Tutte le mele di un peccato
di Alessio Arena
“ … E io porrò inimicizia tra te e la donna
e fra il tuo seme e il seme di lei,
esso ti schiaccerà il capo,
e tu ferirai il suo calcagno ”
Genesi 3:15
Quando passai sull’altro marciapiede di Santa Teresa stavo piangendo.
Pensavo non ci fosse rimedio per il problema delle cartelle cliniche e inoltre avevo quella precisa sensazione, che ti capita quando non c’è rimedio per qualcosa, di aver perso qualcosa dalle tasche (che qualcuno me l’aveva rubata).
Erano già diversi giorni che non vedevo Loreto, e forse era colpa sua, forse mi ricordai di quello che aveva detto nel preciso istante in cui il generalecappabianca, svincolandosi con la sua zampetta tremante in mezzo alle sedie, aveva fatto cadere la zuppa del bambino che si stava raffreddando sul quel suo tavolino giocattolo, e io mi ero sentito un poco colpevole per aver consigliato poco prima di tirarlo fuori dal bagno, dal momento che il povero generale si sarebbe ammalato di più a stare un altro giorno chiuso là dentro.
Nel preciso istante che il mio riflesso si srotolava nella piccola vetrina del Bar Puoti, il cui triste panorama nessuno si sarebbe permesso di tappare passando dall’altro marciapiede con quegli enormi ombrelli aperti, mi ricordai di quello che Loreto non mi aveva detto, quello che il bambino non aveva voluto che io sentissi mettendosi a piangere la sua oltraggiosa perdita tra le braccia delle mammina, sporcandole il pullover che aveva già qualcosa di verde, ma molto scuro, chiaro, quasi nero.
Credo che disse qualcosa sui gatti e su quelli che ogni tanto li investono in una città come questa, ma io stavo solo a guardarla, ancora una volta ferito a sangue da quel freddo orribile che s’era fatto padrone della sua stanza al civico diciotto di vico Lammatari, quella che Loreto aveva preso in affitto qualche mese prima.
Il freddo di là dentro mi faceva sentire ancora di più uno sconosciuto, ancora più lontano dalla mammina che faceva la stupida per far divertire il suo cucciolo, e gli suonava Rossini e Schönberg insistendo nelle sue isteriche interpretazioni con quella viola sempre così scordata, tutti e due inebetiti dall’abitudine di dover vivere tutto questo, giocare nella stanza quando era notte, resistere all’unico canale di televisione che la signora di sopra, una tipa senza un pelo in testa che faceva le carte, aveva lasciato nel corpo di quel piccolo apparecchio che non le serviva più a niente, cantare le loro improbabili canzoncine, che adesso sembrava andassero ad incastrarsi con le ninne nanne feline che il generalecappabianca dedicava a se stesso, per la sua disgustosa zampa ferita.
Il freddo sembrava venire fuori dai rubinetti della stanza, era come se da un momento all’altro fossimo affogati tutti quanti in questa piena invisibile che doveva venire da un qualche fiume morto del cimitero delle fontanelle, che annegava il suo marciume davanti allo scasso della prima croce, non troppo distante da lì, e seguiva sotto sotto tutti i passi del quartiere.
Niente al modo avrebbe potuto dare senso al semplice gesto meccanico di accendere una sigaretta, stendermi romanticamente in quel divano coi fiori gialli, raccontarle che era vero, Leopoldo era tornato da Montevideo con una bombetta grigia e molti film porno, che sì, la polizia mi aveva sequestrato tutte le piante del casale di Melito, che no, questo non credo, bisogna affrontare i propri desideri, vita mia, e chi lo sa? forse pure io un giorno mi opero il naso.
Tutto sarebbe diventato uno sforzo inutile: forse Loreto non mi aveva nemmeno riconosciuto, forse si era fatta di nuovo, davanti al bambino, un secondo prima che io chiamassi al citofono tossendo un saluto.
