto io, perché io sono morto dopo.
Il ragionamento che sembra sostenere questa obiezione è quello che dice: l’insieme del tempo nel quale tu sei morto contiene come suo sottoinsieme (indipendentemente da quando “il tempo finirà”) l’insieme del tempo nel quale sono morto io, quindi “è più grande”. E allora, Lucrezio, da dove attingeva? Questo di preciso non lo sa nessuno, anche perché di Epicuro poco ci è rimasto.

Ma noi siamo arrivati al punto.

Per capire un po’ di più, facciamo un esempio meno lugubre, ma più asettico: lasciatemi chiamare N l’insieme dei numeri naturali (1, 2, 3, …) e P l’insieme dei naturali pari (2, 4, 6, …). È evidente che N contiene P e anzi ha in più tutti i dispari, dunque “è più grande”. Però.

Però, dovete provare a concedermi questo: se ho due insiemi A e B e riesco a istituire quella che si chiama una “corrispondenza biunivoca” tra A e B, cioè una regola che fa corrispondere ad ogni elemento di A uno e un solo elemento di B, in modo che ogni elemento di B sia corrispondente di un elemento di A, allora sembra sensato dire che i due insiemi contengono lo stesso numero di elementi. Prendete la vostra mano sinistra e la vostra mano destra: potete facilmente costruire diverse corrispondenze biunivoche tra l’insieme delle dita della destra e l’analogo per la sinistra, per esempio quella che viene in mente subito, che fa corrispondere pollice a pollice, indice a indice, ecc. Questa è una corrispondenza biunivoca: ad ogni dito della destra corrisponde esattamente un dito della sinistra e viceversa; avreste anche potuto definire altre corrispondenze, ad esempio (rovesciando una delle due mani) pollice – mignolo, indice – anulare, ecc. L’importante sembra essere questo, che se c’è una corrispondenza biunivoca tra due insiemi allora essi “contengono lo stesso numero di elementi”.
Adesso torniamo a N e a P.
Io vi metto giù subito una corrispondenza biunivoca tra i due; state a sentire: ad ogni naturale n appartenente a N faccio corrispondere il naturale 2n, cioè n moltiplicato per due, che, essendo evidentemente pari, appartiene a P. Questa corrispondenza è assolutamente biunivoca: se n ≠ m, allora 2n ≠ 2m. E viceversa, ad ogni numero pari, che è certamente della forma 2n, essendo pari e quindi divisibile per due, faccio corrispondere il naturale n. Esiste una corrispondenza biunivoca (la moltiplicazione per due, se vista a partire da N, o la divisione per due, se vista da P) tra due insiemi di cui avevamo detto che l’uno era contenuto (sembrava anzi “la metà”) dell’altro.

Qui cominciano gli spaventi dell’infinito.

Vedete, il problema è che a questo punto, dire ‘affidiamoci all’intuizione’, al ‘buon senso’, non è più sufficiente; perché sembra intuitivo dire che se un insieme ne contiene un altro, allora certamente ha più elementi di quello, e sembra altrettanto intuitivo dire che se tra due insiemi c’è una corrispondenza biunivoca, allora i due insiemi contengono lo stesso numero di elementi. Quale scegliere? La matematica ha scelto la seconda, sopportando stoicamente la controintuitività che ne consegue in molti casi.

È ben chiaro che se si tratta di due insiemi che contengono un numero finito di elementi (cosa vuol dire “finito”? Proviamo a dir così: se vi mettete a contarli, a un certo punto finite, almeno in linea di principio, certo, se il numero di elementi è miliardi di miliardi…. ma questa passatemela così), tra essi ci può essere una corrispondenza biunivoca soltanto se davvero hanno lo stesso numero (finito) di elementi, e non può assolutamente darsi che uno dei due contenga l’altro più un altro pezzo. Per gli insiemi finiti, diciamocelo, non c’è problema.

Allora ecco qua: questa caratteristica, che alcuni insiemi possono possedere, di essere mettibili in corrispondenza biunivoca con un loro sottoinsieme, è quella che definisce gli insiemi detti infiniti. I naturali sono infiniti, i pari sono infiniti, e così i dispari, tutti i multipli di 47, o di qualsiasi altro intero. Per non parlare di tutti gli insiemi di numeri di cui avrete sentito parlare, i razionali, i reali, i complessi, e via enumerando.

