La vera natura dei personaggi romanzeschi. Appunti sul romanzo storico [1 di 2]
di Leonardo Colombati
1.
Ombre in cammino
In un gelido pomeriggio invernale del 1841 una folla si radunò al porto di New York per chiedere ansiosamente ai passeggeri di una nave proveniente da Londra se una certa Nelly fosse morta. In America non era ancora stata pubblicata l’ultima puntata del feuilleton La bottega dell’antiquario di Dickens e il pubblico fremeva per le sorti della patetica orfanella. Il fatto che Nell Tent non fosse una creatura in carne ed ossa, ovviamente non importava un fico secco ai lettori del «Master Humphrey’s Clock», la rivista che Dickens dirigeva, scriveva, stampava e su cui pubblicava le sue storie straordinarie. Che importa, del resto, se Jean Valjean, Fabrizio Del Dongo, Anna Karenina e Tom Jones non sono realmente esistiti? [1]
Allo stesso modo, non aggiunge un’oncia al piacere di leggere Casa desolata sapere che dietro Skimpole si nasconde il poeta e saggista Leigh Hunt, che Hortense è ricalcata sul modello dell’assassina svizzera Maria Manning e che Esther rassomiglia alla cugina di Dickens, Georgina Hogart. Dopotutto, la letteratura – questa cosa di cui non so fare a meno e per cui sono disposto persino a soffrire – è «nient’altro che Arte e meccanismo, nient’altro che cartapesta e ingranaggi!» [2]. Apriamo un libro e per qualche minuto dobbiamo abituarci a quella vaga sensazione che per povertà di linguaggio chiamiamo noia: il tempo allo stato puro, non diluito, con tutto il suo inutile, monotono splendore. In questo stato di piacevole disagio, ecco che voltando una pagina ci imbattiamo nel miracolo della transustanziazione in sangue e carne di un misero gruppo di lettere. James Gatz, ad esempio – il figlio di poveri contadini che cambiò il suo nome in Jay Gatsby e a Long Island vinse il cuore della bellissima Daisy Buchanan – viene evocato per la prima volta a pagina due del romanzo che racconta la parabola del suo sogno americano: «Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti riusciti, allora c’era in lui qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita» [3], scrive Fitzgerald del suo eroe, che fa apparire finalmente al termine del primo capitolo:
La sagoma di un gatto oscillò nella luce lunare, e voltando il capo per guardarlo mi accorsi che non ero solo: ad una ventina di passi una figura era sorta dall’ombra del palazzo del mio vicino fermandosi in piedi, con le mani in tasca, a guardare i granelli argentei delle stelle. Qualcosa nei movimenti disinvolti e nella salda presa dei piedi sul prato mi fece capire che quello era il signor Gatsby, uscito a verificare quale fosse la porzione del cielo locale che gli spettava. (…) [Poi,] senza volerlo diedi un’occhiata al mare (…). Quando tornai a guardare nel-la direzione di Gatsby, questi era scomparso, e io ero di nuovo solo nell’oscurità completa. [4]
È un lampo, ma non lo dimenticheremo più.
Difficile smentire il fatto che di Don Chisciotte, Madame Bovary e Anna Karenina ci ricordiamo soprattutto di Don Chisciotte, di Emma Bovary e di Anna Karenina. E può sembrare blasfemo, ma la verità è che questi personaggi sono pura tesatura verbale, esistono solo all’interno di pagine formate da uno schieramento ben preciso di parole.
Facciamo l’esempio massimo, Shakespeare, l’uomo che avendo inventato Falstaff, Shylock, Iago, Lear e Macbeth, ha inventato anche noi lettori: noi che da cinque secoli desideriamo come Romeo, impazziamo d’amore come Otello e trasformiamo in tanti Amleti i nostri enigmi. Quando diciamo che quelle di Shakespeare sono le Scritture secolari e lo paragoniamo – bestemmiando – a Dio, non facciamo altro che rendere omaggio al creatore di simili miracoli drammatici così come glorifichiamo il Creatore dell’Universo; colui che «disse: “Sia la luce!”. E la luce fu». Siamo nati da un atto di parola, allo stesso modo in cui gli uomini e le donne di Shakespeare prendono vita dalla sua “voce”, sono il frutto di un insuperabile ordine d’immagini e di retorica. Più di ogni altro intelletto umano di cui abbiamo notizie adeguate, Shakespeare usò la lingua in una condizione di possibilità totale. Prima di Amleto – dietro di lui – c’è il Nulla: il principe di Danimarca esiste solo all’interno di una concatenazione unica di vocali e consonanti.
