Morfologia dell’amore
[Questo racconto è un’anticipazione dal prossimo numero di SUD, in uscita nella prima decade di gennaio.]
di Emmanuela Carbé
Un cavernicolo, un essere primitivo vestito sempre con magliette cavallo e cavaliere. Brutto, col broncio appeso in faccia e la capacità di socievolezza di un sasso. Se non fosse che ogni tanto muove gli arti superiori per accendersi una sigaretta lo crederei un uomo della pietra, vestito con pelli di animale, disegno preistorico a muro. L’ho soprannominato tirannosauro rex, e quelle rare volte che apre bocca davvero conferma la sua natura tirannosaurica e potente, con un vocione che fa eco a settanta milioni di anni di mancata evoluzione, e un naturale rapporto diretto con le scimmie o con gli anfibi. Mi sono innamorata di tirannosauro rex una sera a casa sua, quando parlava delle mille doti politiche dei federalisti, e io per non dargli addosso non ascoltavo, catalogando mentalmente i suoi scaffali pieni di libri. Mi sono innamorata perché è il mio contrario, perché è un esemplare maschio adulto che lotta ogni giorno con la clava per il pezzo di pane che la vita gli deve, mentre io invece le cose le ho sempre aspettate dal cielo.
Per lui ho visto due volte batman al cinema, ho letto i libri peggiori di Coelho e Prévert, sono andata a una conferenza di federalisti trasversali. Ho guardato per un mese i documentari di history channel.
Tirannosauro rex è appena stato assunto a tempo indeterminato agli uffici del comune e continua a dirmi che anche io dovrei muovermi e smetterla con quello stage non retribuito, che dovrei andare a vivere in una casa più grande del mio monolocale, progettare qualcosa per la mia vita, sistemarmi, pensare ad un futuro tranquillo. Io però il mio futuro l’ho già pensato, ed è per questo che ogni giorno allo specchio compongo discorsi, e scrivo lettere non spedite per spiegargli a parole semplici quello che vorrei dirgli. Ma cosa vorrei dirgli, con esattezza? Io l’amore non lo conosco, non so nemmeno cos’è.
Giovedì pomeriggio esco con la mia borsetta piena di lettere non spedite e incontro tirannosauro davanti al duomo. È a braccetto con una ragazza. Lì per lì non mi si spezza neanche il cuore, rimango piuttosto fissa e sorridente con il pilota automatico interiore. Non mi sottraggo alle presentazioni, quando mi allontano butto le lettere in un cestino differenziato come se stessi buttando del latte scaduto.
Sto sveglia tutta la notte e decido che la mia vita deve cambiare. La mattina vado a comprare un divano biposto, una minicucina di legno più spese di spedizione, una libreria in legno grezzo e una tavolo da muro che si alza e si abbassa. Appena dopo la cassa trovo un negozietto svedese che vende salmone affumicato e ne compro mezzo chilo. C’è anche il libro mille modi per cucinare il salmone, centodieci pagine di ricette a tu per tu con un salmone svedese. Lo faccio mio. Uso tutto il pomeriggio a studiarmi le istruzioni per la composizione della libreria, prendo appunti e preparo il martello e le viti, unisco i pezzi e in meno di tre ore è completa, al muro, in tutta la sua bellezza. Ci prendo gusto, sento per la prima volta di aver costruito con le mie mani una cosa solida, vera, concreta. La notte non chiudo occhio, continuo a pensare alla mia nuova libreria. Mi alzo e vado a provarla, ci appoggio sopra un libro, un vaso, un cuscino, eppure sento che manca qualcosa. Un senso di inquietudine mi fa pensare e ripensare. Prendo il catalogo e sfoglio. C’è una libreria in legno chiaro, costa come quella che ho comprato. Ravvicino la pagina al muro. È perfetta.
Il giorno dopo mi decido e torno là. Eccola in tutta la sua bellezza, la mia prossima nuova libreria. È mia, metto i pezzi sul carrello. Già che ci sono prendo un comodino e anche un tavolo da lavoro. Un tavolo da lavoro è indispensabile per costruire il proprio fortino. Prendo anche un set di martelli e chiodi, per quando arriva la cucina. Voglio staccarmi dal mondo e sentirmi protetta con i miei nuovi mobili colorati. Sento all’improvviso un incontenibile desiderio di costruire anche un armadio. Passo un altro pomeriggio a incastrare e martellare. La mia casa è piena di cartoni, viti e bulloni. Sul sito internet ho trovato un letto a soppalco, sono andata subito a prenderlo. Nel frattempo è arrivata la cucina, l’ho montata ma ho dovuto spostare una delle librerie al centro della stanza.
Il letto a soppalco non ci sta, ho fatto male i conti con il soffitto. Allora ho attaccato le colonne portanti su un muro e il letto è in verticale, di petto alla cucina.
Progetto una parete attrezzata su due muri accanto alle librerie, penso ad un parquet per il soffitto.