E Lucrezio? Per capire bene, beninteso alla luce del pensiero matematico moderno, la giustezza dell’argomentazione di Lucrezio, credo dovrete aspettare la prossima tappa.

La parola infinito non deve spaventare nessuno e spaventa quando è usata in modo vago. Occorre capire bene che significato le vogliamo dare e in quali contesti. Esempio: qualche riga sopra ho scritto più volte “un numero finito”: a rigore aggettivo del tutto inutile, ridondante, non esiste alcunché, per quel che ne sappiamo finora che sia un “numero infinito”, questa locuzione non significa assolutamente nulla, tutti i numeri che conoscete sono “finiti”; del resto, sono i “naturali”!

Tutte le volte che si fa un’affermazione, salta fuori che, se va bene, è vera in quel particolare contesto, ma che, se cambiate contesto, o ampliate le conoscenze, essa è falsa. E così è per le ultime righe. Perché sul finire dell’Ottocento il matematico pietroburghese Georg Cantor, si inventò i “numeri infiniti”, che veramente chiamò transfiniti. Ma questa, naturalmente, è una storia per domani.

Avete notato l’unica correzione, di mano di Leopardi, al manoscritto del suo ultracelebre L’infinito?

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24 Commenti

  1. Se A e B nascono nello stesso giorno e A muore 20 anni prima di B, la non esistenza di A è di 20 anni più infinito di quella di B, che è semplicemente infinita. Ma poichè ogni numero addizionato a infinito dà come risultato infinito, A e B hanno davanti a sè la stessa quantità di non esistenza. Posto naturalmente che dopo la morte ci sia il nulla eterno (cioè di durata infinita).
    Ascoltavo una volta Carmelo Bene argomentare sul dopo morte: “Il nulla! il nulla eterno e la non coscienza del Sè, questo mi atterisce”. Si portò le mani al viso e pianse.
    Ci penso ogni giorno, al nulla eterno: è un’ingiustizia infinita.

  2. Nulla eterno da una parte, giustizia infinita dall’altra. Tranquillizzati. E’ una coppia di termini che non significa. Il linguaggio inganna, non c’è molta verità nel linguaggio

  3. bellissimissimo sparzani.
    @carlo: forse carmelo per dopo morte intendeva dire gli zombie, gli italiani. :)

  4. La tristezza è il peggior peccato, secondo Spinoza che di geometrie se ne intendeva: mai atterrire, iustum in perpetuum vivet…grazie sparz, tra stoici e infiniti attendo notizie topologiche su Cusano..un abbraccio, Viola

  5. A me pare che questa “corrispondenza biunivoca” tra insieme [infinito] dei numeri naturali e i sottoinsiemi dei naturali pari e dei naturali dispari – che risulterebbero, a loro volta, infiniti – abbia lo stesso fascino del gioco delle tre carte.
    Nel caso del gioco delle tre carte questo fascino riguarda i gonzi che si lasciano abbindolare.
    Nel caso dei numeri naturali riguarda i platonici naturali.
    Un matematico presenta l’impossibile: che esiste una metà, pari, e un’altra metà, dispari, e voilà: corrispondenza biunivoca: sono uguali all’intero dei numeri naturali che li contiene tutti e due.
    Non è vero.
    Se pure esistesse l’insieme dei numeri naturali, non esisterebbe l’insieme dei numeri naturali pari né quello dei naturali dispari.
    Bisognerebbe costruirli.
    Come appunto fa sparz per costruire l’insieme dei numeri naturali pari: basta moltiplicare i numeri naturali per 2. Ed è chiaro che se i numeri naturali pari son quelli costruiti moltiplicando per 2 tutti i numeri naturali i numeri pari saranno quanto i naturali, e infiniti se quelli sono infiniti.
    Per i numeri naturali dispari vale lo stesso ragionamento, ogni numero naturale va sommato a quello che lo precede [N=n+(n-1)].

    Io posso benissimo dire bischerate e sparz rifiutarsi di rispondere, ma quello che mi interessa mettere in evidenza è che necessita un’operazione di laicizzazione anche all’interno di discipline difficilmente accostabili da parte di profani. I quali spesso subiscono fascini, dall’esterno, che all’interno, se ben analizzati, non meritano più considerazione dell’offerta di un magliaro.