Ora, sappiamo bene come Shakespeare attinse la massima parte degli argomenti dei suoi drammi storici da The Second Booke of the Historiae of England, un librone dello storico londinese Raphael Holinshed. Ma chi si ricorda del re Macbeth di Scozia che visse intorno all’anno 1000 e si chiamava in realtà Mac Bethad mac Findlaích? Egli incarnò il potere nel particolare momento che gli assegnò la storia; ma divenne l’archetipo universale del tradimento e di ciò che un uomo è spinto a compiere per la brama del potere solo quando il pubblico a teatro gli sentì recitare:
la vita non è altro che un’ombra in cammino; un povero attore che s’agita e pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato. [5]
2.
Commedie umane
Sbaglierebbe chi pensasse che un personaggio d’invenzione funziona semplicemente se sembra reale. Prendiamo Balzac, l’uomo che organizzò in una gigantesca commedia le scene della vita di Parigi; Baudelaire giustamente si meravigliava che si parlasse di lui come di un osservatore:
tutte le sue finzioni hanno l’intensa colorazione dei sogni. Dal sommo dell’aristocrazia alla ple-be, tutti gli attori della sua Commedia sono più avidi di vita, più attivi e scaltri nel-la lotta […], più ingordi nel piacere, più angelici nell’abnegazione, di quanto ce li faccia appari-re la commedia del mondo vero. In Balzac, insomma, tutti, persino le portinaie, sono geniali; tutte le anime sono sovraccariche di volontà. [6]
Se ci potessimo liberare da tutti gli accidenti che rivestono quella nuda idea di noi stessi che ci visita dopo il bicchiere d’acqua, appena spenta la luce, tormentandoci fin dentro il sonno, dovremmo ammettere il fatto che noi siamo unicamente volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci spinge a vivere e a agire. Schopenhauer attribuiva a questa nostra voluntas la colpa della nostra sofferenza e ci proponeva tre rimedi: l’arte, l’etica della pietà e l’ascesi. La prima, benché sia una soluzione temporanea, è l’unica che mi convinca: ci conforta perché la nostra volontà è anestetizzata e possiamo non partecipare alla vita, ma osservarla soltanto.
Così come il cinema, la letteratura è la vita senza le parti noiose (a meno che i frastagliati pensieri di Molly Bloom e l’estenuante attesa del bacio della buonanotte del piccolo Marcel non siano giudicati tali). La nostra esistenza è per massima parte indegna di essere replicata sulla pagina nei suoi minimi dettagli. Quando dormiamo, ad esempio, sogniamo. Ma solo nei libri ci ricordiamo sempre dei sogni che abbiamo fatto durante la notte.
Anche la morte non sfugge a questa regola. Ivan Il’ič e papà Goriot spirano entrambi dopo aver allungato un oh! in un grido finale che si chiude come il coperchio di un sarcofago, ma che al tempo stesso illumina l’intera esistenza dotandola finalmente di un senso. «Laggiù, in fondo, brillò qualcosa» [7], quando l’urlo del consigliere della Corte d’Appello si spense e lasciò spazio al perdono. E pure il personaggio balzacchiano, nell’istante finale, si direbbe investito da una luce che lo pone, per la prima volta nel romanzo, in una posizione separata rispetto alla meschinità dell’ambiente che lo circonda. In Balzac la morte, è vero, si naturalizza, e l’essere umano si abbassa fino al suo stato organico e bestiale; ma la crudeltà rappresentativa della descrizione delle sanguisughe e delle lenzuola sporche di papà Goriot non riesce a impedire che la sua morte risulti significativa.
Il buon uomo fece un gesto come per cercare qualcosa sul petto, e mandò delle grida lamentevo-li e inarticolate come fanno gli animali che vogliono esprimere un gran dolore […]. «Oh! Oh!» disse Bianchon, «cerca una piccola treccia di capelli e un medaglione che gli abbiamo tolto dianzi per mettergli i moxa. Pover’uomo! bisogna rimetterglielo». Eugenio andò a prendere una treccia di capelli biondo cenere, quelli senza dubbio della signora Goriot, e lesse da una parte del medaglione: Anastasia, e dall’altra Delfina, ricordo del suo cuore, che posava sempre su di esso. Quando il medaglione toccò il suo petto, il vecchio fece un oh! prolungato, che indicò una soddisfazione spaventevole a vedersi. [8]
Fino all’ultimo respiro, il padre crede nei buoni sentimenti di quelle sue figlie che nel frattempo continuano a riempirsi di debiti e di amanti; si guardano bene di avvicinarsi al capezzale del vecchio e non si presentano nemmeno al cimitero: «Alle sei, la salma di papà Goriot fu calata nella fossa, attorno alla quale stavano i servi delle figlie, che scomparirono ben presto con il prete non appena fu detta la breve prece» [9]. Anastasia e Delfina, le pompe del cuore paterno, sono due nomi incisi sul metallo, le carrozze vuote coi blasoni dei mariti che seguono il feretro fino ai cancelli del Père Lachaise. Una messinscena spettacolare da parte del campione del realismo: ma senza la mano che cerca il medaglione, senza quelle carrozze vuote, la morte di papà Goriot non ci commuoverebbe.
