Un mondo a parte
Al cimitero di Orta Nova, in Puglia, c’è’ un piccolo mausoleo di marmo bianco simile a quelli dedicati al Milite Ignoto. Ma il ragazzo che vi è sepolto non è caduto in guerra. E’ morto nei tempi di pace che hanno generato l’Europa unita, è morto perché credeva che potessero circolarvi non solo merci e capitali, ma anche le persone come lui che vogliono scambiare la forza delle loro braccia con qualche soldo. E’ morto, in qualche modo, perché ignorava il legame antico che unisce guerre e lavoro.
Ne serba invece memoria una vedova che andando tutti i giorni al cimitero, una volta capita davanti a un rettangolo di terra segnato solo da una croce di ferro con scritto sopra SCONOSCIUTO. La donna ha fatto la bracciante per tutta la vita, i figli sono immigrati al nord, ma in quel momento deve essersi resa conto di essere privilegiata. Possiede un indirizzo che corrisponde a una casa del suo paese e un nome registrato all’anagrafe. Così Incoronata di Nunno va a scoprire quel che può su quel ragazzo venuto a faticare nei campi come faceva lei, trovato morto sul bordo di una strada, la testa – soltanto quella- cancellata dalle ruote di un camion passato sopra. Una fine sospetta, però in mesi nessuno si è presentato all’obitorio, per cui ogni possibile verità su quella morte va a finire sottoterra.
Ma tanto basta a Incoronata per andare a trovare anche quel morto e poi decidere di commissionargli una tomba a proprie spese. Per l’iscrizione, la sua pietà le suggerisce il sinonimo che dà la giusta dimensione storica a quella fine: IGNOTO m 20-9-2006.
Dopo circa un anno, alcuni connazionali fanno saltare fuori una foto e un nome. Il morto si chiamava Miroslaw, veniva da una cittadina vicino a Lodz, però non sanno più di questo neppure loro. Quindi il ragazzo polacco resta nel involontario monumento ai caduti nei campi di pomodoro offerto da una vecchia pugliese che lo ha adottato in morte .
Si apre così Uomini e Caporali di Alessandro Leogrande (Strade Blu, Mondadori, p.253). Passato e presente, vicende globali e memorie locali si intrecciano come avviene in modo esemplare nell’incontro fra Incoronata e il ragazzo morto. Il libro è qualcosa in più di una semplice indagine su una realtà economica e sociale di vergognosa attualità come la nuova schiavitù globalizzata che prolifera nelle campagne meridionali. Si situa quasi all’estremo opposto dei reportage di Fabrizio Gatti, camuffato da “negro bianco” per poter raccontare dall’interno l’esperienza dei braccianti africani nelle stesse terre. Leogrande invece visita cimiteri e casolari sequestrati dove ormai non si accampa più nessuno, calca le orme sicure di inchieste sfociate in processi e sentenze, parla con familiari di persone morte, con testimoni che viene spontaneo definire superstiti. Anche la parte più di inchiesta (come la vicenda dei braccianti polacchi nel Tavoliere fra il 2000 e il 2006 e il centinaio di desaparecidos cui la polizia polacca ha dedicato un sito), si declina al passato.
Ma proprio questa riduzione del campo di indagine, con il suo distacco dai fatti ricostruiti, consentono uno sguardo che raggiunge una profondità diversa. E questo per Alessandro Leogrande sembra più facile perché a quelle terre e alle sue memorie lui stesso appartiene. Reduce dalla Grande Guerra, il suo bisnonno, diventato da poco proprietario di una masseria, era stato implicato in modo oscuro in una ritorsione violenta contro i braccianti di allora. A Massafraglia, gli stessi proprietari terrieri avevano aperto il fuoco contro i cafoni raccolti nell’aia con la promessa della paga, dato la caccia ai fuggitivi, infierito sui cadaveri dei sei uomini che avevano ucciso. La ricostruzione di quell’episodio corre come un contrappunto alla vicende delle odierne “vite di scarto” imprigionate in mezzo alle distese di campi in cui non sanno orientarsi.