  6. continuo a non capire perché il Cossu se la prenda tanto fino all’insulto. Se non capisce, se ne faccia una ragione, provi ancora, legga un manuale, o semplicemente eviti di leggere i miei post, mica gliel’ha ordinato il dottore di leggerli e commentarli.
    Comunque.
    Io non ho mai preteso di attribuire fascino a queste faccende, ho solo fatto toccare con mano una cosa poco intuitiva, e cioè che l’insieme dei numeri naturali e quello dei naturali pari (che sembrerebbe intuitivamente essere “la metà” del precedente) sono in corrispondenza biunivoca l’uno con l’altro. Ho anche detto che la matematica, per ragioni storiche che sarebbe lungo spiegare, ha scelto di considerare questo criterio della corrispondenza biunivoca come criterio di, diciamo la parola tecnica, equipotenza di due insiemi. Ho anche detto che questo è quello che caratterizza gli insiemi con infiniti elementi. Di quale “laicizzazione” parliamo?

  7. scusate, a parte che sparz è chiaro perfino per me che sono un letterato scientifico o uno scienziato letterato e che ormai ragiono eteroreferenzialmente con i miei elettronimi cioè i miei io dissociati e con i quali piacerebbe stabilire un rapporto biunivoco (in effetti questo post mi ha regalato un’intuizione che devo sviluppare alla luce sparziana): il rapporto tra l’io e l’insieme di io… come dire un insieme di ordine due in cui corpo è uno e mente è tanti io immaginari… sparz sto sragionando ma il tuo post e l’altro tuo post mi fa pensare a cose matta-blanchiane….

    però c’è una cosa che mi destabilizza: soldato blu è cossu? oppure ho capito male io?
    se è così sarebbe contro il regolamento di NI e plessus potrebbe essere qualcuno che dovrei conoscere di persona per offrire da bere…
    non è così. vero?

    comunque, a parte la semivenerazione per i post di sparz che trasuda da questo commento, secondo me non è che i profani devono per sempre restare tali. come diceva mio padre dopo aver oltraggiato la mia pericolante sensibilità psicotico donnicciolata: ma io sono ignorante, devi capirmi…. tie leggi muti libbri si sfigatu…. eccetera eccetera cioè il problema dei profani è che poi bimodale non può pubblicare perché non lo capisce nessuno e invece pubblica chi è ben compreso dagli ignoranti. infine penso al poeta di baudelaire che come l’albatros in cielo è un re e in terra è tutto goffo.
    insomma soldato blu è cossu?
    comunqe sparz, posso ‘copiarti’ per riprendere il mio esperimento mentale?
    :) :| :(
    p.s.
    pigliate con le dovute cautele le cose che ho scritto. sono in fase dissociativa e pseudodowndepressiva e cerco di seguire i consigli dello strizzacervelli che dice di non cedere alle crisi pantoclastiche narcisiste e di reagire strologando effimere tracimazioni di egobarocchismi pubblici.
    ma quindi cossu è un militare blu? no….

  8. grazie gianluca, in effetti le tue “effimere tracimazioni di egobarocchismi” sono perfino simpatiche. Risposta a quanto chiedi, sì, soldato blu è giovanni cossu, ognuno può qui scegliersi il nick che crede, certo questo qui io mai l’avrei scelto per una, del tutto soggettiva, avversione ai soldati, specie se blu, poi.
    Sulla corrispondenza biunivoca tra te e i tuoi molteplici io immaginari, non saprei…. forse avrei dubbi :-)

  9. regolamento di ennei?
    enne volte i = enne volte imago imagi imagina imaginate imaginario imagina rio et cetera et cetera…
    e allora nemmanco tu sei gianluca g. sibbene gianlucagarrapa, e me non son teqnofobico, ma altro, o altri poco importa… facciamo a gara nella dissociazione?…
    quello che prima volevo dire e forse non è stato chiaro, né chiaroscuro, ma sicuramente oscuro, è che quella tra ‘immensità’ e ‘infinità’ non è stata l’unica correzione dell’autografo come ben si vede qui
    http://www.bnnonline.it/biblvir/inf1rlr.htm
    e con ciò sia cosa che ‘barocco è il mondo’ come ben sa il mio omoniminiziale g.c.
    e per assemplo di barocaggine un regalo a viola per la ‘ignoranza’ poco ‘dotta’ che pur tutta via Le è piaciuta