Baudelaire, che aveva capito bene quanto fosse immeritata la fama di cronachista di Balzac, gli si rivolgeva così: «Voi, il più poetico dei personaggi che avete inventato». E, in effetti, anche nel momento della sua stessa morte, Balzac testimoniò addirittura come in realtà è la vita che imita l’arte. Ormai cieco, disteso su un grande letto, si sottopose con rassegnazione a purganti e salassi e dettò un’ultima lettera per Gautier, dove gli confessava di non poter più scrivere. Il medico ordinò di riempire la stanza di una soluzione d’acqua fenica mentre il moribondo pronunciava le sue ultime parole: «Solo Bianchon mi potrebbe capire». È il giovane medico che aveva assistito papà Goriot nell’agonia, il solo ad accompagnarne il feretro al cimitero di Père Lachaise. Anche Balzac è sepolto lì. Proust commentò che il destino di un personaggio aveva precorso il destino di uomo.
3.
Historiae
Se non è vero che per dar vita a un personaggio immaginario basta ricopiarlo dalla realtà, ne discende che quando in un romanzo s’introduce un personaggio realmente esistito questi deve soggiacere alle stesse regole che si seguono per animare i fantasmi letterari. [10] Nella Poetica Aristotele proclamava la superiorità della poesia sulla storia, argomentando che la vera differenza è che la storia descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è «qualcosa di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare» [11].
Manzoni, nel suo saggio Del romanzo storico e, in generale, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione sembra vedere la cosa allo stesso modo, ma come da un cannocchiale rovesciato. Secondo lui il discorso storico è «una carta geografica, dove sono segnate le catene dei monti, i fiumi, le città, i borghi, le strade maestre d’una vaste regione» [12], mentre il romanzo storico «è una carta topografica, nella quale, e tutto questo è particolarizzato (…), e ci son di più segnate anche le alture minori, e le disuguaglianze ancor meno sensibili del terreno, e i borri, le gore, i villaggi, le case isolate, le viottole» [13].
Se si vogliono prendere per buoni Aristotele e Manzoni, si può sintetizzare che quando racconta la storia, il romanzo spesso lo fa illuminandone gli accidenti marginali, e non di rado, così operando, insuffla in lei lo spirito dell’immortalità. Lo scopo del romanzo storico – secondo la lezione di György Lukács – sarebbe dunque quello di dimostrare con mezzi poetici le circostanze storiche e far diventare la storia un modello assoluto.
Ma la domanda è: ci possiamo fidare della mappa tracciata da quei cartografi arruffoni che sono gli scrittori? [14] Tanto per iniziare, appunto, ab ovo, possiamo ricordare Walter Scott, che amava presentarsi ai suoi lettori come il conducente «onesto» di una «corriera inglese». Il suo romanzo storico, per la verità, era fin troppo immerso nel pantano del pittoresco e del romantico e, malgrado lui giurasse il contrario, era lecito porsi qualche domanda sull’affidabilità dei suoi cavalli. Lo stesso Manzoni, nella sua Lettre a M. Chauvet distingue tra “vero storico” e “vero poetico”, auspicando per quest’ultimo non la verità ma la verosimiglianza.
Gli scrittori, è noto, sono tutti dei gran bari. Ma cosa dobbiamo fare? Non possiamo non fidarci di loro se per qualche ora riescono nel miracolo di sospendere la nostra incredulità. Alcuni di loro hanno tali capacità stregonesche da convincerci del fatto che sia esistito in un paese della Mancia un cavaliere che sfidava i mulini a duello oppure che in un’estate, a Pietroburgo, uno studente assassinò un’usuraia per emulare Napoleone. Del resto, in base alla nostra comune esperienza, è più credibile la storia di Giuseppe e Anita Garibaldi o quella di Lady Chatterley e del suo povero marito paralizzato?
Presso gli antichi, nessuno che non fosse stato testimone diretto dei fatti scriveva storia. Il resoconto fondato sull’autopsia – per così dire – era il solo modello di storiografia veridica. D’altro canto, quando girava per strada, Dante veniva additato come il reduce da un vero viaggio nell’aldilà. Fidatevi della storia, non di chi la racconta, suggeriva D.H. Lawrence. Alla fin fine, non importa se il narratore sia uno storico, un mistico, un poeta o un ciarlatano. L’unica cosa che conta è che sappia raccontare bene.