Domenica sera è tutto più difficile. Mi sono incastrata in mezzo alla stanza cercando di collegare i tubi della cucina. C’è qualcosa che non va nelle istruzioni, perché l’acqua cade dai tubi e allaga la stanza. Seduta sul letto aspetto. Il mezzo chilo di salmone svedese è a pezzi e galleggia per casa. Barricata con l’acqua alla gola chiamo tirannosauro rex per dirgli che lasci tutto l’amore di questo mondo e si prenda per sempre cura di me. Che venga a prendermi in casa e con la clava spacchi tutto il legno che ho costruito attorno, e si prenda cura di me. Ma tirannosauro rex non risponde, come non aveva risposto alle lettere nel cestino differenziato, non risponde perché non capisce e non sente, non sente, e forse meglio così.
I commenti a questo post sono chiusi
bello lo scritto, tragicamente vero. questi tirannosauro rex sono veramente stupidi e se ne fottono pure, quasi autistici, poverino. la puglia ne è piena, il sud trabocca, l’italia ne è vittima :)….
guarda che il sasso è un casino comunicativo, come le lettere mai spedite
ci vuole più fiducia nell’IKEA.
ella si prende cura di noi.
lenisce le ferite.
occorre applicazione & devozione se si vuole la ricompensa ikeika.quello che prima non aveva senso, oggi ce l’ha con IKEA.
adoremus.
proprio due giorni fa sono stata all’ikea. io e i miei amici abbiamo pensato che l’unico settore dove l’ikea non è ancora arrivata è quello delle pompe funebri. e d’altra parte sarebbe difficile pensare ad un morto che si costruisce la sua tomba montabile. ma, d’altra parte ancora, un nome di tomba come “billy”, “poang”, etc. potrebbe dare un senso diverso al passaggio dalla vita alla morte. un senso anche democratico se vogliamo, perché finalmente anche i non ricchi potrebbero avere una tomba in design e, cito dal catalogo 2009, “creare il proprio stile in massima libertà”.
Una dura storia, crudele, ma realista.
su IKEA, mentre VOI avete un atteggiamento ironico & sarcastico & anti-consumistico io sono serio, assolutamente serio: IKEA è un frammento di utopia modernista, un residuo di Novecento, che si realizza: la Riforma che si fonde e prende corpo nella Forma.
smettete di ciacolare vanamente, raccoglietevi, ascoltate il Suo messaggio: l’unica cosa che ha senso è la lotta eterna al Caos che si fa attraverso l’essenza geometrico-platonica degli oggetti: cioè in poche parole: IKEA.
tutto il resto è tenebra e tramestio di mucose.
io quando parlo di ikea sono molto seria. ikea sta per delillo come calvino sta per ci metta VOI quello che vuole.
tutto il resto è billy.
è ovvio che con questo commento tu NON SEI SERIA.
è come parlare al vento.
è come dire cose sensate a una zebra che galoppa, a un lombrico che si torce.
è non-utile.
bene, ognuno avrà la consapevolezza che si sarà cercata e meritata.
alligator e carbé, mettetevi insieme e aprite le pompe funebri.
però il racconto sembra copiato dal film kitchen, mi pare si intitolasse così
Alligator, non hai ancora digerito l’ultimo turista incauto divorato mentre faceva il bagno nel fiume? Ci scommetto, era un manager dell’Ikea!
@fra
come si vede che non sai le cose.
io e carbè siamo già insieme e di pompe funebri già ne abbiamo.
che problema hai?
devi seppellire la nonna?
noi lavoriamo solo con clienti di classe.
L’Ikea è una cosa assolutamente superata. Magazzini fuori mano raggiungibili solo con la macchina o le navette.
Io preferisco Argos o Tesco Direct. In Italia ce l’avete? Non abbandonatemi su quest’isola!
(Morgillo, Morgillo, perché mi hai abbandonato?)
Armiamo un mezzo da sbarco per andare al salvataggio del Morgillo Incatenato e liberarlo così dal perfido abbraccio di Albione.
L’Ikea è solo un grande magazzino.
Come Facebook è solo un sito internet.
Smettere di nominarli e riempirli di parole che vorrebbero essere evocatrici di altro, sarà già una gran cosa. Quasi come smettere di dire “piuttosto che”, “assolutamente” e “e quant’altro”.
Questa appello mi sgorga veemente dal quore.