In fin dei conti ero rimasto a guardarla un momento ( le avevo detto che non avremmo potuto fare l’amore in un posto del genere?), mi ero sporcato con la zuppa del bambino, né più né meno.
Giusto di fianco al Liceo Campanella le due anziane sedute alla fermata dell’autobus avevano dovuto notare il mio passo febbricitante, il viso annegato in quella ridicola sciarpa di Chanel che ripete una frase ridicola nelle sue trame di tessuto rosso (cose di Leopoldo, dei suoi lavoretti per i negozi di Chiaia, che è dove nessuno dei suoi clienti lo porterebbe mai. )
Non c’era un’anima, solo quelle due signore a farfugliare le loro mitiche storielle familiari, aspettando forse il 180 per il Corso Secondigliano, oppure il 47 per la Stazione Centrale, dove probabilmente era ancora Natale.
Entrambe concentrate in un pizzicare nervoso da quella scatoletta ingiallita che una di loro, quella che mi vide per prima, adesso manteneva sulle sue magrissime gambe come se fosse un carbone ardente, un lusso del quale vergognarsi di fronte a una tale drammatica scoperta, di fronte a un uomo come me che si beve le lacrime e inghiotte saliva con questi spasimi di povertà, di indecenza, di non sapere cosa sia mangiare a quest’ora stupida, di non sapere come affrontare questo dolore alimentizio, appiccicoso, di certo immorale, che trabocca dal silenzio immerso dal Liceo nel resto di Piazza Cavour, fino alle pozzanghere che la pioggia ha scavato nel marciapiede della Salumeria Langella, quasi a salvarla dalla mia biblica tentazione di dimenticare sempre tutto, ogni cosa.
Mi ricordavo bene invece di Don Pasquale, tutta la sua elegante pigrizia nel precedermi dentro a quella specie di ripostiglio, dove esiste l’unico telefono pubblico di tutta la città con il quale riesco ancora a chiamare Montevideo senza spendere una lira, con quel trucchetto che ci insegnò quel fidanzato di Leopoldo, la cantante lirica.
Molte volte ho chiamato anche Loreto da quel telefono, facendo suonare ogni tanto il borsellino con le monete, in modo che Don Pasquale si rendesse conto che era tutto normale. Ogni volta che non facevo il turno di giorno all’ospedale chiamavo Loreto, sebbene fosse poco prima di andare a prenderla, e questo perché preferivo capire in anticipo come stava in quel momento, se si era presa di nuovo il fevarin, cosa che notavi nella voce, in quel modo di dire tito quando parlava di Alberto; del resto ero solito chiamarla spesso perché questa cosa le ispirava un affetto che non avrei mai potuto aspettarmi nel faccia a faccia dei nostri appuntamenti, nella vecchia casa del pallonetto dove suo zio Fernando aspettava la morte e ci faceva sentire vecchi dischi di Yupanqui che saltavano puntuali su lunghe a, inossidabili e come quelle della parola quereeeeeeer ripetuta in ogni canzone, nella Pensione del Sole che a quel prezzo lì è la cosa più pulita di questa città, o meglio ancora, i venerdì sera, nel ristorante di Francesco Mitre che se ne sta nascosto nella costola di Adamo di Via Medina, dove lei si faceva spesso ospitare ai poker cattolici che organizzavano con puntualità, uno strano gioco d’azzardo che facevano coi santini, e veniva con i suoi dolci, i suoi miracoli di cannabis che le facevano guadagnare quanto bastava perché Albertito avesse mele una settimana intera, diverse volte al giorno, tagliate a quadratini, nel biberon, con gli occhi disegnati e i baffi con il pennarello, e si arrangiasse lo stomaco con una buona dose di ciuciú, come diceva lei.
– A questo bambino gli stai rovinando i denti, da grandi non ci ringraziano per cose del genere.
In realtà nemmeno io sapevo come potesse venirmi tanto facile una frase così, nel perfetto stile di uno di famiglia, quasi come se mi fossi preso io la briga di tradurre i fischi inumani di zio Fernando che sembrava chiedere del suo nipotino proprio quando la bava gli riempiva ancora di più quella miracolosa bocca, come se mi fossi incaricato di renderli delle vere sentenze, classicamente pesanti, comunque passabili, comprensibili.
