Una distanza (quasi) incolmabile
di Giorgio Ficara
Ho appena riletto il bellissimo La stanza separata di Garboli, che Alfonso Berardinelli pubblica nella sua collana “Prosa e Poesia” di Scheiwiller. Composto di capitoli divaganti, peregrini (per esempio l’empatico Soldati e Maigret accanto a una stizzita stroncatura di Pasolini dantista), questo saggio del 1969 ci restituisce il puro piacere della lettura d’eccezione insieme a un atteggiamento critico addirittura normativo che Garboli, nonostante il suo fluttuante dandismo, non ha mai tradito.
[È vero:] quando Garboli scriveva quelle pagine, i punti di riferimento, per un giovane critico, erano del tutto chiari e inevitabili. La critica, soprattutto nella forma più duttile del saggismo, non avrebbe mai potuto essere “facile” e popolare, o meglio popolare in quanto facile. Saggisti come Pietro Citati e Roberto Calasso, oggi autenticamente e felicemente popolari, allora non esistevano. Esistevano i preziosissimi Trompeo, Pancrazi, Cecchi. Esistevano il saggio sulla Riforma Tridentina di Dionisotti, quello sull’arte dannunziana di Raimondi, o sulla “lingua dell’improvviso” di Folena o sui neoclassici di Praz: stupendi e “difficili”. Un giovane non avrebbe potuto sbagliare: dietro di lui, nel passato remoto, da Foscolo a De Sanctis, la critica era sempre stata un esercizio alto dell’intelligenza (anche De Sanctis, che scriveva la Storia su commissione, per tutti, non era poi squisitamente complesso quando, ad esempio, parlava di romanzo e tradimento del romanzo a proposito del Canzoniere di Petrarca?). Per vecchi e giovani, il genio della critica è stato sempre quello di sondare il mistero della semplicità sublime di un testo (la “luna il ciel” di Leopardi) o altrimenti di vagliarne l’oscurità profonda (l’ “arduo nulla” di Montale).
In nessun caso, la critica ha avuto mai per fine di rendere facile il difficile, né di tradurre l’intraducibile. Ora, proprio questo statuto, questo “patto” tra critici e lettori, cui Garboli nei suoi eccentrici saggi teneva fede assoluta, sopravvive innanzitutto come problema, oggi, nei critici più giovani. La distanza tra Roland Barthes e Proust era minima, dice Antoine Compagnon nel recentissimo La littérature, pour quoi faire?, ma la distanza tra noi e Barthes è immensa. Compagnon, come peraltro già Berardinelli, [il y a longtemps,] in La forma saggio, ribadisce il senso della saggistica nella sua stessa esitazione, nei suoi stessi vuoti, nei suoi stessi achoppements di fronte all’attuale e incessante sottrazione di realtà. Nonostante un suo momentaneo e non pertinente benessere mediatico (i critici “si incoronano” tra loro, insiste spesso Franco Cordelli), oggi la vera critica, in assenza d’un orizzonte letterario condiviso, deve fare i salti mortali.
Lo sa bene Massimo Onofri, che nel suo ultimo, fulminante libello Recensire scrive: “la letteratura occupa uno spazio sempre più marginale e meno prestigioso: così i critici, che preoccupano e interessano sempre meno i potenti di turno, sono forse più liberi, non hanno più niente da perdere”. Altro che “incoronazioni”. La critica è giunta oggi a non avere più niente da perdere: a un grado zero, anzi a un grado sotto zero, cui Onofri per puro spirito d’iniziativa concede l’attributo della leggerezza e della libertà. All’esercizio della critica, che per lui è innanzitutto razionalizzazione del gusto e del temperamento individuale, manca sempre più una casa comune. Il critico che dice la sua su un autore, oggi più che mai deve rispondere di se stesso, deve ribadire e ristabilire i confini della sua stessa disciplina.
Questo atteggiamento, spontaneo e “naturale” in Garboli, è divenuto oggi formalmente necessario. “Qualcosa che continua a esserci anche se è già accaduto”: sulla scia di Garboli, Raffaele Manica si interroga febbrilmente sui fondamenti (della critica) in un libro molto acuto che sembrerebbe invero [dissimularli] nelle pieghe dell’erudizione e della grazia: Qualcosa del passato. I suoi saggi su Zanzotto petrarchista, su Garboli longhiano o sul Montale “innamorato” sono del tutto degni dei maestri (sono “tradizionali”), ma scricchiolano nel vuoto, si sbilanciano e volano a un congruente non-luogo, come tutto ciò che oggi è autenticamente critica.
Che dire, dunque, di saggisti come Citati (La malattia dell’infinito) e Calasso (La folie Baudelaire) che, nel momento stesso della crisi o infermità o addirittura morte presunta della letteratura, riabilitano il paziente più debilitato, delicato e iperletterario? La loro “felicità” di saggisti coincide dopotutto con quella dei loro lettori e potrebbe zittire gli innumerevoli stroncatori, dallo stesso Garboli, qui in un capitolo, su Citati, dal maligno titolo Tutta una trascendenza, ai ricorrenti e en verve Berardinelli, Onofri e a tutti gli altri: Citati sarebbe un critico vero che, a un certo momento, spinto da uno o più demoni o dèi, ha lasciato l’agone o il circolo o il corpo a corpo ermeneutico per una specie di grande e fortunata traduzione dei classici. Calasso, più calcolante, da La rovina di Kasch a quest’ultimo saggio-narrazione, avrebbe inventato e promosso una “difficoltà” accessibile al grande pubblico, nonché una saggistica popolare vestita di panni aristocratici.
Né l’uno né l’altro, certo, con la loro piena pronuncia, con il loro passo tranquillo e il loro occhio “mitico”, non temporale, ricordano che la critica è da un’altra parte, indietro, eternamente alla retroguardia, “zoppicante” – diceva l’abate Bremond – nel mondo storico delle ipotesi che si susseguono e si contraddicono, fondata sulla distanza (quasi) incolmabile di un testo dalle sue interpretazioni.
L’articolo è apparso su Tuttolibri il 10.01.2009