Non bisognerebbe dar credito alla teoria, ancora dominante, secondo cui nella storia del romanzo in principio vi fu il realismo, a metà il modernismo, coi sui rigori formalistici e i suoi flussi di coscienza, e alla fine il postmodernismo; e che, dunque, più innova, più il romanzo si allontana dal realismo. Non è proprio così. Pensate a Flaubert, lo scrittore che volle toccare la punta massima di fedeltà ai dati dell’esperienza. Dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, come nell’Educazione sentimenta-le, «ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c’è il vuoto, che tutto quel che succede non significa niente» [15].
Prendiamo, invece, come esempio di modernismo, Gregor Samsa, il commesso viaggiatore de La metamorfosi che vive in Charlottestrasse assieme alla sorella e ai genitori. A differenza di molti – forse tutti – io lo detesto, non ne ho alcuna compassione. Gregor Samsa è uno dei personaggi più realistici che la letteratura ci abbia mai regalato, malgrado una mattina, al risveglio, egli si scopra trasformato in un gigantesco insetto. Disteso sulla schiena «dura come una corazza», osserva «il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati», ed esclama «che cosa mi è capitato?» [16] È stato Nabokov – grande esperto di farfalle – a notare come Kafka abbia in realtà descritto un coleottero e che dunque sotto le elitre dovevano esserci delle piccole ali. Ecco, il realismo di Gregor Samsa sta nel fatto che non s’accorgerà mai di avere un paio d’ali. Non è questo, forse, il destino di tanti uomini?
4.
Esempi di realismo
Non ho mai capito esattamente cosa i critici intendano per realismo. Ma non ho dubbi sul fatto che la descrizione che Don DeLillo – un campione del postmodernismo – fa di Edgar J. Hoover nel suo romanzo Underworld sembra “presa dal vero”. È il 3 ottobre 1951 e il potente capo dell’FBI è al Polo Grounds di New York per assistere alla partita di baseball tra i Giants e i Dodgers assieme a Frank Sinatra e a Jackie Gleason. Hoover, scrive DeLillo,
ha l’aria di passarsela benone, e sorride delle grossolane facezie che rimbalzano nonstop dal cantante melodico al comico. Certo, preferirebbe essere all’ippodromo, ma questo tipo di com-pagnia lo tiene allegro in qualsiasi circostanza. Gli piace circondarsi di stelle del cinema e cele-brità dello sport, di maestri del pettegolezzo. (…) Fama e segretezza sono i due estremi della stessa fascinazione, il crepito elettrostatico di una certa libidine nel mondo. [17]
Hoover ci viene descritto «con il naso rincagnato e le sopracciglia ad ali di pipistrello» [18].
È suscettibile in fatto di statura, sebbene sia tranquillamente nella media. Negli ultimi anni ha messo su peso e ormai quando si veste davanti allo specchio, inquartato e con la testa da Bud-dha, è un uomo basso e rotondetto a restituirgli lo sguardo. [19]
Seguono altre approssimazioni, via via più stringenti. Hoover, ad esempio, «odia Harry Truman, gli piacerebbe vederlo contorcersi su un parquet, stroncato da un attacco di cuore» [20], e di tutte le persone che frequenta conserva la vita segreta «nei suoi schedari personali, con tanto di dicerie raccolte e catalogate, e fatti delatori trasformati in comprovate realtà» [21]. Un vero e proprio collezionista di spazzatura (in American tabloid, James Ellroy ce lo descrive come un lettore accanito della rivista scandalistica americana «Hush-Hush» [22]), che significativamente è ossessionato dall’igiene personale: Ha installato in casa un impianto di filtraggio dell’aria per vaporizzare le particelle di polvere, ma è anche affasci-nato da un quadro di Bruegel, Il trionfo della morte, dove è ritratto un cane maci-lento che mordicchia un neonato tra le braccia del cadavere di una madre. «È affascinato da ulcere, lesioni e corpi macilenti a patto che il suo contatto con la fonte sia puramente figurati-vo». [23]
Proprio mentre assiste a un formidabile fuoricampo di Bobby Thompson, a Hoover viene comunicato che i russi hanno fatto esplodere la loro prima bomba atomica. È l’inizio della Guerra Fredda e Hoover simbolicamente ne acquista consapevolezza mentre dagli spalti gli spettatori lanciano coriandoli di giornali e a lui capitano in mano dei brandelli della rivista «Life» che, rimessi insieme, vanno a comporre appunto il quadro dell’olandese. È una ricostruzione, quella di DeLillo, che si piega alla tesi di fondo del suo libro: i rifiuti, di provenienza domestica o nucleare, sono l’emblema del capitalismo occidentale, che prima crea bisogni non metabolizzabili e poi si lascia governare dalla loro ingovernabilità e dunque si affanna a ideare nuove tecnologie capaci di fronteggiarne la minaccia. «Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura. E finisce tutto nella pattumiera». È una frase del romanzo, ma potrebbe esserne l’epigrafe.