– Vittorio, ma tu cosa ne sai di bambini? – diceva lei – a quelli che passano per l’ospedale gli fai inghiottire giusto quel poco che ti dicono, e la storia finisce lì.
– Bè, non è solo questo, puoi immaginare che molto spesso le madri sono davvero insopportabili.
– Immagina tu che se quei poveretti potessero dirti come si sentono sarebbe una cosa ancora meno sopportabile, no?
– Credo di sì… non lo so.
– Domani resti sempre nel reparto di pediatria, no?
– Certo. Devo starci per altri due mesi. Che fai, me lo riporti di nuovo?
– Macchè, oggi ha mangiato tutto, gli ho fatto quella zuppa di mele che mi disse la moglie di Francesco, e gli ho messo pure un po’ di finocchio.
– Bene, mescoli sempre tutto.
– Credo gli sia piaciuto, anche se continua a fare quei rumori con la gola, e non lo so… a volte mi fa un po’ paura, metti la notte, per esempio.
– Deve essere sempre per l’ipotonia, non ti preoccupare, forse al piccolo non gli piace granché il silenzio.
– Ma dai, che stupidaggine, lo sai meglio di me.
– Può darsi, ma vedi che lo dice anche nella cartella clinica, gli ho dato uno sguardo oggi…
– Ah, senti,Vittorio, una cosa…
– Dimmi.
– … Niente, l’altro giorno ti sarai accorto che mancava qualcosa dal tuo zaino.
– Possiamo vederci questa sera?
– Mi sento un po’ stanca, lo so che a questo punto succede a chiunque però…
– Dai, ci vediamo stasera e ne parliamo, va bene?
– Va bene, però pioverà.
– E allora?
– Niente, mi metto quel cappotto blu che ti ho detto.
– Sì, e il foulard.
– No, quello se l’è mangiato il generale.
Quando andava così, che il giorno cominciava una merda perché a Leopoldo ieri notte lo avevano picchiato dei clienti svizzeri o tedeschi, e lui aveva dovuto fare l’alba vicino all’arenile di Bagnoli, e poi il traffico ventricolare del centro, dove non c’è più nessuno che venda i fonzies, e quel mal di gola… insomma quando andava così io e Loreto ci vedevamo nella Chiesa di San Filippo e Giacomo.
Ci sedevamo in quella piccola chiesa dove si riuniscono tutte le brezze degli incensieri delle piccole botteghe scomunicate di Spaccanapoli, e quasi senza rendercene conto, restavamo zitti fino alla fine delle prove del piccolo coro di bambini che Padre Adriano riuniva diversi giorni a settimana per preparare la gloria del Signore.
I maschietti erano angeli tremendi, e le bambine, tipo una o due, avevano le tette, molti brufoli sul viso, e cantavano in modo che le loro voci si alzassero in una impressionante impostazione di soprani drammatici, accompagnando le loro opulenti frasi musicali con gesti delle braccia che lo stesso Padre Adriano indicava loro dal pulpito, dal suo fervore di signorina mistica, la fronte sudicia, gli occhi a mezz’asta..
Tra poco sarebbe venuto verso di noi, avrebbe chiesto a Loreto come stava il bambino e come proseguiva lei con la cura, con la preghiera, con i soldi..
– Ieri notte ho sognato che ero un cane – gli disse tremando al mio fianco – e che cadevo da una terrazza di Posillipo, quella vicino alla gelateria, perché ero diventata cieca.
Padre Adriano mi guardò storto, quasi a rimproverarmi di averla portata di nuovo qui quando sembrava ancora troppo fuori di sé, ma dopo poco la guardò e le sorrise, e quel sorriso lo vidi scendere sul suo stupido volto come se fosse di qualcun’altro, come se condannasse la sua stupida voce a dire ancora qualcosa.
