Wow!- Howard Jacobson
Da qualche tempo una ossessione abita le mie riflessioni sulla letteratura e sugli autori. Certo, lo stile, i personaggi, le storie, il senso ultimo di una creazione letteraria e la lingua che i pensieri parleranno, ritengo siano questioni imprescindibili per chiunque tentasse di penetrare il mistero della scrittura. Ma quando leggo un libro, dalle prime frasi che esplodono all’apertura delle pagine, la prima cosa che cerco è la voce. Si badi bene, non la voce del romanziere che “dice”, racconta la storia che si sta per leggere, no, o almeno non necessariamente. A me interessa sentirlo parlare, magari cazzeggiare o leggere l’elenco delle cose da comprare al supermercato, una dichiarazione d’amore. Perché nella voce di un autore si trova la terra, il background, l’indicibile luogo d’origine delle storie, la materia informe da cui si liberano i fumi del rècit. Ecco perché la prima cosa che ho fatto, quando ho avuto tra le mani Kalooki Nights, è stata di andarmi a cercare la voce del suo autore: Howard Jacobson
Si tratta di un’intervista alla BBC in cui Jacobson si interroga sui flussi di esperienza che legano i personaggi alla vita dell’autore. Ci sono considerazioni che vale la pena ascoltare, difficili da non condividere soprattutto alla luce dei recenti, annosi dibattiti in Italia su realismo e antirealismo in letteratura. Come dicevo prima, però, la mia attenzione si è concentrata sulla lingua, sul tono della voce dello scrittore, sul suo incedere inarrestabile e sulle pause “teatrali”, ad effetto. Una voce che per gradi ma sempre in modo inaspettato e sorprendente ti accompagna passo dopo passo in tanti piccoli mondi, storie che hai come l’impressione di sentire per la prima volta, nonostante si parli di madame Bovary o di Dickens.
L’ossessione di Jacobson? I personaggi. Alla fine del libro di 560 pagine – l’aggettivo voluminoso mi sembra mai come in questo caso appropriato – non troviamo i soliti ringraziamenti ma l’elenco dei characters. Ne conto ben 50. Cinquanta nomi (e cognomi) spesso realmente esistiti, il più delle volte di fantasia. Nell’intervista che vi ho linkato lo scrittore insiste sull’importanza dei nomi da dare ai propri personaggi. All’elenco, dimenticavo mancano, ovviamente tutti gli altri nomi, in primis dei protagonisti, Max Glickman, fumettista e io narrante della storia e Manny Washinsky, autore di un duplice omicidio, pretesto dell’intera narrazione.
Il vero titolo di Kalooki è probabilmente quello dell’opera cui il fumettista ha dedicato tutte le sue energie e che gli è costato tra gli altri, il fraintendimento della sua comunità, di ebreo d’Inghilterra, Cinquemila anni di amarezza.
Eravamo tutti fottuti. Ci sono cinquanta capitoli sull’argomento in Cinquemila anni di amarezza– il cui sottotitolo è Come gli ebrei sono stati fottuti nel corso dei secoli– uno per ogni cento anni di fregature. Lo so, non dovrei essere io a dirlo, ma non è un’impresa da poco: raccontare una cosa del genere ricorrendo esclusivamente al disegno, senza avvalersi delle nobilitanti grazie della prosa. Solo immagini: una serie ininterrotta di inculate, una tavola dopo l’altra. Comprese le autoinculate, anche se queste ultime per lo più le stavo volutamente tenendo in serbo per un altro volume.
Lo sguardo che Jacobson porta sulle cose raccontate nel libro si avvale di una coralità di voci e lingue, impressionante. (Impressionante e riuscito il lavoro della traduttrice Milena Zemira Ciccimarra) Un susseguirsi di ambienti, situazioni, provocazioni lungo tutta una narrazione che non solo travolge il lettore ma anche ogni tentativo di riduzione della storia a un plot. Sicuramente centrale è la storia d’amore del protagonista – almeno una- con Zoë. Lo è almeno per una ragione. Jacobson riesce con il suo doppio registro, comico e tragico, a interrogarsi sul concetto stesso di diversità, quella generale di uomo e donna, e quella specifica del suo personaggio di ebreo con una non ebrea. A proposito di questa mixité, valore su cui vale la pena interrogarsi anche in Italia, il romanzo mi ha fatto pensare a Sammy and Rosie Get Laid (1987) di Stephen Frears ( sceneggiatura di Hanif Kureishi), film in cui un ragazzo pakistano e una ragazza inglese si trovano a vivere tutte le contraddizioni e difficoltà che si incontrano quando si appartiene a storie e comunità differenti. Così Jacobson fa dire a Max:
Mi diede un colpetto da sopra le coperte. «Perché devi sempre fare così, Max? Perché non lasci mai che qualcuno dica una storiella in santa pace?».