E la storia? Sarà vero – tra tutte le altre cose – che Hoover fosse un igienista ossessivo? DeLillo lo ha desunto da una fonte o se l’è inventato? Per noi lettori, non cambierebbe nulla saperlo. Per me, rimarrà sempre cristallizzato sulle tribune del Polo Grounds mentre Il trionfo della morte gli cade addosso, così come sono convinto che davvero Bruto s’è ucciso dicendo: «Abbi ora pace, Cesare: t’ho ucciso provando nemmeno metà del piacere che provo ora nell’uccidere me stesso» [24].
Un altro personaggio storico con la mania dell’igiene era il generalissimo Rafael Trujillo, almeno a dar credito a Mario Vargas Llosa e al suo La festa del caprone, forse, negli ultimi dieci anni, il miglior libro di fiction che si basa su personaggi e fatti reali. Ecco come il feroce dittatore di Santo Domingo ci viene presentato:
Si svegliò, paralizzato da una sensazione di catastrofe. Immobile, batteva le palpebre nel buio, prigioniero di una ragnatela, sul punto di essere divorato da un animale peloso pieno d’occhi. Alla fine poté allungare la mano verso il comodino dove teneva la pistola e il mitra con il caricatore inserito. Ma, invece dell’arma, prese la sveglia (…) quando un sospetto lo trattenne. Ansioso, osservò le lenzuola: l’informe macchiolina grigiastra offendeva la bianchezza del tessuto. Gli era uscito, un’altra volta. (…) Cazzo! Cazzo! Cazzo! Questo non era un nemico che poteva sconfiggere come le centinaia, migliaia che aveva affrontato e vinto nel corso degli anni, com-prandoli, intimidendoli o uccidendoli. [25]
Per un uomo che cercava implacabilmente l’ordine e la pulizia, e che Vargas Llosa ci descrive intento in lunghissime toilettes e in mattutine cerimonie di vestizione da far impallidire un re francese, quelle minzioni dovevano essere insopportabili. E non erano solo notturne. Vargas Llosa racconta di un’udienza concessa dal “Benefattore” del popolo dominicano al senatore Henry Chirinos,
che nessuno nella Repubblica Dominicana, tranne i giornali, conosceva ormai con il suo nome, ma soltanto con il suo devastante epiteto: il Costituzionalista Sbronzo. Aveva l’abitudine di carezzare le untuose setole che gli si annidavano nelle orecchie e, sebbene il Generalissimo, con la sua mania ossessiva per la pulizia, gli avesse proibito di farlo davanti a lui, in quel momento lo stava facendo e, per di più, alternava quella porcheria a un’altra: si lisciava i peli del naso. [26]
Proprio mentre Trujillo dice al suo senatore: «Se continui a rimestare il naso e le orecchie, chiamo gli assistenti e ti faccio bastonare» [27], ecco che succede il patatrac:
Come una randellata sulla testa, fu colto dal dubbio. La certezza. Era successo. Facendo finta di niente, senza ascoltare le affermazioni di elogio all’Era in cui si era imbarcato Chirinos, abbassò la testa, come per concentrarsi su un’idea, e, aguzzando la vista, ansiosamente spiò. Le ossa gli vennero meno. Eccola lì: la macchia scura si allargava sulla patta e copriva una parte della gamba destra. Doveva essere recente, era ancora bagnaticcio, in quello stesso istante l’insensibile vescica continuava a emettere. Non l’aveva sentito, non lo stava sentendo. Fu scosso da una sferza di rabbia. Poteva dominare gli uomini, mettere in ginocchio tre milioni di domenicani, ma non controllare il suo sfintere. [28]
Immaginate, adesso, di non essere sulle tribune del Polo Grounds con Hoover, Sinatra e Gleason. Siete a Roma, allo Stadio Olimpico, in una domenica imprecisata degli anni Sessanta. Sul campo, Roma e Lazio si sfidano nel derby: non ci sono pitchers, catchers e third basemen coi loro cappellini, maschere e guantoni, ma Pizzaballa, Losi e Barison da una parte e Morrone, Oddi e Governato dall’altra. In tribuna, al posto di Hoover, Sinatra e Glea-on, i fortunati possessori di un biglietto d’onore vedono, seduti uno accanto all’altro, il generale De Lorenzo, Tony Renis e Walter Chiari che si godono la partita con stati d’animo contrastanti. De Lorenzo, col monocolo a ingigantire la tumefazione nera sotto l’occhio sinistro, sono notti che non dorme, infastidito dall’interrogazione parlamentare del senatore Gerolamo Messeri sui dossier che faceva preparare ai bei tempi del Sifar, quando ancora non l’avevano “promosso” a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Renis, ciuffo impomatato e cappotto blu, è da poco reduce da un giro di concerti a Montecarlo e St. Moritz e dal secondo posto al Fe-stival di Sanremo con la canzone Quando dico che ti amo. Chiari ha terminato da due giorni le prove di Canzonissima ed è ancora esasperato dai capricci di Mina: al calcio preferisce il pugilato e a Roma scende malvolentieri.