E disse – Forse sarebbe una buona idea venire a suonare la viola insieme al coro, non credi?
Ma Loreto abbassò gli occhi e si alzò tirandomi per una manica della giacca, come fanno le madri con i propri figli per uscire da qualsiasi negozio dove qualcuno non ha saputo trattarli.
Dopo, per strada, mi prese per mano, e iniziò a tossire come fa lei, così dolce, così metodica, come se stesse tentando di zittire una qualche frase memorabile che bene le si incastrava tra le tempie, una bestemmia.
Pensai che lei non suonava per Dio, lei suonava per Alberto.
Ospedale Nuovo Pellegrini
Azienda Sanitaria Locale Na 1-Regione Campania
Via Portamedina, 41
80134 Napoli
Tel. 081-2545291-5293-5371
Fax 081-7512080
Cartella Clinica n. 971
COGNOME E NOME Gonzalez Soto Loreto
PATERNITÁ Mauricio
MATERNITÁ Fernandez Soto Pilar
DATA E LUOGO DI NASCITA 7/ 9 / 1968 Fray Bentos, Uruguay
NAZIONALITÁ Uruguayana
STATO CIVILE Nubile
PROFESSIONE /////////
DOMICILIO Vico Lammatari, 18
REPARTO Psichiatria
ANAMNESI Stato depressivo, alterazione oniroide.
La paziente soffre deliri abituali e un disturbo di orientamento rispetto alla propria persona e a quella del figlio di due anni, affetto da sindrome di down.
I suoi intoppi del pensiero (barrage) lasciano spesso spazio a un’estrema sfiducia verso gli altri , sentimento che risulta da regolari allucinazioni durante le quali ogni tipo di personaggio vuole ucciderla insieme al bambino.
TERAPIA BASICA
Seroquel Chetiapina 54 mg
Cymbalta Duloxetina 40 mg
Fevarin Fluvoxamina 33 mg
ALTERNATIVA
Abilify Aripiprazolo 25 mg
Alla fine non venne a piovere, o almeno non come adesso che sembrava rivoltarsi una fine del mondo nelle aiuole già sudice della Piazza dei Vergini, e io continuavo a ingoiare con lo stesso nervosismo.
Era già un’ora o più che non smettevo di camminare, e del resto mi piangevano anche le gambe, le lacrime mi uscivano quasi a cancellarmi i tratti del viso, quasi a difendermi dal rischio di poter incontrare qualcuno che mi riconoscesse, lì per il mercato, all’ora di punta.
Era mercoledì, di sicuro quel giorno veniva a essere il mio riposo settimanale, e d’altro canto nessuno mi aveva chiamato dall’ospedale perché lo sostituissi; non ricordavo nemmeno di aver lavorato i giorni precedenti, e avevo fame, molta, mi piangeva lo stomaco, mi piangeva tutto dentro e mi venne in mente che a Leopoldo ieri notte lo avevano picchiato dei clienti svizzeri, o forse no, erano inglesi, e lui aveva dovuto fare l’alba vicino all’arenile di Bagnoli, chiuso dentro a una macchina.
Quando tornò a casa sembrava più furioso del solito e si era seduto sul mio letto diverse volte e aveva fatto il caffè senza zucchero perché il problema é che non si può vivere una vita con così poca fortuna.
– E’ che non si può vivere una vita con così poca fortuna – aveva detto la cucaracha.
Povero Leopoldo, perché in fin dei conti dei due lui é il più brutto.
Quei denti non gli si raddrizzeranno mai e sembrerà sempre che gli gonfino la bocca da dentro, non c’è niente da fare, e il mento poi, che non ha la mia tenera regolarità, di sicuro continuerà a spuntargli un po’ di barba qui sulle guance nonostante tutti quegli ormoni che s’è preso, credo gli resista sempre quel poco di ombra virile sulla faccia.