Quanto al pezzo, poiché il mio intento non era la critica ad esso, e poiché non vi appare la parola Ikea, è carino.
pazza ikea di dialogare con lui
mentre leggo io non capisco se ci fai
folle folle folle ikea l’attesa qui
mentre te la tiri
vado via
pazza ikea il sogno rido oramai
vedere tutti impazziti accanto a me
folle folle folle ikea il braccio e il sé
sono pezzi rari del tuo sé
pazza ikea….
la mia opinione è: gli utenti di facebook, più o meno consapevolmente, sono creatori di contenuti. mai prima di facebook c’era stato su internet uno sdoganamento di massa di nomi e cognomi, liste di amicizie tra nomi e cognomi, relazioni interpersonali e scambio di informazioni al limite del patologico. questo potrebbe anche essere irrilevante, se non fosse proprio per quel grado di inconsapevolezza che contraddistingue l’utente di facebook. che non si rende conto di lasciare una traccia, non si sforza di rendere questa traccia interessante, mette in mostra la propria immagine brutalmente, a filtri bassi. l’utente diventa specchio inconsapevole di se stesso, il sé-raccontante, l’auto-esegeta.
come può un meccanismo simile non interessarci?
possiamo non far parte del meccanismo, possiamo non tollerare gli articoli sull’argomento che leggiamo sulle riviste femminili, ma non possiamo ignorare l’esistenza di un meccanismo. facebook non è un semplicemente un sito internet: è un meccanismo.
allo stesso modo l’ikea non è solo un magazzino, perché ha alla base una filosofia di ripetitività assoluta, estremizzata, un’idea che nel suo nocciolo potrebbe risalire alla rivoluzione industriale.
parlare di facebook e di ikea non significa parlare di mode (giacché, in ogni caso, questi due tormentoni non sono più una novità), e io capisco che possa apparire un argomento noioso, di cui si è già detto forse troppo; eppure in qualche modo parlarne significa chiedersi dove stiamo andando. sempre che interessi saperlo, perché anche questo sarebbe essere tutto da stabilire.
Raggiungiamo il Tamigi con una fregata lanciamissili intelligenti e vediamo se uno di questi riesce a contagiare Morgillo [Beatus Virus], senza, con questo, distruggerlo.
@ soldato blu
sonnambulandiamo
Scrissi questa cosa quattro anni fa.
Croste.
Viviamo nella Crosta 117 – Ikea.
Qui tutto dev’essere essenziale, rettilineo scarno autentico schietto sobrio ed economico.
Non sono tollerate citazioni stilistiche, barocchismi, sbandamenti e recuperi del post moderno novecentesco, pezzi d’antiquariato, tappeti persiani, caucasici, e radiche di noce, specchi dorati statue e cristallerie e argenterie.
Non sono tollerati colori schietti e forti.
È proibito il rosso carminio, il vermiglione e comunque il rosso o l’arancio accesi.
Il blu e l’azzurro elettrico, il verde smeraldo e altri verdi che non siano smorti et tendenti al grigio.
Il grigio, ecco.
Questo sì.
Grigio e bianco e nero, beige e tenue celeste, verde militare.
Legno naturale. Vetro.
Acciaio satinato e inox e alluminio soprattutto. La sincerità e l’etica della materia allo stato puro è incentivata e premiata.
Qui risiedono gli umani democratici e moderni, buoni e tolleranti: tutto quello di cui ci circondiamo è solo l’immagine coerente di una concezione del mondo e del vivere.
Di una visione etica, starei per dire politica, ecco, se non fosse un termine così inadeguato.
Quando venimmo a vivere qui, nella Crosta 117 Ikea – sarebbe meglio chiamarlo Strato -, quando scegliemmo questo Orizzonte e questo mondo, fu per la necessità, percepita da molti di noi, di muoverci orizzontalmente tra i nostri simili, quelli col nostro reddito i nostri gusti e le nostre stesse opinioni.
Scegliemmo una Comunità di Valori Condivisi, una CVC, appunto, diversa da quella di origine.
Superammo i sei giorni di Test: per riuscirci occorre essere profondamente convinti del Meme Dominante di uno Strato dell’Artificio. E se permettete non è una cosa da poco: ti rivoltano come un calzino, perché quelli dello Strato vogliono essere sicuri di non introdurre abusivi, non condividenti, non convinti, esploratori di livelli, turisti ideologici, gente deragliata ancora in cerca.
Gli elettori non perdonano questi sbagli. Nessuno vuole ritrovarsi ad ascoltare, metti in metro, discorsi che non rientrino nell’ambito del range di opinioni ammesso dallo Strato.
Intendiamoci: non è certamente proibito avere o maturare opinioni diverse da quelle ammesse per statuto in uno Strato. Si può, ma allora occorre cambiare Strato, salire o scendere di livello. Esistono decine e decine di sfumature diverse: si rifà un test ridotto di due o tre giorni, cioè circoscritto solo alla banda di opinione che si intende cambiare o della quale si vuole mutare la sfumatura. E ci si sposta un po’ più in alto o un po’ più in basso.
La Crosta Ikea non è di quelle parziali.
È di quelle totalizzanti e però democratiche: cultura, etica e stile di vita e gusto, modo di vestire, arte, ruolo della scienza, figure di arredo e oggetti, tipo di veicolo individuale, medicina, abitudini alimentari, sessualità, eccetera: di ogni forma di espressione/opinione è normato l’ambito di oscillazione, in genere piuttosto ristretto. Chi non condivide lo Statuto di Crosta (o Strato), cioè chi non si adegua, viene avvertito un paio di volte e poi invitato ad andarsene.