Un maestro del controspionaggio, un cantante melodico, un attore comico, uno stadio e una partita. Gli elementi ci sono tutti. Cosa impedisce ai narratori italiani di confrontarsi con una scena del genere e tirare fuori un Underworld dove non è una pallina col cuore di sughero ma un pallone di cuoio ad attraversare le vicende del nostro dopoguerra?
Da qualche anno, qui da noi qualcuno ci ha provato, rinverdendo i fasti del romanzo storico, da troppo tempo fermo a I promessi sposi e alla cronaca privata degli Uzeda di Francalanza che ne I vicerè De Roberto innesta sulle vicende pubbliche della Sicilia postunitaria; ed è vero che dietro Consalvo, l’ultimo discendente della famiglia, si cela la figura di Antonino Paternò, marchese di Sangiuliano, sindaco di Catania, ambasciatore e poi Ministro degli Esteri sotto Giolitti, ma è proprio Consalvo a dire in chiusura di romanzo che «la storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi» [29]. E se questa pessimistica filosofia della storia può apparire generica, ci pensa un altro personaggio del libro, il duca d’Oragua a sistemare le cose per bene, alterando maligna-mente la celebre parola d’ordine di D’Azeglio: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli af-fari nostri…» [30]. De Roberto scrive alla fine del secolo XIX, e questa ci sembra una terribile, esatta profezia dei cent’anni a venire.
Sarà vero che la narrativa, e già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ha decretato la sconfitta, la vanità della storia; l’impossibilità di comprenderla in uno schema razionale. Ma non per questo ha smesso di raccontarla. Mi viene in mente un aneddoto che racconta Mon-taigne negli Essais. L’imperatore Corrado III ha stretto d’assedio il duca di Baviera e concede alle donne tra i vinti una sola condizione: possono uscire a piedi – l’onore salvo – solo con quello che riescono a portarsi via addosso. Quelle pensano di caricarsi sulle spalle i loro mariti, i loro figli e il Duca stesso. E così tutti si salvano. Ecco: allo stesso modo, agli scrittori contemporanei è stato fatto divieto di trattare con la storia, se non con l’approccio annalistico e cronachistico che avevano gli storiografi medievali. E quelli si sono adeguati, magari facendo propria la raccomandazione di Voltaire, secondo cui «uno scrittore può soltanto consultare [la storiografia erudita] ogni tanto quando ne ha bisogno per trarne qualche lume, così come un architetto impiega calcinacci in un edificio» [31].
Per inciso noterò che troppo spesso, però, i romanzi storici contemporanei assomigliano a un catalogo in cui sono descritti vari oggetti di modernariato; catalogo che è facilmente rintracciabile sulle rastrelliere di molti nuovi epici italiani. È un po’ come l’infatuazione di certa letteratura fin de siècle per il crepuscolo bizantino, «tenebrosa abside balenante […] di sanguigna porpora, da cui occhieggiavano enigmatiche figure […] colle loro dilatate pupille nevrasteniche» [32]: romanzi – su su fino a Salammbò – dove il décor è tutto e la nequizia, l’avidità, la lussuria sono sepolte sotto pesanti drap-peggi dorati.