Davvero lo facevo sempre? Non me n’ero mai accorto. «Va bene, raccontami la tua storiella» dissi.
«Ora non posso».
«Sì che puoi. Avanti».
Si levò a sedere sul letto, ben sapendo che la vista dei suoi meravigliosi seni a forma di granata perfettamente bilanciati aveva sempre avuto su di me un effetto tranquillizzante.
Erano di un tenue colore dorato, simile a burro fuso; e i capezzoli avevano un contorno preciso, che li distingueva nettamente dall’aureola: arrivavano fin qui e non oltre. Io e Zoë avremmo anche potuto venire da due pianeti differenti, tanto eravamo diversi fisicamente. I miei arti e le mie membra si combinavano senza impedimenti, ogni curva trovava il suo prolungamento nella successiva, ogni tonalità digradava in un’altra. Zoë invece no: tra ciascuna parte del suo corpo e quella adiacente non c’era nessuna continuità. Dovevano esser venute al mondo una dopo l’altra, una dopo l’altra e singolarmente.
Era lo stesso con frasi e parole. Niente veniva considerato già detto. Doveva sempre ricominciare dal principio.
«Sai quanti ebrei entrano in un Maggiolino Volkswagen?» mi domandò.
Fui tentato di rispondere esattamente come prima. Nemmeno uno. Nessun ebreo entrerebbe mai in un Maggiolino. Ma sapevo stare allo scherzo io, non mi piaceva rovinare le barzellette spassose; e inoltre la povera Zoë aveva già terribilmente sofferto per mano del popolo ebraico. «Non lo so»
dissi. «Quanti?».
«Millequattro. Due davanti, due dietro e mille nel portacenere».
Immagino che un negazionista l’avrebbe trovata divertente.
O forse l’avrebbe interpretata – anche se veniva da una donna gentile istupidita dagli ebrei – come un altro esempio della tendenza del popolo ebraico a gonfiare le cifre? «Dopo aver svolto accurate ricerche, ci sentiamo di escludere nella maniera più categorica l’ipotesi che sia possibile fare entrare mille ebrei, o persino un quarto di tale numero, per quanto passivo sia il loro atteggiamento, nel portacenere di una Volkswagen».
Dunque siamo un popolo smodato, esageratamente enfatico e con un’esasperata propensione all’eccesso. E allora? Sapete come lo chiamo io questo? Attribuire a se stessi il giusto valore. Voi ci punzecchiate e noi sanguiniamo a profusione. Voi ci appiccate il fuoco e noi bruciamo ben bene per voi. Almeno, però, non fate finta che siamo andati a inventarci le fiamme che ci consumano.”
Un romanzo dicevo che mescola continuamente le carte in tavola, talvolta bara, esagera, e nella diversità dei registri usati emerge una energia che fa pensare più alla vita che alla letteratura. Un misto di dissacrante e tenero, di disinibito e pudico, come quando all’inizio del libro Max Glickman racconta la sua iniziazione alla Shoah.
Eppure, in mezzo all’erba alta del giardino, non mi feci alcuno scrupolo a farmi iniziare da lui alla versione illustrata del Flagello della svastica. Deve aver fatto un buon lavoro, perché non soltanto ricordo nel dettaglio tutte le fotografie, ma riesco addirittura a rammentare l’ordine nel quale le vidi…
I corpi carbonizzati ritrovati nella chiesa di Oradour.
Il massacro di Autun.
Il villaggio di Lidice, immerso nella calma quiete della neve, simile a un paesaggio invernale di Brueghel.