D’altronde il Catalogo dell’Artificio è talmente vasto che chiunque prima o poi troverà quello che cerca, cioè una Crosta che possa andargli bene. Esistono centinaia di Strati e di Settori. Uno sopra all’altro: in basso gli estremi, i pazzi anarco-polpottiani, un po’ più su gli stalinisti, poi i troskisti-del-terzo-millennio, susloviani, i tardo-bordighiani e tanti altri che adesso non mi vengono inm mente, poi salendo trovi di tutto, persino stronzi hammett-roosveltiani, che personalmente trovo ridicoli, sapete. All’interno di ogni Crosta esistono vari settori con le più varie sfumature e le più varie manie condivise: una volta mi sono ho persino trovato a passare in un Sottosettore Marginale dove si condivideva, tra le altre cose, il culto di un vecchissimo film che si chiama Allonsanfan, di un certo Taviano.
Sopra di noi si procede verso l’alto verso il Liberismo più sfrenato passando per il Fascismo più o meno “Di Sinistra” e per la Destra Sociale – cito a memoria quello che ci hanno insegnato a scuola, ma non ricordo più il significato di queste denominazioni – fino ad uno strato, il Finale, dove vivono gli ultraricchi. Qui poi la situazione è molto variegata.
Ci sono gli estremisti Harpels & VC, per esempio: non hanno regola di alcun tipo e nessuna condivisione, tranne l’assenza totale di norme, leggi ed etica: ciascuno fa quello che crede e si organizza come crede e si difende coi mezzi che ha a disposizione. E vi assicuro che occorre averne, di mezzi. Si favoleggia di armi e reparti addestratissimi di guardie del corpo per difendersi ed attaccare e progettare e mettere in pratica qualsiasi forma di sopraffazione. O almeno così si dice.
Se ne raccontano di storie sull’Ultimo Strato.
Quelli che lo abitano lo chiamano lo Strato delle Libertà.
Noi di Ikea lo chiamiamo lo Strato dell’Arbitrio, il Tetto Tremendo. Ma nessuno è obbligato a viverci, per fortuna.
Prima di accedere – essere accettati – da una Crosta (o Strato) non esiste obbligo di nessun genere. E si può dire non esista nemmeno all’interno di uno Strato: ognuno dice o fa quello che vuole. Ma la CVC può espellerlo come incompatibile: si vada a cercare lo Strato o il Settore che più gli è consono. Si cerchi una nuova Comunità che lo accetti. Valori, o manie da condividere: magari nel denso strato Sadomaso o in quello Zoofilo, per restare in tema sessuale. Ma ci sono anche i Consumisti di vario ordine e grado, lo strato satanico dei Cultori di Padrepio, oppure gli Amanti dell’Acqua Fredda. I post-Einsteiniani, gli assurdisti dello strato De Curtis, i seguaci dell’Amarismo Fernettiano, gli Hopperiani, eccetera.
Tutti sanno che esiste uno strato per ogni possibile tendenza. Ma anche uno strato, anzi parecchi strati, esclusivamente per i sessuofobi di ogni tendenza, come il gruppo Turris Eburnea. A Turris, dove sono andato una volta per concludere l’acquisto di lana di buona qualità e cioccolata nera, tutto è dipinto di verde con righe e macchie di rosso, – “per punire la vista, innanzi tutto” – dicono loro. Mah. Puzzano e sono vestiti con lerce salopette, che vorrebbero essere bianche, portano solo magliette grigie, lavorano e dormono e non fanno altro. Sessi separati, naturalmente. Fecondazione in vitro. Niente contatti fisici, anche perché sono talmente sporchi che si farebbero schifo tra loro, qualora per avventura i due sessi si incontrassero. Nella storia di questo Strato c’è un’iniziale volontà di evitare un’antica malattia virale che si trasmetteva per via sessuale e che ad un certo punto si propagò incredibilmente.
Qualcuno dice che gli Strati sono ghetti forzosi, contesta il Segregazionismo Globale e sogna una società “pluralista”, sul modello ideale delle antiche e mitiche Democrazie Occidentali. Una società dove tutti gli Strati convivano.
Altri obbiettano, e io sono d’accordo, che un ritorno al pluralismo è impensabile. Perché sarebbe un ritorno allo stato primitivo e selvaggio della Non-Condivisione, al medioevo della democrazia malintesa, dove i conflitti si susseguivano senza sosta e gli scontri violenti erano cosa di tutti i giorni.
Basta leggere i documenti e guardare le immagini, dico io.
Addirittura si pretendeva che diverse religioni convivessero nella stessa “società”.
Naturalmente esistono uno o più Livelli e più zone dove le Comunità insediate condividono come valore portante la coesistenza pacifica delle diversità.