note
1. «Il buon lettore sa che la ricerca di una vita reale, di persone reali, in un libro è un’operazione priva di significato; qui la realtà di una persona, di un oggetto o di una circostanza dipende esclusivamente dal mondo di quel particolare libro. Un autore originale inventa sempre un mondo originale, e se un personaggio o un’azione s’inseriscono nella struttura di quel mondo, subiamo il piacevole trauma della verità artistica, per quanto improbabili siano la persona e l’azione se trasferite in quella che i recensori, poveri scribacchini, chiamano “vita reale”.» (VLADIMIR NABOKOV, Jane Austen, “Mansfield Park”, in Lezioni di letteratura, trad. it. E Capriolo, Garzanti, Milano 1992) [»]
2. GEORG BÜCHNER, Lena e Leonce, cit. in PAUL CELAN, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose (a c. di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 2008 [»]
3. FRANCIS SCOTT FITZGERALD, Il grande Gatsby (trad. it. F. Pivano), Mondadori, Milano 1965 [»]
4. Ibidem [»]
5. WILLIAM SHAKESPEARE, Macbeth, Atto V Scena V, in The Complete Works of William Shakespeare. The Alexander Text, Harper Collins, Glasgow 2006 (traduzione mia) [»]
6. CHARLES BAUDELAIRE, Poesie e prose (a c. di G. Raboni), Mondadori, Milano 1973 [»]
7. LEV NIKOLAEVIČ TOLSTOJ, La morte di Ivan Il’ič (trad. it. G. Buttafava), Garzanti, Milano 1975 [»]
8. HONORÉ DE BALZAC, Papà Goriot, Sonzogno, Milano 1929 [»]
9. Ibidem [»]
10. «Una serie di parole è Alessandro, un’altra Attila.» (JORGE LUIS BORGES, Il falso problema di Ugolino (trad. it. C. Vian), in Tutte le opere, vol. II, Mondadori, Milano 1985 [»]
11. ARISTOTELE, Poetica (trad. it. D. Lanza), Rizzoli, Milano 1996 [»]
12. ALESSANDRO MANZONI, Del romanzo storico e, in generale, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, in Scritti di teoria letteraria, Rizzoli, Milano 1981 [»]
13. Ibidem [»]
14. «Possiamo fidarci dell’Inghilterra dei proprietari terrieri raffigurata da Jane Austen con i suoi baronetti e le sue architetture di giardini, quando la sola cosa che lei conosceva era il salottino di un ecclesiastico?» (VLADIMIR NABOKOV, cit.) [»]
15. ITALO CALVINO, Natura e storia nel romanzo, in Saggi 1945-1985, vol. I, Mondadori, Milano 1995 [»]
16. FRANZ KAFKA, La metamorfosi, in Racconti (trad. it.) R. Paoli), Mondadori, Milano 1970 [»]
17. DON DELILLO, Underworld (trad. it. D. Vezzoli), Einaudi, Torino 1999 [»]
18. Ibidem [»]
19. Ibidem [»]
20. Ibidem [»]
21. Ibidem [»]
22. Nella prima scena di American tabloid in cui lo vediamo, Hoover fa salire l’agente speciale Kemper J. Boyd sulla sua limousine nera e gli ordina di infiltrarsi nel clan dei Kennedy. Siamo nel 1958. «Le recenti iniziative dei fratelli Kennedy mi hanno infastidito», dice Hoover. «Dirigo il Bureau fin da prima che Bobby nascesse. Jack Kennedy è un dongiovanni liberale stagionato con I valori morali di un segugio da punta. (…) Il vecchio Joe Kennedy è deciso a comprare la Casa Bianca al figlio, e io voglio ottenere informazioni che, nel caso l’operazione riuscisse, mi permettano di mitigare le iniziative politiche più egualitarie e degenerate del suo ragazzo» (JAMES ELLROY, American tabloid, trad. it. S. Bortolussi, Mondadori, Milano 2001). [»]
23. DON DELILLO, cit. [»]
24. WILLIAM SHAKESPEARE, Giulio Cesare, Atto V, Scena V, traduzione mia [»]
25. MARIO VARGAS LLOSA, La festa del caprone (trad. it. G. Felici), Einaudi, Torino 2000 [»]
26. Ibidem [»]
27. Ibidem [»]
28. Ibidem [»]
29. FEDERICO DE ROBERTO, I vicerè, Rizzoli, Milano 1998 [»]
30. Ibidem [»]
31. VOLTAIRE, Bisogna saper dubitare, in Il pirronismo della storia e altri scritti storici (a c. di R. Campi), Medusa, Milano 2005 [»]
32. Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1986 [»]
[La vera natura dei personaggi romanzeschi. Appunti sul romanzo è uscito sul numero 44 di Nuovi Argomenti attualmente in libreria]
I commenti a questo post sono chiusi
Perfetto per un pomeriggio di approfondimento culturale all’università della terza età.
Alcor, sei una serpe… ;-)
Non capisco.
Sèrpe s.f. e (lett.) m. […] 2 (fig.) Pesona perfida e ipocrita.
A me pare che Alcor sia stata: sincera, diretta e chiara.
Non ho mai pensato che Alcor fosse una Pesona. Anzi, secondo me è un fuscello…
La cultura non ha età.
Ormai sono condannato.
Diranno che il refuso era voluto!
[… ma a volte l’età im-Perboni-sce.]
a me è piaciuto e mi ha anche divertito
starò invecchiando?
,\\’
Quoto Alcor.
Però penso che il senso sia quello di una base di partenza, costruita con gli elementi paradigmatici di cui L.C. può disporre, nemmeno tutti citati (p.e. la sua conoscenza dei materiali di Shakespeare pare comprendere l’ovvio De Santillana, che pure non vedo nelle note). Poi ciascuno può aggiungere il proprio.
Concordo invece con L.C. per il punto d’arrivo del post, quel “per inciso” corroborato dal bel Voltaire del paragrafo precedente. In più, la Storia non è la Realtà, ma un’altra metafora, con buona pace della NIE.
Non ho niente contro l’università della terza età, al contrario. Anche per ragioni di gratitudine personale, mia madre la frequenta con soddisfazione.