Povero Leopoldo con il suo naso nuovo, con le tette che gli sono costate il corrispondente di due viaggi a casa, in alta stagione, che di noi due lui di sicuro è quello che soffre di più a vivere così lontano da tutto, all’altro lato di tutto, in una ridicola parte di tutto dove non c’è altro che un fratello senza troppe parole e molti froci che vogliono soltanto imparare a chiavarsi da soli.
– Insomma puttana, ti rendi conto da quanto tempo è che dormi? – aveva detto la cucaracha.
– Leopoldo… fammi vedere che ti hanno fatto, vieni.
– Non chiamarmi così, frocio, lo sai già che mi tocchi i nervi.
– Dai, amore, vieni che l’ultimo nome non lo so ancora…
Uscì dal bagno con addosso l’accappatoio, il viso completamente struccato, il fantasma di mio fratello.
– L’ ultimo è… La Divina Cucaracha – disse – Perché a quanto pare in questo cazzo di appartamento abbiamo molte visite dal mondo animale, e per ultima è venuta lei, la regina, che mi è preso di ucciderla con la bibbia di mamma, figurati, un vero suicidio mistico!
Aveva una macchia viola sulla schiena, l’avevano picchiato di brutto, povera cucaracha.
E’ così triste voler bene a mio fratello come gliene voglio io, con questo orribile rimorso di aver accettato il fatto che nostra madre non volesse più vederlo e per essermelo portato qui, io che ancora mi impedisco di pensare a lui se non come una cosa debole, come poca cosa.
Ci penso sempre a questo, ogni volta che bazzico davanti al Bellini, le vetrine impastate di vecchi manifesti, i pezzi che resistono uno sull’altro, che qualche benpensante potrebbe ritenerlo un mero sforzo architettonico di addolcire la monotonia neoclassica di quel tratto di Via Costantinopoli che tocca il teatro.
E’ chiuso da qualche mese per delle ristrutturazioni, ma mi sembrò sentire qualcosa.
Allora lavoravo al pronto soccorso e fui io a rispondere al meticoloso silenzio di una delle signorine del botteghino che prima mi promise di dire la verità, ingoiandosi altre mille paroline indecenti, e poi spiegò che qualcuno si era fatto fuori nel secondo atto dell’opera.
Leopoldo mi aveva raccontato di questo suo nuovo amore che aveva una voce onnipotente e un po’ di pancia, e che avrebbe debuttato in uno spettacolo importante in un teatro della città, ma quando arrivammo con l’ambulanza non potevo quasi credere che fosse lì in mezzo a quel casino di gente ben vestita e piagnona.
Lui si accorse subito di me e alzandosi un poco il vestito per non inciampare mi corse incontro come davanti a una visione.
– Vittorio – mi disse impaziente, quasi divertito – il tipo che faceva Dulcamara era posseduto e s’è sparato un colpo in testa.
E così era stato: prendemmo il cadavere dallo stesso palco, pulendogli intanto la faccia dal sangue che era colato.
Ricordo che Leopoldo non mi sembrò troppo angosciato per quella che doveva essere la sua prima volta in un posto così elegante, con signore eleganti che circondavano il suo fidanzato grasso, non facevano che chiedergli come sarebbe stato il suo ingresso dopo il monologo del morto, e poi che interpretazione vivace aveva dato nel primo atto, e non si preoccupi vedrà poi quanta gente parlerà di questo tragico Donizetti.
– Leopoldo…
Prima che me ne andassi mi disse ancora – Ti rendi conto, Vittorio, finire così per i debiti!
– Sttttt, non chiamarmi così, puttana!
– Vaffanculo.
Quella stessa notte, era molto tardi, all’ospedale venne una donna incinta per chiedere di quell’uomo al quale si riferiva come a un amico suo, e io stesso, nella guardiola, le dovetti spiegare cos’era successo. Lei mi guardò come se potesse vedere qualcosa in più, aveva i capelli molto lunghi, con qualche nota di grigio, sebbene sembrasse molto giovane, e mi chiese una sigaretta.
Io avevo solo la mia busta di fonzies, che mi stavano aiutano a smettere, le dissi, pareva che funzionasse, e se non le dispiaceva…
Mi sorrise con molta decenza e disse che era stata lei a chiamare dal botteghino del teatro.