Perché quei polacchi, sottolinea Leogrande, – oggi i romeni- non sono gli ultimi della terra, i più miseri, i più disperati. La loro povertà è di altra natura. Sono reclutati in ogni angolo del loro paese grazie ad annunci in rete o sui giornali, partono spesso da soli. Non hanno legami fra di loro, non vogliono nemmeno mettere radici nella terra dove si trovano, ma solo svolgere un lavoro temporale, concedere uno scarto di tempo e spazio per racimolare un po’ di soldi e ritornare. Tutto questo li rende più vulnerabili e spiega come mai al livello più basso dello sfruttamento si trovino oggi non i clandestini africani, ma i braccianti bianchi, europei, perfino comunitari. Loro prendono – se li prendono, visto che spesso non vedono un centesimo di paga- 3.50 all’ora o anzi più spesso a cassone che prevedono una sottrazione dai cinquanta agli ottanta centesimi per i loro caporali; gli africani un euro in più. Loro finiscono per essere consegnati direttamente dai pullman nei casolari mefitici dove si trovano sotto il controllo costante dei loro caporali connazionali che li sorvegliano persino quando vanno a fare la spesa. Gli africani spesso riescono ad offrire giorno per giorno le loro braccia agli angoli delle strade, come prevede il caporalato classico, e a trovare alloggi miseri, però non vigilati.
Nelle intercettazioni seguite alle denunce dopo un blitz dei carabinieri in un maxi accampamento allestito in un ex ristorante-discoteca dal nome sinistro “Paradise”, i caporali polacchi si riferiscono a se stessi col termine “kapò”.
“Ci sono stati dei controlli a San Severo. Nei confronti dei kapò, di quelli che…li chiamavano così ad Auschwitz, no?”
I caporali incontrati in questo libro sono un’accozzaglia di gente strana. Alcuni corrispondono perfettamente al tipo dell’avanzo di galera, al criminale comune che rivestiva un rango di preminenza nelle gerarchie capovolte dei lager sia nazisti che staliniani. Altri, specie i veri capi, presentano l’aspetto algido, curato e ben vestito di è diventato imprenditore di vite umane. Altri ancora sembrano sdoppiati, come Jacek che sta a un grado intermedio fra il bracciante e il caporale e in preda a una crisi di coscienza telefona disperato alla madre.
“Mamma, io voglio scappare di qua, perché qui sono come i maiali…”
[…]
“Torna, Jacek”.
“Mamma qui hanno picchiato così tanto un ragazzo che stava qui con me che l’ambulanza ha dovuto portarlo via. Prima gli hanno detto che non l’avrebbero pagato per il lavoro fatto[…] Alla fine ha guadagnato solo 300 euro, ma dopo aver sottratto tutte le spese volevano dargli soltanto 50 euro. Lui si è arrabbiato e ha dato una spinta a quell’ucraino, quello di cui ti ho parlato, presso il quale lavoriamo. Siccome il ragazzo è alto e grosso, l’ucraino non ha potuto fare niente, così ha chiamato degli altri, Erano bulgari o albanesi…Sono venuti qui in quattro con i bastoni e l’hanno picchiato di brutto.”
Ma Jacek non scappa, non torna, continua a svolgere il suo ruolo. Così come pure Andrzej Wnuk, il primo pentito del moderno caporalato, decide di collaborare con la giustizia solo dopo essere stato arrestato.
Le vicende dei polacchi in Puglia così come sono ricostruite in questo libro, evocano l’ombra dell’universo concentrazionario facendo balenare l’ipotesi di un qualche nesso privilegiato fra la modernità “solida” totalitaria e quella “liquida” descritta dal loro connazionale Zygmunt Bauman. L’autore ne è consapevole e, a differenza di qualche giornalista locale che, toccando il nervo scoperto dell’opinione pubblica polacca, in un articolo aveva usato la parola “lager”, si limita a un più cauto e incontestabile “campi di lavoro”. Ma ritradotto in gergo nazista pure quel termine diventerebbe Arbeitslager, ovvero la forma di schiavismo cui milioni di polacchi erano stati assoggettati durante l’occupazione.