Croste che negano l’organizzazione per CVC, insomma, come Comunione e Arcobaleno, per esempio. Mi domando su cosa questa gente basi il proprio senso di Identità e di Appartenenza.
Ci sono uomini che sognano spazi di comunicazione inter-Croste, dove si possano mettere in comune esperienze e culture, arricchirsi nell’ibridazione, nel dialogo, nel contatto. Grandi pozzi verticali di comunicazione, non blindati come quelli di ventilazione attuali, aree verdi senza gli insetti tipici di strato, gli “endemismi di Crosta” come dicono gli scienziati dell’Artificio.
La gente odia che il suo ambiente sia contaminato da organismi provenienti da altri livelli. Batteri, virus, parassiti, insetti, animali di ogni genere, magari ibridati in forme bizzarre o modificati dai biotecnici dello Strato Mucosa, oppure costruiti in laboratorio per intero, che non assomigliano a nessun’altra cosa vivente, come fanno a Mondo Nuovo, dove follemente si progetta un universo interamente artificiale, o almeno così si dice.
Però tendenzialmente ogni Livello (o Crosta, o Strato), se non ogni Settore dell’Artificio, si sta lentamente trasformando in un mondo a sé, nettamente distinto, sempre più autonomo e organizzato.
Alcuni Livelli sono dichiaratamente imperialisti e puntano al controllo di altri Strati sopra e sotto il loro.
Noi di Crosta 117 Ikea siamo moderni e moderati, siamo per la solidarietà e per il controllo e per un’economia regolata senza eccessi di sfruttamento, ma anche senza caldeggiare troppo il sociale: niente di collettivistico, come per i comunisti che stanno in basso.
Gusto, moderazione, riflessione, cultura, buone maniere, cinefilia e cinofilia, arte astratta. Insomma tutte queste cose a scuola ci hanno insegnato che si chiamano Veltronismo, “ibridato con elementi di Degregorismo e Deandreismo Morettiano”. Cosa voglia dire non l’ho mai saputo.
Niente sfarzo e niente sprechi, come i cafoni e i semicriminali colle catene d’oro dei livelli sovrastanti, ma nemmeno la negazione di ogni comfort e di ogni tecnologia, come i luddisti di Terra o i pan-naturisti di Gaia, quelli di Gea e quelli di Ipogea, o i Proserpinisti ad oltranza, con la loro tenebrosa visione ctonia dell’Artificio.
Siamo per la semplicità, ma non per il pauperismo.
I nostri storici dicono che all’origine del Gruppo, che poi fondò la CVC e che colonizzò lo Strato, ci fossero incontri prima casuali e poi organizzati, rigorosamente segreti, presso un luogo nascosto e periferico, detto appunto Ikea. Qui misero a punto un progetto di comunità per l’applicazione pratica del pensiero Veltronico (?).
Dopo molte fatiche lo realizzarono su un terreno acquistato da contadini indigeni, che vennero successivamente espulsi dalle terre circonvicine. Poi, quando si cominciò a costruire l’Artificio, chiesero la Concessione per una Crosta e, dopo molte lotte, l’ottennero. Eccetera.
Le storie degli Strati sono simili tra loro.
Ciao Carbé, qualsiasi meccanismo tu guardi negli occhi.
ScuSSa Alligator, non so da voi in Italia, ma qui a Londra L'[Aikia] è anche coloratissima e postmoderna e post postqualcosa. Per tutto il 2008 ci sono stati perfino dei puffi girevoli in cavallino. Comunque criticare l’Ikea fa molto paese arabo emergente con una classe intellettuale che non tollera riti collettivi edonostici e a buon mercato.
Voi, invece, cresciuti nella bambagia dei truciolati bullonati a casa dai falegnami, la smettete di scrivere che i mobili Ikea sono difficili da montare e ci manca sempre l’ultima vite?
Un saluto a Domenico Pinto. :- )))))))))))
@carbè
dimenticavo: il racconto è molto bello: l’ikea come risarcimento dell’amore perduto.
@morgillo
puffi girevoli in cavallino?
Morgi’, “voi” chi?
Io, ad es., ho il letto a castello delle bambine -dell’Ikea- montato 5 anni fa e sta ancora su che è un piacere. Molto più spaventevoli sono in vari saloni del mobile con finti arredi pseudorustici parabrianzoli che ammorbano il territorio patrio, con tanto che si fregiano pure d’essere “made in Italy”. Gulp!
E poi a me pare che il buon Tash-Alligatore tutto fa tranne parlare male dell’Ikea.
Mi ha sempre sconvolto, leggendo i foglietti di istruzione per il montaggio fai-da-te di oggetti d’arredamento, il guazzabuglio di termini tecnici fino a quel momento a me ignoti che vi si trova. Credo che nemmeno il Gaddus li conoscesse. E, a proposito del montaggio fai-da-te, da anni ne ho tra le pareti domestiche due testimonianze dolorosissime: una libreria in lamierino i cui scaffali sono rimasti irrimediabilmente sghembi e il bracciolo perennemente traballante di una poltroncina a rotelle.
