Mail Box : Pasquale Vitagliano
Lettera segreta
di
Pasquale Vitagliano
Il 1804 fu un anno importante. A Milano tutti stanno aspettando l’arrivo del nuovo imperatore, di quel piccolo cesare che ha cambiato la vita dei milanesi. L’ ha proprio stravolta, ma in modo inimmaginabile. Ad attendere Napoleone, infatti, sono i signori di Milano, i nobili, i codini, le dame aristocratiche. Mentre i cittadini, gli eroi delle nuove libertà, gli avventori del Caffè illuminista che avevano tanto sperato nella Francia rivoluzionaria, delusi, anzi sconfitti, vorrebbero in quei giorni fuggire da Milano. Questi ultimi vivranno l’incoronazione di questo Carlomagno dell’età moderna, per giunta nella loro città, come un’umiliazione. Non gli resta che fuggire da Milano in quei giorni. Oppure mettersi a capo della storia e cercare di cambiarla.
“Piano di rinascita nazionale. L’aggettivo nazionale sta a significare che è escluso dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di asservimento della nostra nazione, ancorché lungi dall’essere unita entro un’unica patria riconosciuta, a qualsivoglia potenza straniera, sia essa monarchica o repubblicana, sia pure ispiratrice retorica di principi moderni anziché antichi”.
Dino leggeva e rileggeva con stupore queste parole, l’incipit di un documento segreto, ormai innocuo un secolo e più dopo la sua stesura, ma prezioso come un tesoro appena scoperto. Rileggeva l’incipit e alla fine sobbalzava, ogni volta, rileggendone le firme autografe, Giovanni Verri, Manzoni, Rosmini. Stupefacente, la Milano illuminista che si preparava per una congiura anti-bonapartista. Quel documento, se non si fosse dimostrato un falso, avrebbe cambiato la vita di un melanconico redattore del Corriere.
In una bancarella di libri antichi in Largo Treves, là Dino aveva scovato ed acquistato il cartiglio ingiallito, nella incredulità del venditore, il quale, invece, non si capacitava di come quel cliente così attento non avesse deciso di acquistare piuttosto un’edizione rarissima, con annotazioni a mano tutte da scoprire, dei Delitti e delle Pene.
Anche il 1939 è stato un anno importante. Noi lo conosciamo come l’anno di inizio della seconda guerra mondiale, mentre per Dino quello fu l’anno della scampata entrata in guerra dell’Italia. Lungo il suo consueto e solitario percorso da Via Solforino a Piazza Duomo, Dino aveva due unici pensieri che si alternavano nella sua mente come i due poli di un pendolo: l’autenticità del piano di rinascita nazionale e il timore che l’Italia entrasse in guerra, dopo essersi dichiarata neutrale.
“Pensi che l’Italia resterà neutrale fino alla fine?”, chiese il suo collega di redazione Cazzaniga.
“Spero di no, ma sarà difficile. Ormai è tempo di guerra. Intanto noi, attendiamo.”