    “[…] forse, non questo ma
    quello, forse questo forse quello, ecco qualcosa, non niente,
    non ancora niente, non tutto, certo non tutto, certo davvero
    non tutto, ma nemmeno niente, non più niente, ma nemmeno tutto,
    giusto qualcosa, giusto qualcosa d’ingiusto, giusto qualcosa di
    ingiusto anzi ché non niente, certo qualcosa, certo qualcosa di
    incerto anzi ché non niente, tanto quanto poco, un poco di più,
    poco più di niente, per dire qualcosa anzi ché non niente, per
    dare qualcosa anzi ché non niente, per fare qualcosa anzi ché
    non niente, ché un poco di meno, ché un poco meno di niente,
    sarebbe non dire né dare né fare qualcosa, fallire senza falli-
    mento, e il prodotto non essere summa, e il rapporto differenza,
    e l’uno il contrario dell’altero, la summa differenza d’identità
    e il prodotto rapporto di dotta ignoranza, fino in fine essendo
    la meta l’origine, a ché abbia corpo l’habeas corpus de mon
    cerebre mis a nu, guscio vuoto di gheriglio, guscio pieno di
    labile labirinto cui si è stati condannati, che non ha processo,
    che non ha processo cognitivo se non per saltabellare nel buio
    della luce, e nel buio del buio, che non ha luogo a procedere
    se non nel tempo, nel tempo degenerato per seguitare a esser
    perseguitati, per seguire e esser perseguiti, per aver luogo
    a procedere solo e soltanto nel fuoco che arde, per quella
    lettera, e per questa, al centro del fare, per una lettera
    muta, muta, muta”

    e taccio per adesso la topologia…

  10. una correzione alla riga nove del commento di cui sopra

    al posto di sicuramente: chiaramente

    così che la frase diviene questa:

    quello che prima volevo dire e forse non è stato chiaro, né chiaroscuro, ma chiaramente oscuro, è che quella tra ‘immensità’ e ‘infinità’ non è stata l’unica correzione dell’autografo come ben si vede qui

  11. Per iniziare: io non ho offeso nessuno.

    Ho semplicemente tentato di mettere in evidenza che le “tecniche”, presentate nei manuali delle discipline scientifiche che vengono considerate “difficili” perché, dicono, superiori alla capacità intellettiva dell’uomo medio, si riducono quasi sempre a operazioni banali quali trovare la rima fiore/amore.

    La mia offesa, magliari, era per i matematici – tipo un amico al quale chiesi spiegazioni sul neutrino – che ti rispondono che non potresti capire perché non sai la matematica. Nascondendo dietro quest’atteggiamento la loro piena ignoranza, perché, se si è capita una cosa, si è in grado di spiegarla con qualsiasi linguaggio si possieda.

    E questo non è certo il caso di Sparz che, a suo rischio e pericolo, tenta di fare proprio il contrario: spiegare nel linguaggio comune concetti della fisica o della matematica.
    A me piacciono i pezzi di Sparz. Anche se non ci vado matto.

    Laicità.

    “[…] poiché io rifiuto di trattare questi saggi come versioni minori, derivate e semplificate di scritti tecnici o eruditi destinati a un pubblico specialista, e insisto invece nel volerli considerare non diversi per profondità concettuale (sebbene distinti nel linguaggio) da altri generi di di ricerca originale, non ho esitato a presentare in questa forma autentiche scoperte, o almeno interpretazioni distintive, che convenzionalmente avrebbero dovuto fare la loro prima comparsa in una rivista tecnica destinata agli specialisti. Confesso che spesso mi sono sentito frustrato dall’avversione, e a volte dal netto rifiuto, di alcuni studiosi dalle vedute (secondo me) eccessivamente ristrette, i quali non vogliono citare i miei saggi perché il loro contenuto non ha visto la luce in una pubblicazione tradizionale soggetta a *peer-review* e destinata a studiosi con le credenziali in regola (mentre sono ben felici di citare il miei articoli tecnici).”

    STEPHEN JAY GOULD, I Have Landed, Codice Edizioni 2009, Introduzione.