Da quel momento ho lasciato al loro destino di fate morgane quei grandi magazzini fondati da un falegname svedese.
(sono stato bravo, helena, a non nominare mai qui quella brutta parola?)
@emmanuela: ok, hai ragione parliamone: ” …………..” “…………” “….”, “……………….” ………..”.
Ora che ne abbiamo parlato, io però non credo che ci sia molto altro da dire.:)
@Macondo: sì, sei stato bravo. Io però non ci ho l’acca di Helena.
mi piace elena perché non capisce.
in particolare non capisce, come molti del resto, oppure non sa cosa sia davvero Ikea.
mi piasce perché non ostante sia qui esibisce la frettolosa non-chalance di chi non ha tempo da perdere che queste cazzate.
bello.
con
Alligatore Tashtego, che ti devo dire? Dici che sto qui a commentare ma mi esibisco in frettolitudine, passando via veloce come se non avessi tempo da perdere in quisquiglie?
Va bene mi metto comoda sul mio divano Ektorp, ti offro un caffè nelle mie tazze Oling e parliamo dell’Ikea. Ma che avremo mai di nuovo da dire? Non “di nuovo”, nel senso di ancora, ma nel senso di non già detto? Tu stesso ci hai scritto un pezzo, perfetto, nulla da dire, ma parliamo di quattro anni fa. E quattro anni fa andava ancora bene parlare dell’Ikea.
Ora però ci hanno scritto sopra un romanzo di cui non ricordo il titolo né l’autore, ma qualcuno di sicuro l’ha scritto, ci hanno scritto un libro inchiesta, una canzone, la citano nei film, ci fanno le tesi di laurea, ci hanno arredato la casa del grande fratello, del proprietario ormai si sa tutto, che è stato nazista e che poi si è pentito, tutti abbiamo in casa una libreria Billy, un puff Saltorp (invento il nome del puff), una busta di salmone affumicato da montare con le viti sui crostini.
Ieri il discgiochei alla radio parlava delle fidanzate da Ikea al sabato pomeriggio come delle donne che ambiscono al matrimonio. Quando qualcuno dice che ha messo su casa con poco dice che ha la cucina del signor Ikea. Quando qualcuno deve fare la battuta sui mobili dell’appartamento preso già arredato, dice che c’ha i mobili Ikea.
Dici che non so cosa sia l’Ikea. Io che ci ho arredato due appartamenti! Io che ci ho portato l’ex il sabato pomeriggio! Non per farmi sposare, ma per farmi aiutare a montare la cucina. Io che mi ci sono persa nel parcheggio sterminato, girando con uno smisurato carrello con i mobili per l’ufficio. O dobbiamo analizzare il design a basso costo, il costo della non manodopera, il fenomeno sosciale degli stormi di famiglie che nei uikend passano ivi il pomeriggio, disguisire del centro commerciale come nuova agorà perdipiù dotata di aria condizionata dove parcheggiare il vecchietto, o affrontare il fenomeno della multinazionale dell’arredo che globalizza il gusto? Potremmo farci pure un paragone col McDonald, e via altri dieci giorni di discorsi. E perché non con altre multinazionali del gusto, dell’arredo, dell’abbigliamento, per cui ci mettiamo tutti lo stesso swatch, vestiamo tutti H&M, o abbiamo tutti il Nokia? E potremmo pure dire che amiamo essere standardizzati, massificati, rincretiniti? Forse è una novità. In effetti in tanti ancora non se ne sono accorti. O se se ne sono accorti non gli interessa per niente.
Ma io sono stremata. Ormai se n’è parlato in lungo e in largo e almeno qui, dove quando entro spero di trovare qualcosa di nuovo con cui rimpolpare i neuroni, spero di non sentirne ancora trattare. Almeno che non se ne parli più scrivendo un racconto. Un saggio potrei ancora tollerarlo, ma un racconto no.
Se sento parlare della mitica libreria Billy mi raggrinzo, se mi arriva un altro sms augurale natalizio con le letterine da mettere a posto in stile Ikea, mi incazzo.
Insomma, posso dire che ormai è un luogo comune inerte e trito parlare dell’Ikea o mi dai diesci frustate?
(non sapevo che parlare di Ikea non andasse più di moda, quindi un po’ mi vergogno della cosa che posto qui sotto, che in pratica è un inno alla cultura ikeika intesa come approdo consumista del primo modernismo, in versione scandinava)
La base svedese
Voglio provare a rovesciare il paradigma anti-globalizzante e cominciare a considerare Ikea piuttosto che come un cominciamento, piuttosto che come l’ennesima perversa realtà produttiva planetaria, come l’esito logico, e forse necessario, di un pensiero antico e consistente.
Insomma seguito a parlarne bene.
Per ottenere Ikea ci sono voluti quasi cento anni di cultura modernista.