Ed attendere era il verbo più usato dai redattori del Corriere. I redattori, non gli inviati, né tanto meno coloro che apponevano la firma sotto corsivi o elzeviri; insomma, quelli della cucina redazionale che restavano in ozio per ore ad attendere i pezzi, per passarli, giustificarli, titolarli e inviarli ai piombi delle tipografiche. In quelle estenuanti ore d’attesa, faticose fino alla fame quanto il più duro dei lavori manuali, Dino leggeva o pensava al libro che avrebbe voluto scrivere, mentre Cazzaniga faceva e disfaceva come una tela intricatissima il menabò della pagina che era stata affidata a loro. Per Dino il libro che pensava di scrivere gli avrebbe donato le ali per fuggire da quella dorata fortezza, per Cazzaniga, invece, il menabò della pagina era solo un cruciverba, che lui completava quotidianamente alla perfezione. E così il tempo trascorreva fino all’arrivo dei pezzi, al riempimento della loro pagina, all’uscita dalla rotativa ed all’ultimo controllo per evitare refusi o ripetizioni. A fine giornata, in piena notte, Dino usciva dal giornale, si faceva a piedi tutta la strada fino al Duomo – era questo il modo per riprendersi da quella prigionia, far portare aria alla testa e sgranchirsi le gambe – dove prendeva l’ultimo tram che lo portava dritto a casa. Lungo il suo abituale tragitto a piedi, aveva poi la possibilità di continuare a pensare. Sospeso il pensiero, e soprattutto il timore, della guerra, pensava al libro. Anche se la scoperta del piano segreto di Manzoni si era rivelata un elemento di disturbo nell’elaborazione dei suoi progetti letterari. L’idea fissa di scrivere il romanzo della sua vita venne in quei giorni minacciata dal pallino di lavorare intorno alla divulgazione della figura sconosciuta di un Manzoni congiurato. Chi si sarebbe mai immaginato il pio autore dei Promessi Sposi nelle vesti di un potenziale attentatore di Napoleone, appena incoronato Imperatore nella Milano di Beccaria e dei Verri? Alessandro Manzoni che a vent’anni indossa le vesti di un Gaetano Bresci ante-litteram.
Non riusciva più a pensare al suo romanzo.
“Cazzaniga, ma secondo te chi sono i veri barbari, i tedeschi o i bolscevichi?”
“Taci, il nemico di ascolta”, rispose il suo collega più anziano, senza alzare gli occhi dal foglietto di carta sul quale, con righello e matita rossa e blu, tracciava il menabò della giornata.
Un giorno Cazzaniga arrivò in redazione disperato. “Loro sono i barbari. Mio figlio è un barbaro.” Era quasi in lacrime. E non era un bello spettacolo.
Il collega di Dino possedeva quattro cavalli arabi, che vedva, però, solo una volta l’anno, quando si godva il suo mese di ferie dal giornale. A vederlo non si direbbe che fa il giornalista: quando entra nella sede del Corriere e si ferma a chiacchierare all’ingresso, chi non lo conosce lo scambierebbe con l’usciere. Non perché i portieri del giornale non abbiano una divisa ma perché è lui che si veste da portiere: un unico abito da tramviere, molto stretto e un po’ lungo. A distinguerlo, unicamente una sigaretta sottilissima, tutta bianca.
Cazzaniga non veniva da nessuna scuola, veniva, però, come si dice dalla gavetta. Forse nel giornale non era neppure entrato da giornalista. Ma adesso non conosceva domenica o riposi. Tolto il mese di ferie, che prendeva per correre dai suoi cavalli, tutti gli altri giorni rimaneva inchiodato alla scrivania ed al suo menabò, a leggere e annotare i lanci di agenzia, come ombre intermittenti proiettate sulla carta. Di Cazzaniga non si poteva fare a meno. Entra nel giornale alle undici del mattino, una breve pausa per mangiare, poi di nuovo in redazione fino a notte fonda. Quando va via, apre il catenaccio che assicura la sua bicicletta e pedala a casa. Così scompariva in una città indifferente e ignara della sua esistenza. Lavorava senza onori: sempre curvo nel suo cono di luce gialla, che insieme con gli altri macchiavano l’oscurità della redazione, altrimenti bianca come una sala chirurgica. Scriveva solo qualche pezzo in tutto l’anno, e tutti redazionali. I suoi colleghi più giovani, compreso, forse, il suo preferito, Dino, quello che lui considera il più bravo di tutti, erano un po’ frustrati, lui no. Guadagnava bene e tutto ciò che guadagnava lo spendeva per i suoi cavalli. Il corpo di Cazzaniga era sempre là, al giornale. Ma la sua anima era con i cavalli.