    Insomma quelli che volevo, intenzionalmente, offendere sono tutti gli scienziati “dalle vedute eccessivamente ristrette” che vogliono essere parte di una “corporazione”, che, in modo evidente, è cosa diversa da una “comunità” di sapienti, alla quale viene naturale portare rispetto.

    Soldato blu.

    Sparz dimentica la sua responsabilità nella scelta di questo nome. Non ricorda che il mio nick name era Godog, dio cane, e che lo cambia quando il presidente del comitato di redazione di N.I., Sparz, contro lo stesso statuto di N.I., avendo Godog affermato di sentirsi un indiano, disse che Godog non poteva esserlo perché “gli indiani sono i redattori di Nazione Indiana”.
    Lasciai Godog e scelsi Soldato blu in questo contesto – come piace a Sparz – il quale bene farebbe a non disprezzarlo, questo nome, almeno per quello che ha rappresentato nel contesto cinematografico e nell’opposizione alla guerra del Vietnam

    @ Sparz.

    Giovanni Cossu lo dico io.

  12. Caro Sparz quando vidi per la prima volta questa film era il 1971 o l’inizio del 1972, al Cinema Statuto a Torino.
    Quando si presentò il soldato che impugnava una gamba umana, io mi alzai e, solo, inziai a gridare W IL VIETMAN!
    Dopo un minuto lo spettacolo si era trasformato in una manifestazione politica che si congiungeva alla tradizione delle lotte operaie rappresentata da quella piazza.

  13. canta Fabrizio:
    … fu un generale di vent’anni
    occhi turchini e giacca uguale
    fu un generale di vent’anni
    figlio d’un temporale…

    turchino = blu.

  14. soldato cossu:
    perché dio cane e offendere i cattolici? insomma solo perché si è nel retrogottega di NI non significa che si può trasgredire le regole di buona vivenza. io, per esempio, non commentare simultaneamente con due nickname. e questo la dice lunga sul perché non voterò mai. né la destra né la sinistra che quando sale al potere diventa più sinistra e, coincidentia oppositorum, si ribalta in destra. sarà che io sono mancino, ma scopro con piacevole piacevolezza che noi paranoidi parapsicotici e deliranti cifanno e ci sono, indoviniamo spesso le macchinazioni . scherzo…. soldato cossu… anche io nel mio sito fingo di essere tanti.
    :)
    buon ferragosto a tutti.
    p.s.
    ma chi è plessus? è chi penso io? :)

  15. Caro Gianluca,
    mi piace dialogare con te. Fai le domande giuste.
    Quindi ti rispondo, in ordine:

    – non era mia intenzione offendere i cattolici con quel nome [mi piace offendere i cattolici, quelli retrivi, ma allora lo faccio a viso aperto e uso il mio nome vero, quasi sempre].

    E poi, semmai, si dovrebbe offendere dio, se esistesse. Non penso che esistano i delegati all’offesa in nome di, per quanto l’ossessione organizzativa sia caratteristica di quella brutta genìa.

    Inoltre, poiché i cattolici dicono che l’uomo – loro – è creato a immagine di dio, per la proprietà transitiva della somiglianza. dio dovrebbe somigliare all’uomo.
    E questa sì che dovrebbe essere un’offesa per il dio, se esistesse: farlo somigliante alla più brutta bestia del creato. Altro che cane!

    D’altronde la tradizione del dio.cane è una grande e dignitosissima tradizione.
    Senza andare tra i Pit River – gli indiani americani che abitavano Big Sur – le cui storie sono state raccolte dal grande amico di Henry Miller, Jaime de Angulo.
    Basta guardare agli egizi, con Anubi, una sintesi che poi si scinderà in Ade e Hermes.

    Ma sinceramente non avevo questo in testa quando scelsi Godog, che poi sarebbe “dio ‘ane”. Lo feci per motivi narcistici. Volevo segnalare una grande scoperta – non interessandomi affatto se qualcuno l’aveva pensato prima di me.
    Perchè questa era, è, la mia convinzione: che Godot sia un eufemismo, usato da Beckett. Che poco coraggio che hai.
    Così, infatti, quella commedia, aspettando, acquista tutto il suo significato esplicitamente e perde quel troppo di mistero che ne fa pasticceria da gourmet.

    Che altro aspettano, infatti, quelli, se non Godog, il dio.cane?