Più o meno cent’anni durante i quali si è messa a punto l’utopia della riforma globale dell’habitat, dal cucchiaio alla città.
La riforma dell’intero sistema degli oggetti nei quali e tramite i quali viviamo, secondo un pacchetto di principi semplice e rivoluzionario:
– abolizione di ogni aderenza ad uno stile e di ogni decorazione;
– abolizione di ogni ridondanza formale: la forma segue la funzione;
– bellezza è semplicità ed aderenza alla destinazione d’uso, sincerità e chiarezza compositiva nell’uso appropriato dei materiali secondo la loro rispettiva vocazione tecnico-formale;
– molti et cetera.
Tutto questo, ed altro ancora, valeva (con qualche aggiustamento ) per ogni manifestazione dell’artificio umano, dalla suppellettile, all’edifico, al sistema di edifici, alla città, al territorio.
La riforma globale dell’habitat, del nostro stesso stare sulla terra e “dimorare presso le cose” si accompagnava all’adesione al movimento socialista internazionale, del quale il modernismo nelle sue varie accezioni (funzionalismo, espressionismo, organicismo, suprematismo, eccetera) diventa una specie di braccio armato, nella convinzione che il vero destinatario di un mondo completamente ridisegnato secondo nuovi principi, siano le masse lavoratrici inurbate.
In realtà, ad una lettura disincantata, in quella fase dello sviluppo capitalistico occorreva mettere a dimora decentemente la classe operaia secondo standard minimi accettabili, in modo da diminuire le tensioni ed ottenerne un certo qual consenso a proseguire nella corsa forsennata allo sviluppo produttivo.
E occorreva che il mondo degli oggetti e il gusto che li aveva sino allora prodotti, fosse messo a sistema con la nuova, imperante e inarrestabile realtà industriale e macchinista, coi trasporti sempre più rapidi, eccetera.
Nella mia personale modesta visione, il modernismo – al quale ho sempre in fondo aderito – giunse in quanto era necessario all’economia della Grande Rivoluzione Industriale: eccetera.
Esisteva una specie di logica ineluttabile nel fatto che una putrella d’acciaio, sino ad allora completamente non- significante, finisse per diventare, se opportunamente usata, un oggetto estetico.
La stessa cosa accadde, ma in misura minore, per la forma tecnica, cioè per la forma che hanno i meccanismi, il cui statuto è di essere completamente pensata e finalizzata al buon funzionamento e non ad ottenere un qualsivoglia giudizio stetico: aprendo il cofano posteriore, metti di una Fiat Cinquecento, si vedeva pura forma tecnica che non chiedeva neanche per un istante di piacerti.
Un esempio di forma tecnica dispiegata a fini estetici fu, alla fine, il Centre Pompidou di Piano e Rogers.
Eccetera: la questione è enorme.
Ora io sostengo che Ikea sia, almeno nelle intenzioni, in perfetta continuità con quell’esperienza, cioè che sia una filiazione diretta di quel pensiero e delle sue derivazioni.
Ikea progetta e produce, cioè commissiona la progettazione e la produzione, di un sistema di oggetti che punta alla qualità, alla bellezza, alla semplicità e all’estrema economicità. Ma che punta anche alla completezza, cioè a coprire interamente ogni esigenza relativa alla vita in ambiente domestico.
Né più, né meno, di quanto si prefiggeva, nella diversità dei suoi campi di indagine, il Bauhaus di Walter Gropius.
Sostengo che Ikea è la prosecuzione del Bauhaus di Dessau con altri mezzi, è Bauhaus più Globalizzazione.
Oggetti accuratamente progettati per essere venduti in scatola di montaggio, secondo principi estetici che in molti casi potrebbero definirsi minimalisti, ma che in realtà sono Bauhaus, prodotti in ogni parte del mondo, là dove è più conveniente, e distribuiti tramite grossi centri gialloblu, assolutamente standardizzati per servire una ferrea organizzazione di estensione ormai quasi planetaria: una specie di MacDonald’s degli oggetti, ma più complesso e rigoroso.
Ikea ha risolto, anzi ha spazzato via d’un colpo, tutte le ambiguità e le contraddizioni in cui si dibatte da decenni l’industrial design contemporaneo: la frammentazione produttiva in miriadi di piccole aziende, i costi altissimi, il continuo re-design per venire incontro al consumismo oggettistico e trendarolo delle classi più ricche (cui i prodotti di design sono destinati) e, infine, l’abbandono dei ceti più poveri nelle mani dei centri mobili più biechi stile Aiazzone, che ne titillano la mancanza di coscienza modernista e “di gusto” con una quantità di robaccia “in stile” a prezzi tutto sommato ancora alti.
Ikea sta uccidendo, anzi giustiziando, gli Aiazzone di cui è pieno il nostro paese, sta riempiendo le nostre case di oggetti dotati almeno di un qualche senso, spesso belli, qualche volta geniali e sempre imbattibili nel rapporto qualità-prezzo.