Un anno i cavalli non c’erano più. “E’ successo che…”, suo figlio, con gli occhi bassi, aveva cominciato a dirgli tutto. Cazzaniga non riesce ad ascoltarlo. Coglie soltanto una frase, pronunciata con irritazione. “Ma cosa pretendevi, che anche noi fossimo fuori dal mondo, fuori dalla realtà?!” “Io faccio… Io faccio il giornalista!” Cazzaniga cade preda di un’ira che gli blocca le parole in gola.
“Ombre, tu insegui soltanto le tue ombre… !”gli ripete il figlio con grida ossessive.
Era successo, semplicemente, che suo figlio, non più capace di sfuggire ai debiti della bella vita, un giorno si era presentato al maneggio presso il quale erano ospitati i quattro splendidi cavalli del padre e se li era venduti.
“Ricordi, Dino, la domanda che mi hai fatto qualche giorno fa? Beh, mio figlio è un barbaro.” Poi, Cazzaniga tacque per diversi giorni, ma adesso in redazione portava con se anche la propria anima. Per serrarla fino alla fine in quella sua sicura caverna.
Quella dei cavalli di Cazzaniga era una brutta storia. A questo pensava Dino lungo il suo consueto giro che partiva da Via Solferino. Se il giornale era per Cazzaniga una tana sicura, per Dino era l’Itaca dalla quale fuggire temporaneamente, per poi ritornarvi cambiato. Dopo quelle battute sui barbari, tuttavia, Dino aveva cominciato a pensare al giornale come ad una fortezza nella quale attendere l’arrivo dell’invasore o di un inatteso liberatore, nella inconfessabile sensazione di certezza che in un caso, come nell’altro, non ne sarebbe venuto nulla di buono.
“Dottore, c’è una lettera per lei”, laconico il portiere gli allungò subito il braccio. Ne rimase stupito. Non che fosse strano ricevere una lettera. E’ che le lettere in redazione venivano abitualmente imbucate nelle cassette postali personali. Quella, invece, era stata consegnata al portiere da un tipo un po’ sospetto, alto, magro e nero, come riferiva lo stesso portiere.
“Devo alla devozione ed alla riconoscenza verso il padre putativo, di cui indegnamente porto il nome, se non oso chiamarmi bastardo. A voi, invece, devo tutto il mio dolore, malgrado le idee che la vostra persona ed il vostro di nome mi hanno inculcato. A questo dolore solo un pallino di piombo potrà mettere fine. Qualunque sia, al termine di questo mio tormento, il suo bersaglio.”
Nella busta consegnatagli dal portiere c’era una lettera ingiallita, un cartiglio, scritta con una grafia contratta e minuscola, datata 12 ottobre 1810 e vergata Alessandro M. Quest’altro inaudito reperto era accompagnato da un biglietto anonimo, So delle sue curiosità storiche. La stimo e così le dono questo preziosissimo documento, ne sappia fare buon uso.
Dino non sapeva più cosa pensare. Il pendolo aveva lasciato il posto alla trottola. I pensieri, le idee, i progetti, a questo punto, ma anche le perplessità, le incertezze, le paure, si erano messe a girare vorticosamente nella sua mente. Quel giorno percepì la sua stanza particolarmente oscura. L’attesa in redazione, per la chiusura della pagina, fu particolarmente opprimente. Cazzaniga lo guardava e non voleva o non sapeva, di fatto, non osava chiedergli cosa avesse. Quella sera Dino si sentì veramente assediato nella fortezza del Corriere.
“Cazzaniga, esco un attimo. Tanto fino alle 20,00 non arriva nulla in redazione.”
Dino uscì dal Corriere alle 17,00 ed era quasi buio. La sua fu una vera e propria traversata nel deserto. Anche se percorreva un itinerario improvvisato ma arcinoto, gli sembrava di vagare dentro una città abbandonata, sfollata quasi dato i tempi. Non trovò più nemmeno l’anziana signora che all’angolo di via dei fiori oscuri, con affetto e un po’ di civetteria offriva un garofano al dottorino che passava ogni giorno, quasi alla stessa ora, davanti al suo banchetto.