Ma per sua natura non è il luogo del pensiero critico (che non è una prerogativa dei critici, è una postura intellettuale). Visto il paragrafo 4 e letta sotto traccia una polemica contro la critica l’ho collegato al dibbattito. Perciò parlai. Dissi ciò che penso.
Anche la tua intervista a Banville, Biondillo, non stava in quest’ottica, avrei potuto dirlo, ma ero sfiancata dai post precedenti.
(Quanto alle mie dimensioni, non sono più un fuscello, ma non ancora una pesona, resisto.)
Ma dove sta il luogo del pensiero critico? Qual è la postura intellettuale giusta? Chi decide?
@ massimo
decidi tu, nessuno te lo vieta, mi pare, è il bello della democrazia.
Come come? Jean Valjean, Fabrizio Del Dongo, Anna Karenina, Tom Jones non sono esistiti? E Bin Laden, invece? E il nostro presidente del consiglio?
una cosa che non accetto è che si continua sempre a discutere come se esistesse, oggi, solo la letteratura americana e italiana.
de lillo, roth… quoto in pieno tash, sono sopravvalutati. anche perchè supertradotti.
Non ho ben capito dove il tutto, ben orchestrato, va a parare. Allora solo poche notazioni. “Sbaglierebbe chi pensasse che un personaggio d’invenzione funziona semplicemente se sembra reale”(L.C.). Può darsi, ma non dimentichiamo che dietro i personaggi d’invenzione riusciti, c’è un lavoro di costruzione, di ricerca, di verosimiglianza (è il verosimile ciò che conta in letteratura, non il vero) da non trascurare. OK, i tempi sono cambiati, diceva Palazzeschi, e se un Dante poteva avvalersi della sua memoria storica e della sua ricerca sul campo (la contemporaneità), oggi un, che so, DeLillo deve fare il topo di biblioteca (vero o metaforico che sia) e far lavorare quindi gli avvenimenti storici dalla propria immaginazione romanzesca. Altrimenti detto: prima lo studio, la ricerca, la documentazione, poi i sogni. Con questa avvertenza: che il sogno dell’autore da cui nasce il suo personaggio romanzesco non si sovrappone alla ricerca storico-biografica, ma si intreccia con esso. E tessuta da questo intreccio è la stoffa dei personaggi della letteratura mondiale.
La vita imita l’arte? Oggi può darsi, il paradosso è munifico di prospettive nuove (e sta diventando anche un cliché), ma l’arte è tale dopo aver tratto linfa dalla vita che, spossessata dalla propria verità e aneddotizzata, è costretta, la cenerentola, a imitare l’arte. Però ciò non toglie che miliardi di persone nel mondo vivono, e solo qualche milione fa arte.
Che bel brunch letterario… leggerò volentieri anche la seconda parte.
Ma qui in NI, a proposito della NIE (!), vedo solo frecciatine. Colpettini. Richiami acetelli e frizzantini ancora da stappare. Citazioni cariche di polemica inesplosa.
A quando un post nerboruto su Wu Ming e la sua/loro “scoperta letteraria”?
O, veramente, è già successo e mi sono perso qualcosa?
Frecciatine alla NIE?
Da uno che ha preteso di scrivere il post romanzo prima di scriverne uno vero? Wu Ming 1 può dormire in una botte di ferro.
Però:
“la letteratura è la vita senza le parti noiose”
Mi piace. Qui finisce il bigino di storia letteraria e ritroviamo il pariolino, quello che piace a D’Orrico e detesta i tinelli al sugo.
Più de noantri.
A me non dispiace perché me la racconta. Mi piacciono quelli che me la raccontano, che divulgano, che scrivono facile. Sarò molto poco snob (sono molto poco snob), però questi nanetti: “Baudelaire, che aveva capito bene quanto fosse immeritata la fama di cronachista di Balzac, gli si rivolgeva così: «Voi, il più poetico dei personaggi che avete inventato».
E questa? “Per un uomo che cercava implacabilmente l’ordine e la pulizia, e che Vargas Llosa ci descrive intento in lunghissime toilettes e in mattutine cerimonie di vestizione da far impallidire un re francese, quelle minzioni dovevano essere insopportabili.”
Mi piacciono troppo le storielle.
te lo dico con dolcezza e senza acredine: che brutto e inutile è questo tuo commento, Valter.
Caro Gianni, se dovessimo guardare all’utilità certi giorni l’ADSL sarenbbe da staccare. Quanto al brutto, preferisco rischiarlo, a costo di verità scomode. Tirarsela da grande esegeta della letteratura cogli amichetti laureati di Nuovi Argomenti e poi prestarsi alle operazioni salottiere di D’Orrico, son cose che bisognerebbe fare una scelta, una volta o l’altra.