Tra le rovine benjaminiane che Leogrande scruta nella postmodernità globalizzata approdata alla propria terra d’origine, sembrano compresenti alla rinfusa, ripetuti come le canzoni di epoche diverse presenti nel medesimo jukebox, diverse forme storiche di schiavitù. La tradizione autoctona che ratifica l’esistenza di “sovrastanti” e di cafoni, lo schiavismo colonialista dove sorveglianti “arabi” controllano la forza lavoro di braccianti neri e soprattutto quello totalitario con la sua disumanizzazione che passa non solo attraverso la violenza arbitraria, ma anche la dissoluzione di ogni legame fra uomo e uomo.
Eppure quell’ordine carcerario è più fragile di quanto appare. Per romperlo, per trarre addirittura in giudizio gli aguzzini, ci è voluto relativamente poco. Qualche ragazzo col coraggio di scappare nella terra incognita che è per lui la Puglia e soprattutto la presenza di una figura capace di intermediare fra le autorità italiane e i braccianti schiavizzati. Colui che nel libro viene ricordato come una sorta di Schindler dei polacchi sfruttati nel Tavoliere, si chiama Domenico Centrone, è titolare di un’azienda che produce sottolii e sottaceti e riveste la carica di console onorario di Polonia a Bari. Ma se è vero che – insieme alla grande attenzione mediatica suscitata in Polonia- questo è stato sufficiente per ridurre la presenza dei polacchi oggi sfruttati in Puglia a poche centinaia, non basta certo a sconfiggere il modello economico che funziona su uomini e caporali.
Per questo ci vuole una cosa sola: che l’applicazione delle norme si ripercuota sulla legge dell’economia. Che, in pratica, non convenga più far raccogliere i pomodori dagli schiavi, ma dalle macchine, come in questi ultimi anni sta cominciando ad avvenire grazie a maggiori controlli e sanzioni.
Una sessantina di anni prima di quando l’IGNOTO sepolto ad Orta Nova veniva scempiato dalle ruote di un camion, 50.000 soldati polacchi sbarcarono a Taranto per dare il loro contributo alla liberazione dell’Italia. Anche quegli uomini erano stati schiavi, anche loro venivano da Un mondo a parte come si intitola il libro sulla prigionia nei gulag di Gustaw Herling che era uno di quei soldati. Avere memoria e coscienza di ciò che è stato non basta a evitare che la sopraffazione si rigeneri in sempre nuove forme. Ma senza averne più, si rischia di vedere solo la parte emersa di quel che il fiume lavico della storia vomita fuori a intermittenza e a frantumi. Mentre sotto, innaffiate dalla logica del profitto, alimentate dalla matrice eterna che, come giustamente osserva Leogrande, è la violenza e non la povertà, restano intatte le radici. Seguendo le tracce di chi è finito sottoterra o di chi è sparito senza nemmeno approdarvi, Alessandro Leogrande cerca di afferrarle, compiendo con questo libro un gesto analogo a quello della sua anziana conterranea che ha offerto un piccolo mausoleo a un morto senza nome e senza volto.
pubblicato su “Il Riformista”, il 11.1.2009.
I commenti a questo post sono chiusi
credo che finché non sentiremo lo stesso dolore sulla nostra pelle non capiremo davvero quello che questi uomini, come quelli di Gaza e del Darfur, eccetera, patiscono; molti libri, scritti, di carta e di rete, ce lo spiegano, ma è difficile immaginare cosa fare davvero.
Storie di ordinario post-marxismo (non post-socialismo reale, che col vero marxismo non ci ha molto a che fare).
[…] di Helena Janeczek Fonte: Nazione Indiana (link all’articolo) […]
Quando apprendo di questo mondo feroce, apparentemente marginale e invece decisivo, dove tutto è ancora basico e primordiale, dove lo sfruttamento dei deboli raggiunge e supera i limiti del bestiale, dove gli sfruttati si lasciano mettere gli uni contro gli altri come cani che si mordano tra loro per un brandello di carne in più, eccetera, mi rifugio nel mio Comunismo Interiore (CI), nell’immagine dell’attimo storico miracoloso in cui la rivoluzione brucia tutto il marcio in una sola vampata, in cui i kapò e i loro padroni vengono fatti fuori con naturalezza, prima che sopraffazione e sfruttamento ricomincino subito dopo con altri nomi e altri mezzi.