“Cavolo, la lettera…”, d’un tratto Dino sobbalzò, riemergendo dalla sua immersione dentro la desolazione. Era rimasto così preso da quell’ultima ancora più stupefacente novità, che era uscito dal giornale soprappensiero, dimenticando sul suo tavolo l’oggetto stesso di quel sommovimento.
“Dove è andata a finire?”, si domandò ad alta voce, appena rientrato in redazione.
“Non so come è accaduto”, prese a dire Cazzaniga, quasi a giustificarsi. “Dino, sono corso immediatamente giù per strada”, continuò. “Ma non l’ ho più trovata. E’ volata via. E’ svanita nel nulla.” “Così come è arrivata”, concluse Dino.
“Dai, può trovarla qualcuno e…”, Cazzaniga si zittì, rendendosi conto subito dell’enormità appena detta, come si dicono tante cose, quasi sempre inutili, se non fuori luogo, per rassicurare, in circostante analoghe, il proprio interlocutore. Dino, però, nemmeno lo aveva ascoltato. Era di nuovo fuori, anche se solo con la mente. Guardava fisso oltre la finestra al primo piano di Via Solforino. Restò a lungo con lo sguardo fisso ora sul muro dirimpetto ora sulla bicicletta di Cazzaniga, parcheggiata di sotto, protetta dal catenaccio, solitaria e assorta in attesa del suo proprietario.
Questa volta i barbari era davvero arrivati. L’Italia era entrata in guerra e i Milanesi, almeno le persone comuni, quelle che Dino incontrava per strada nel suo viaggio da Via Solferino fino in Piazza Duomo, non sapevano ancora se dalla parte giusta o da quella sbagliata. Per il momento, si doveva continuare a menare una vita normale. Portare la pelle a casa e racimolare un po’ di cibo buono era la preoccupazione principale. Tornò di nuovo ad incontrare la vecchia signora di via dei fiori scuri e una volta almeno Dino accettò il dono di un fiore. L’umore, però, restava cattivo. Non a caso aveva girato per quella strada, che poi, a ritroso, lo avrebbe riportato al Corriere. Quando era di umore buono, infatti, svoltava per via dei fiori chiari che lo portava in Corso Garibaldi. Dino camminava molto e in solitaria, per questo amava indugiare in questi capricci psico-motori. Favorito, evidentemente, dalla suggestiva toponomastica di Milano.
Quanto alle scoperte sconvolgenti dei giorni appena trascorsi, il documento anti-bonapartista si rivelò – come seppe assicurarli in modo indiscutibile un suo amico antiquario – un falso. Della lettera segreta, invece, con la quale il misterioso Alessandro M. si era trasfigurato da congiurato in potenziale e incerto parricida, non se ne seppe più nulla. E’ rimasto questo un cruccio che Dino si è portato fino alla fine della sua vita.
Quella mattina, tuttavia, Dino passeggiava con la mente sgombra. Il fresco gli tagliava con piacere la faccia, lui odorava soddisfatto il piccolo fiore bianco donatogli e pensava al romanzo di cui aveva siglato, appena il giorno prima, la pagina conclusiva.
I commenti a questo post sono chiusi
Ho amato questo documento segreto/ falso ma che brilla delle luci del secolo della filosofia.
L’envers imaginaire de l’histoire.
Autentica e lucidissima, come sempre nei tuoi giudizi.
Grazie.
Pasquale
Grazie!
Sai che ho iniziato i promessi sposi? ma conto su le vacanze d’estate per leggere, perché il romanzo è lungo e molto ricco.
véronique
PS Mi è piaciuto anche l’ambiente che descrive il mestiere dei giornalisti.
Ambiente che non conosco. Mi è sembrato anche che i personaggi “recitano” un ruolo. Sono la carne di personnagi inventati.
Una bella cosa in prosa, questa volta, da Vitagliano. Ciao Pasquale, sei più milanese di me.
Bellissimo compliemento