E poi Lidice dopo la strage, con gli edifici sventrati, i corpi allineati supini dappertutto, come scolari stesi sul pavimento della palestra, in attesa del permesso di rialzarsi.
La foto di un’esecuzione di massa rinvenuta addosso a un prigioniero tedesco.
Birkenau prima della costruzione del crematorio, i corpi nudi che fumavano nelle fosse.
Patrioti impiccati a Tulle, di fronte a ufficiali tedeschi che sorridono.
Arbeit Macht Frei– il cancello d’ingresso ad Auschwitz.
Un forno crematorio a Buchenwald, con un teschio carbonizzato al suo interno.
Le membra sfigurate delle cavie umane ad Auschwitz.
I mucchi di arti artificiali sottratti alle vittime delle camere a gas.
Ilse Koch. Ilse Koch, moglie del comandante di Buchenwald, che dopo la sua cattura non appariva più così attraente come prima (giudizio, questo, formulato con il senno di poi).
In basso, un paio di teste rimpicciolite che si dice avesse commissionato per la sua collezione.
La patente di guida di Josef Kramer.
La confessione di Rudolf Hess: «Ho organizzato personalmente, in base agli ordini ricevuti da Himmler nel maggio del 1941, l’uccisione di due milioni di persone nelle camere a gas…».
Una fossa comune a Belsen – i cadaveri quasi belli nella loro astrattezza, sempre che la mente abbia il coraggio di astrarsi di fronte a una simile vista.
Un soldato britannico con un fazzoletto premuto sul naso, mentre rimuove con un bulldozer tutte quelle astrazioni per sgomberare il campo.
Un carico di cadaveri a Buchenwald: stivali, piedi, volti, fonte d’ispirazione di Philip Guston per i suoi folli disegni cartoonistici di ignominia e morte (vedete, persino in un luogo del genere c’è spazio per la grande arte del fumetto).
E per concludere, una delle immagini più celebri e vergognose, quella che fissammo più a lungo: le donne ebree nude che sfilano per la visita medica correndo nel cortile della prigione, mentre le guardie tedesche, alcune con le mani nelle tasche dell’uniforme, stanno a guardare. La prima volta che ho visto, Dio mi perdoni, del pelo pubico in un libro.
Se non sbaglio, quest’ultima foto è tra quelle per le quali gli ebrei ortodossi in Israele, seguendo l’esempio precursore dei genitori di Manny Washinsky, hanno richiesto che venisse proibita una pubblica diffusione. Che non venisse esposta da nessuna parte, nemmeno a scopi educativi, neppure allo Yad Vashem. È un oltraggio, sostengono, al pudore di quelle donne, affermando così in maniera implicita che il pudore è qualcosa che potrebbe sopravvivere alla morte. L’immortale pudore di una donna. Anch’io la penso così. Quella foto non dovrebbe essere mostrata a nessuno. Di certo non avrebbe dovuto essere mostrata a me, né a nessun ragazzo della mia età. Avrei preferito non vivere un tale risveglio. È vero, persino nelle famiglie più attente c’è la possibilità che un bambino si trovi a vedere più carne e ossa e peli del dovuto; ma la visione veloce e confusa di un istante non è la stessa cosa di una fotografia su cui ci si possa soffermare con lo sguardo per l’eternità. E fu un risveglio, senza dubbio, ancor più sgradevole, perché condivisi quell’esperienza con Errol Tobias.
Quali che fossero le nostre conoscenze in merito, sapevamo che non avremmo dovuto guardare. Perché c’era una cosa più sconvolgente di tutto il resto: la nostra consapevolezza del fatto che quelle donne erano pietrificate, e stavano probabilmente per subire tutti i tipi di degradazione che la fantasia di un ragazzo può figurarsi, delle quali la morte era forse la più mite.
E se pensate che questo sia indice di pazzia, avreste dovuto sentire quel che Errol aveva da raccontarmi di Buchenwald ai tempi di Ilse Koch, la collezionista di uomini
rimpiccioliti.
Se intendo dire teste rimpicciolite?
Sì, anche quelle.
Oggi pomeriggio alle 18,30 Howard Jacobson sarà a Roma, alla libreria dell’Auditorium . Se volete ascoltare la voce…
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Grazie Effeffe.