    Sarà che io sono un mancino represso e quindi non posso che essere d’accordo con te: raramente ho usato due nick name contemporaneamente.
    Se a te è capitato di pensarlo è perché, quando scrivo sulla “Bacheca di Nazione Indiana” io scrivo sempre col mio vero nome perchè si tratta di “rapporti tra privati” e non di una discussione pubblica in cui i postanti – i redattori e gli scrittori – assumono figura pubblica e quindi uno è del tutto autorizzato di fare commenti non firmati.

    Io so chi è plessus, ma non te lo direi mai se lui stesso non desse il permesso di farlo.

  16. Come sempre, le parole ingannano, dovunque. Diceva Parmenide “l’essere è e il non-essere non è”. Io interpreterei (sempre questo verbo, però…) dicendo che allora il nulla non c’è, non esiste; e per definizione di nulla, aggiungerei.
    Altra cosa è il vuoto, naturalmente: ci sono regioni di spazio, dello spazio che conosciamo, nelle quali non vi è alcun oggetto visibile o non visibile? Ciò sembra sempre più improbabile alla fisica, che sembra “vedere” cose che nessuno vede; almeno coi cinque sensi, naturalmente; ma — diceva già Montaigne — e se avessimo un sesto, o un settimo senso, chissà quali altre cose percepiremmo.
    Attenzione alle parole. Dovessimo per esempio spiegare bene cosa vuol dire “esistere”?

  17. Bene ha fatto Sparz a mettere in guardia contro l’uso spregiudicato che si fa di certi termini, specialmente di quelli che sembrano più semplici o immediatamente intuibili.
    Essere, non.essere, spazio, vuoto, nulla. Sono parole contro cui si dovrebbe fare una campagna di messa in guardia, come quando, da bambino, vedevo, ancora esposti nella scuola elementare che frequentavo, dei manifesti con strani oggetti che, dicevano, sarebbero potuti scoppiare tra le mie mani.
    Ma non sono solo gli individui che possono commettere errori di questo tipo. Può capitare anche a una “cultura”.
    Succede perfino che certe civiltà siano nate e cresciute proprio sul fraintendimento.

    L’estratto che segue è da un testo che per me ha avuto un’importanza fondamentale. Anche se sono cosciente che per esprimermi decentemente su questo tema, i testi che avrei dovuto frequentare dovrebbero essere qualche migliaio in più.
    Naturalmente è un estratto e quindi può essere del tutto insufficiente a illustrare la complessità del tema come è svolto nella sua interezza dal suo autore. Ciononostante penso possa darne un’idea e sollecitare quelle considerazioni che rendono così affascinante questa terra di confine tra scienza e letteratura.

    *

    Ma la linea dell’immaginazione matematica e quella della critica filologica sembrano essersi fronteggiati nei secoli con reciproca incomprensione.

    Spero quindi di essere perdonato se mi accosterò a questo testo misterioso [il poema di Parmenide] da un punto di vista affatto nuovo, che Jaeger e Stenzel avrebbero definito dell’ideazione matematica; non intendo certo implicare una negazione del contenuto metafisico, però tale approccio ci potrebbe mostrare la struttura intellettuale sottostante, finora sconosciuta.
    Suggerisco pertanto di trattare ovunque la parola “Essere” come termine indefinito, sostituendola in tutto il testo con “x”. È certo un buon metodo postulare la nostra ignoranza di una parola folgorante, familiare e tuttavia non compresa, trattandola formalmente come incognita e cercando di definirla dal contesto.
    Ora, se teniamo la mente “monda di pregiudizi”, come suggeriva Bacone, e cerchiamo di definire “x” unicamente dal contesto, troveremo che esiste un altro concetto, e solo quello, che può sostituirsi a “x” senza generare assurdità o contraddizioni, e questo concetto è il puro spazio geometrico stesso, per il quale i Greci non possedevano ancora un termine tecnico (è noto che i primi “Elementi” erano essenzialmente bidimensionali). Inoltre, come credo di poter dimostrare, esso è stato costruito mediante ciò che noi chiameremmo logica scientifica, laddove Platone e Aristotele discutono l’Essere usando strumenti logici diversi e tutt’altro che scientifici.

    Emerge dunque, dopo Parmenide il fisico, un altro Parmenide ancor meno noto: il matematico. Perché la cosa ci sembra strana? Perché, suggerisco io, tendiamo a dimenticare che il Maestro di Elea era considerato uno dei massimi matematici e astronomi dei suoi tempi.