Oggetti che trovi a casa del povero ma anche del ricco e che quindi contengono in sé – assieme all’indibitabile invito ad un nuovo consumismo oggettistico – proprio quegli “elementi di socialismo” di cui parlava la tradizione comunista d’occidente.
Ma non basta: il vero punto di forza sono la distribuzione e l’immagine di questi grossi templi periferici gialloblu, dove se sai guardare, vedi i lacerti, per noi molto fascinosi, di remote et nordiche social-democrazie, dove tutti sono uguali, i re e i primi ministri prendono l’autobus (salvo essere fatti fuori per strada come accadde a Oof Palme), le gente paga le tasse e regnano modernità, geometria, ordine, pulizia e nettezza dei confini.
Com’è noto l’apertura della prima Ikea in Arabia Saudita provocò decine di morti per la ressa, tra la gente che si accalcava per entrare in un altro mondo, più giusto.
Olof
Macondo non ha uno swatch al polso. Macondo non veste H&M. Macondo non ha il nokia, non ha in casa una libreria Billy, non ha il divano Ektorp dove sedersi, né le tazze Oling in cui bere il caffè. Macondo è molto triste per questo. Aiutate Macondo.
Biondillo, sul salone del mobile dovresti scriverci qualcosa. Davvero.
Alligator, è verissimo, Ikea nei paesi arabi ha ancora effetti destabilizzanti. Bisognerebbe approfondire la cosa.
chapeau, Alligator…
quasi tutte le ultime scenografie per spettacoli le ho costruite tra Ikea e il nuovo trust dei brico (Leroy+BricoCenter del Groupe Adeo che ha acquisito Castorama la scorsa etsate) (perché non di sola brugola vive lo smanettone)
sarà perché abito a sette minuti di bicicletta da uno dei più grandi poli commerciali d’europa
però per cercare idee e materiali rovisto davvero dappertutto, compresi mercatini delle pulci o centri di etno-trading, e-bay o decine di altri siti, la piccola ferramenta del paese o la tradizionale cartotecnica superfornita per le belle arti
ma alla fine non ce n’è: l’ombelico del mio povero immaginario è là
la cosa più divertente è che alla fine non se ne accorge nessuno! non dico i bambini che guardano i miei spettacoli, ma gli adulti… qualche bambino stava, a dire il vero, per beccarmi: “quello ce l’ho anch’io a casa” (n.d.r.: un enorme ragno nero distribuito da Ikea 3-4 anni fa), ma alla fine NESSUNO si ricorda dove gli era stato comprato
per non avere dubbi sul mio stato di salute mentale, la prima cosa che faccio quando guardo uno spettacolo per l’infanzia creato da miei colleghi è cercare gli oggetti Ikea in scena: ne trovo sempre di più di ogni ragionevole sospetto
scusate se mi intrometto ma vorrei ricordare come in un mio fortunato pamphlet, “‘I kea, you kean’t, ”
citavo le virtù della casa auto mobilistica svedese
https://www.nazioneindiana.com/2007/01/12/dal-manifesto-comunismo-dandy/
Il gatto del comunista dandy.
Generalmente il comunista dandy comincia con un minimo di uno – il che gli assicura lo status di gattista a un massimo di quattro. Pur ignorando l’ispirazione che portò uno dei più brillanti compositori italiani a scrivere la canzone quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due, egli sa bene che quei due, per il loro trovarsi fuori dai ranghi, sono proprio gatti comunisti dandy. Al wiskas, di vago sentore alcolico, e al kit kat meccanicamente post fordista, il GCD preferisce Sheba che fa esotico e avventuriero allo stesso tempo. Pur detestando la compagnia di altri gatti che non siano quelli della propria tribù manifesta non di meno una certa curiosità che può in taluni casi trasformarsi in vera storia d’amore. L’entrata in calore del GCD coincide con la sua uscita di casa essendo all’interno della modesta abitazione, lo spazio ridotto e il bisogno di calma decisamente necessario alla creazione di un’opera come il manifesto. Le poltrone preferite dai GDC restano comunque quelle acquistate da Ikea, essendo portatrici di vago e ondivago tono socialdemocratico nonché dotate di spigoli assai potenti come ben sa chiunque voglia cambiare la seduta (il suo tessuto) con una nuova.
Io invece sono due anni che da Ikea esco a mani vuote. Prima era ròbba da froci. Adesso robetta per famigliole la domenica gitanti. Orrore. Però mangio sempre le polpettine. E l’English Breakfast.
Sia chiaro, perché a voi non sempre funzionano i neuroni. Prima era una favola. Adesso ròbba da fanatici sfigati.
chiaro che IKea è stata un’idea geniale. Chiaro che, come tutte le idee geniali, ha avuto successo.
Non stiamo parlando di un libro di nessun valore artistico che scala le classifiche o di un CD di Laura Pausini.
Stiamo parlando di una multinazionale che ha inventato un modo nuovo di vendere mobili e non solo.