Il primo saggio che acquistai, mi pare nel 1961, fu proprio “Il flagello della svastica” di Sir Russell, edito da Feltrinelli.
Dopo venne la “Storia del terzo Reich” di William Shirer, pubblicato dall’Einaudi – una fatica! – ma serviva per contrastare le tesi del professore di filosofia. Che era nazista.
c’è una cosa, marginale, già nota.
Che la fotografia ruba il tempo.
Non lo ferma (anche le foto sbiadiscono, anche la milionesima riproduzione digitale di quella foto un giorno non sarà più visibile) ma lo rende vischioso, lento. E in quella lentezza si aggrumano, vivi finché vive la fotografia, lo stesso patire, la stessa vergona.
Non conoscevo H. Jacobson, ma mi sa che comprerò questo suo romanzo (magari sotto Natale, con le tasche più piene). E malgrado certa sua sofferta leggerezza, che mi fa pensare a W. Allen. Bella la descrizione fisica di Zoe, con la discontinuità tra le parti adiacenti del suo corpo. C’è stoffa (oltreché voce). Se un romanzo, quand’è riuscito, risponde a una necessità sociale, questo compie indubbiamente a questo requisito
Lo sto leggendo: un’autentica rivelazione. Un ‘ironia crudele e miracolosa, con profondità abissali.
Ho fatto una ricerca, non lo trovo tradotto in francese.
La mia curiosità è svegliata: non conosco lo scrittore.
La voce nella scrittura è come un sorgente interiore.
Nella voce vive tutta la storia familiare, fatta di accento,
di tono, di frattura, di esilio, di vincolo con la terra.
Ascoltando una voce, si sente quasi il paesaggio di nascita,
si tocca l’albero, il fiume, il vento.
A volte la voce si allontana della terra, prende l’orrizonte, prende il mare. Ci sono voci di terra o di mare.
Ma c’è sempre una tradizione nella voce: è la voce di un popolo, di un paese.
Anche nella voce della scrittura si racconta la ferita della vita; la scrittura riprende il canto della ferita.
Il canto teso dell’infanzia è la ricerca nostalgica del scrittore.
Quando si scrive, il corpo si fa tutta respiro.
Ci sono voci smozzicate, fragile, ampie…
Una voce mi ha sempre commossa: la voce di François Mauriac. E’ una voce che porta il suo mondo, che conosco bene, dal lato materno, una voce che parla del mare, del pino atlantico, della terra alla margine del sabbia, il tono della terra con vite.
L’ironia da cui parla Macondo è forse il sorgente della tradizione ebraica: la parola ironica accompagna, protegge.
sai verò sto preparando una cosa sulla voce di camus. è davvero incredibile come le voci possano suggerire una faccia.
effeffe
@mordecaj
poi però me lo scrivi il tuo “bilancio di lettura”!
effeffe
@macondo
pensa che con te accetterei perfino la scommessa made in Serino, soddisfatti o rimborsati!!
effeffe
Immagino che la voce di Camus porta in esilio la terra natale, il riflesso del sole, l’asperità della pietra, la lentezza del nuvole in deserto, il respiro del vento, l’infinito del mezzogiorno.
Immagino una voce nomade…
@ effeffe
Peccato che qui manchino le emoticons, sennò due occhi sgranati te li indirizzerei proprio. Non sopravvalutare la mia masscult…
soldato
come va?
effeffe
@ flaviano et aux autres
a proposito del “il pudore è qualcosa che potrebbe sopravvivere alla morte.
mi è appena venuto in mente il finale del Processo, di Kafka, vi ricordate?
« “Come un cane!” disse, fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli »
effeffe
Non volevo intervenire prima di poter dire qualcosa sul libro.
Che ho acquistato oggi.
Intanto posso correggere il nome dell’autore del “Flagello della svastica”,
uno dei miei libri dispersi.
Infatti è Lord non Sir.
Grazie, effeffe.
Io mi sono fermato alla frase iniziale, a quell’ “abitare” (“un’ossessione abita le mie riflessioni”) che è ai primi posti del mio personale dizionario idiosincratico della lingua italiana. Mi fa lo stesso effetto che fece ad Alfieri il “conciossiacosaché” del Galateo. Magari mi son perso qualcosa.