    Abbiamo raccolto abbastanza prove per collocare Parmenide entro la cornice dei suoi interessi e dissociarlo dal gruppo dei sofisti che avrebbe occupato la scena due generazioni più tardi.
    La prova migliore è anzi fornita dal suo più potente strumento di analisi, fondato per massima parte non sui cavilli verbali che si trovano in Gorgia e nel “Parmenide” platonico, ma sul fondamentale Principio di Simmetria o Indifferenza, una delle forme del Principio di Ragion Sufficiente. Tale principio afferma che effetti simmetrici o, più genericamente, cause intrinsecamente indistinguibili, non possono, quando siano considerate per se stesse, produrre effetti distinguibili.

    Il Principio di Indifferenza trova però il suo campo massimo di applicazione quando si tratta dello spazio, come ben vide Parmenide allorché lo elesse a strumento fondamentale della sua logica.

    In altre parole, se ci si trova nello spazio geometrico, deve essere impossibile sapere dove si è o in quale direzione si sta guardando.

    Il tutto è implicito nell’assioma di Euclide che afferma la possibilità di sovrapporre due figure qualsiasi, assioma notoriamente antichissimo, poiché da esso dipende l’algebra geometrica.

    Ora, è altresì vero che qualunque cosa soddisfi a queste […] condizioni è necessariamente isomorfica allo spazio euclideo e intrinsecamente indistinguibile da esso. Questo è il motivo fondamentale per cui, quando troviamo che Parmenide ripete e sottolinea che il suo Essere soddisfa le nostre […] condizioni, concludiamo che ciò che egli aveva in realtà in mente era lo spazio del matematico (e del fisico).

    GIORGIO DE SANTILLANA, Prologo a Parmenide, in “Fato antico e fato moderno”, Adelphi 1985, pagg. 103-110.

  18. @Cossu
    almeno sulla grandezza di De Santillana siamo molto d’accordo. Pignolescamente osserverei che è meglio indicare nelle citazioni con dei puntini […] i passi saltati, ma comunque la citazione è ottima. Fato antico e fato moderno è un libro da consigliare a tutti (come del resto il grande Mulino di Amleto, scritto con la bravissima Hertha von Dechend).

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In potenza siamo molte cose: un’energia allo stato puro che tende verso una realizzazione. Ma è l’atto che ci definisce. È l’idea di progetto: chi siamo veramente? Conosciamo il nostro destino, ciò per cui siamo al mondo? Ci interessa?

La follia dei numeri #2

di Antonio Sparzani
Dove siamo arrivati con la follia dei numeri: siamo arrivati a costruire una classe di numeri che sembra li contenga tutti, visto che possiamo scrivere un numero qualsiasi di cifre prima della virgola e una successione qualsiasi di cifre dopo la virgola, anche una qualsiasi successione infinita, cosa vogliamo di più folle ancora?

La follia dei numeri #1

di Antonio Sparzani
In tutta la mia vita adulta i numeri e la scienza che li tratta, la matematica, mi sono stati piuttosto familiari, e spesso necessari, data la mia...

M’è venuto un sospetto. . . .

di Antonio Sparzani
Spero abbiate tutte e tutti notato come e in quali efferati e rivoltanti modi la polizia italiana (comprendo in questo termine carabinieri, polizia, urbana e non, e qualsiasi altro cosiddetto tutore dell’ordine) stia, come dire, alzando la cresta, ovvero il livello della brutale repressione dei “diversi” in qualsiasi modo essi si presentino: i fatti di Verona e poco prima i fatti di Milano, quattro agenti che pestano di brutto una transessuale ecc. ecc.

Le parole della scienza 3: da Tito Livio alla terribile “formula”

di Antonio Sparzani
La prima puntata qui e la seconda qui. Che cosa hanno in comune una Ferrari e il censimento della popolazione nell’antica Roma? Non molto, sembrerebbe, salvo che c’è una stessa parola che è implicata in entrambe. Nell’antica Roma, due millenni prima dell’epoca delle Ferrari, Tito Livio, storico di età augustea, scrisse un’opera immensa, cui si conviene di dare il titolo Ab urbe condita – dalla fondazione della città–per–eccellenza
antonio sparzani
antonio sparzani
Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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