Io non l’ho nemmeno notato quell'”abitare”.
Sarò cieco o cafone?
Non potresti fare l’architetto, Sergio, essendo, l’abitare, il tema della disciplina.
Cioran disait : « On n’habite pas un pays mais une langue »
Le fait d’être habité par une nostalgie incompréhensible serait tout de même le signe qu’il y a un ailleurs. (Ionesco)
effeffe
Dice Véronique: “Ci sono voci di terra o di mare.”
Sino a una decina d’anni fa – ora non mi riesce più, con la nuova poesia – non sapendo spiegare le mie preferenze, le mie passioni, dividevo i poeti
in poeti che “abitano il mare” e poeti che “abitano la terra”.
Naturalmente non esisteva nessuno “luogo” di questo tipo.
Ero cosciente però che significava soltanto che i “miei” poeti abitavano il mare e quelli che invece non mi piacevano abitavano la terra.
Sono ancora sicuro che, se dovessi essere costretto a spiegare il mio disincanto attuale, non potrei fare a meno di dire che l’attuale poesia raramente “abita”.
E che per questo trovo molte difficoltà nel riuscire a capire dove oggi “abito” io.
Rifiutare questa parola, non solo impedisce di costruire case, ma significa anche rifiutare il ponte tra linguaggio e mito.
Tra il caos assoluto del mondo dove viviamo – dove impazziremmo in pochi istanti senza l’altro – e il “Mondo abitato” che ci preserva dalla follia dell’adesso.
Quanto poi tutto questo abbia e abbia avuto importanza lo si può dedurre da quello che dicono Giorgio de Santillana e Herta von Dechend nel “Mulino d’Amleto” a proposito del nome di “mondo abitato “:
“non indicava in nessun modo per gli antichi il nostro globo terrestre. Esso è dato alla fascia dello zodiaco, che occupa circa ventiquattro gradi a destra e a sinistra dell’eclittica, al percorso dei “veri abitanti” di quel mondo, i pianeti. Essa comprende tutte le oscillazioni e i ghirigori che i pianeti ricamano sulla loro rotta, nonché il *drago*, ben noto fin da tempi molto antichi, che causa le eclissi ingoiando il sole e la luna.”
“On n’habite pas un pays, mais une langue”: bellissima parola.
Ma penso che la lingua è fatta dal paesaggio.
La lingua raccoglie un lembo della terra, del suo colore, della sua sostanza. La lingua natale vola dentro noi, accompagna il nostro esilio.
Quelli che hanno sperduto la terra, l’abitano nel paese della lingua natale, nella resistanza a dire la luminosità della terra di nascita.
Bellissimo anche le parole di Soldato Blu.
la mia personale idiosincrasia verso l’espressione “abitare un’ossessione”, e più in generale verso l’associazione di quel verbo a dei sostantivi apparentemente incongrui (“abitare una soglia” ecc.), dipende dal fatto che la considero uno stilema abusato, talmente consunto da essere ormai privo di senso. ai miei occhi è “poetese”, ossia il tentativo di nobilitare il proprio discorso con l’inserzione di qualche parola dal tono lirico. non era un attacco personale a francesco, tant’è che la scrissi paro paro 5 anni fa in relazione a degli scritti di emanuele trevi e di altri, come si evince da questo link:
http://groups.google.com/group/it.cultura.libri/browse_thread/thread/b8a11a9e794edd45?ie=UTF-8&oe=UTF
8&q=abitare+un%27ossessione+group:it.cultura.libri
per fare un parallelo che spieghi meglio questa mia allergia, “abitare un’ossessione” mi ricorda molto l’aggettivo “irredimibile”, che usò una volta gadda e che ora si trova dappertutto, spesso, per es., nelle recensioni di un critico che stimo e che leggo con attenzione come linnio accorroni. in gadda, ai suoi tempi e col suo particolarissimo stile, per me aveva un senso, oggi e in altri contesti mi pare gratuita e anacronistica. stesso discorso per l’esempio di cioran. ad ogni modo questa mia allergia non pretende di essere condivisa, e l’ho scritta anche come memento personale, perché è una tentazione che sento anche mia e alla quale forse in passato qualche volta ho ceduto.
caro sergio tu lo sai – ma vale la pena ribadirlo- che le tue note “inattuali” per quanto non sempre condivisibili sono , qui e altrove più che necessarie.
effeffe
…del resto per me rimane un mistero la tua decisione di non abitare più questa casa (Nazione Indiana)
effeffe
Abitare un’ossessione; in francese “une obsession me hante”. Mi sembra che il francese svela la parte incantata dell’ossessione: la mente diventa fantasma. E’ una verità osservata nell’ossessione amorosa.
Abitare un ossessione mi sembra più equilibrato.
L’inizio del brano di effeffe entra nella sua sperienza di lettore. Parla in amico, non forse come uno scrittore questa volta.
Amo ascoltare la sua voce di scrittore, ma anche la sua voce di amico.
se posso – ché dire cose colte è ormai rischioso qui e ovunque – e proprio per questo ben venga farlo per dispetto e per contrapposizione (in spite of) alla volgarità e al basso volo – questo abitare che ha soggetti inconsistenti e luoghi metaforici di residenza – lo trovo affatto fastidioso ma anzi molto classico – c’ è di molto più fastidioso: un testo dove ci sono 770 punti su 3867 parole – o certi giochetti di scambio consonantico molto in voga – o la parolaccia messa d’ordinanza a cadenze regolari
non c’è momento come questo che si è abitati da una folla di cose astratte e con frequentativa insistenza
questo abitare riporta ad una lingua che batte sotto l’attuale in silenzio, strisciante ancora, concreta e stringata ma non meno poetica:
(l’antro del Sonno)
Ovidio
Metamorfosi
[ libro XI, vv. 602- 604]
,\\’
Dopo “abitare”, “irredimibile”.
Così Sergio Garufi.
“mi ricorda molto l’aggettivo “irredimibile”, che usò una volta gadda e che ora si trova dappertutto, spesso, per es., nelle recensioni di un critico che stimo e che leggo con attenzione come linnio accorroni. in gadda, ai suoi tempi e col suo particolarissimo stile, per me aveva un senso, oggi e in altri contesti mi pare gratuita e anacronistica”.
Così io, in un mio racconto (non si perda mai un’occasione per mettersi in mostra).
“[…] fu sempre e solo Gio’condo. A causa di un altro episodio, questa volta avvenuto in pubblico, e in questo nome cosí perfettamente specchiato, da essere subito accolto da tutti, in quasi piena e immediata unanimità.
Stava passando, quel giorno, per l’affollata piazza al centro del paese, davanti a tre giovani molto piú grandi di lui seduti sullo zoccolo di una striminzita aiuola, quando uno di questi, dopo aver trasferito con un gesto tipico tutto il prodotto catarroso delle sue vie respiratorie, attraverso il naso, nello spazio delimitato dalla congiunzione dell’indice col pollice della mano destra, glielo scagliò diritto in faccia.
Colpendolo vischiosamente tra la bocca e il naso.
Sopra la bocca e sotto il naso.
Dove in genere si portano i baffi.
Lui non seppe fare altro che un affrettato gesto di pulizia, mentre quelli lo schernivano. Rinunciando ad altre reazioni che per la rabbia e l’umiliazione non potevano essere che di tipo fisico, presentandosi l’invettiva come debole compromesso, oltre che di scarsa soddisfazione.
Un’aggressione dunque, ma alla quale dovette rinunciare nella certezza che, dato il numero e la maggior mole degli avversari, non si sarebbe potuta risolvere se non in un altro danno, fisico questa volta, dopo quello morale già patito.
L’espressione di irredimibile stupore che gli si trovò stampata sul viso, venne scambiata da allora in poi, sempre, per una specie di incurabile gaiezza, inscalfibile per quanto efficaci strumenti la realtà si fosse data in seguito la pena di approntare.
Bell’articolo. Ho letto “Kalooki nights” ad ottobre, mi ha lasciata esterrefatta. Un romanzo che va a fondo, che contiene in sé tantissime cose diverse. Un capolavoro assoluto.