E disse – Sa una cosa? – gli occhi le si erano riempiti di lacrime – Credo che mio figlio vuole nascere.
Quella fu la prima volta che vidi Loreto, e prima di lei, quasi all’alba, vidi Alberto, che era nato dopo un brutto travaglio e senza dubbio adesso se ne stava lì nella sua culla che sembrava un pezzo di pane azzimo. Da allora il fatto che il padre del bambino si fosse suicidato la stessa notte della sua nascita mi restò impresso nella mente, da quella notte avevo come una vertigine nella mente che sebbene non lo volessi del tutto, mi avvicinava a lui, e a sua madre, dentro e fuori del suo corpo martirizzato dal piacere di dire che la vita vale sempre la pena, anche se devi prendere qualche pillola in più.
Loreto venne qui con un aereo come il mio, da Buenos Aires, con la sua viola addormentata in un astuccio pieno di lettere e di caramelle Todar, e come me e Leopoldo, anche se in modo diverso, non sembrava avere nessuna intenzione di fare passi falsi rispetto alla sua carriera appena iniziata, era iscritta al partito, quindi era meglio non rischiare, così chiese una mano a suo zio Fernando che a quei tempi aveva già sopravvissuto a due mogli, e sembrava essere disposto ad aiutarla, ma il bavoso forse le aveva mostrato troppo affetto, e lei si sentì maltrattata, povera vita mia.
Una volta mi raccontò che in una stradina di Materdei aveva trovato una scuola di danza dove la signora Erminia, una calabrese con le palle, cercava musicisti che suonassero durante le sue lezioni. Passando là sotto, appena fuori la metropolitana adesso mi resi conto che dovevano essere sue quelle urla innocenti che sbavavano da quel balconcino del secondo piano al civico 149, la cui ridicola ombra marciva sul marciapiede della pescheria vicina, scivolava lì sopra insieme a qualche vecchietta che voleva il pesce spada senza troppo sangue.
Riconobbi quella voce così nervosa che imprimeva una specie di brivido al traffico della strada, e immaginai le facce delle alunne sulle punte, quelle facce imbecilli che devono accontentare le madri, forse erano le stesse facce del coro di Padre Adriano, la stessa eclissi di infanzia sulle guance più spigolose, e la stessa sensazione di tempo perso, di prendere in giro la vita con queste stronzate, come quando Loreto suona per Alberto a spezzarsi le unghie, con gli occhi chiusi, gli stessi quelli del bambino, che sta sempre male, sempre di più, come se nessuno gli avesse mai voluto bene abbastanza per farglieli aprire quegli occhi, a dire albertito tienili dritti quegli occhi brutti, quegli occhi di sangue albertito, come la tua mamma, e come i miei se ti guardo perché più di una volta ho tentato anch’io, a volerti bene dico, ma con te non ti si può nemmeno toccare se non sei la mammina, e lei ti tocca sempre, forse ti picchia troppo, ti ha fatto male prima di tutto quello che potessi fartene io, la mammina sta molto male, e io le voglio bene, le voglio un bene che mi fa male a ogni passo per ricordarmi i passi di lei, tutti quelli di stamattina, e le sue canzoncine di mezzanotte, e quel cazzo di gatto che le regalò il negro che vive in uno scatolone vicino la Galleria Umberto, quel gatto che un giorno è stato investito solo per essersene voluto andare di casa, e qualcuno ha investito anche me, qualcosa, anche se non ho mai voluto allontanarmi da Loreto, ma ci ho provato comunque, come uno che si toglie i bottoni alla giacca per rendersi conto subito dopo che non è tanto grasso, ma Loreto sta molto male e si prende il fevarin e sembra che sta nuotando mentre io provo ad amarla e faccio l’amore con lei quasi a darle un occasione per uccidermi, di tenermi vicino attaccato a lei, per farla finita con una di quelle forbici enormi che ho portato dall’ospedale per le parrucche di Leopoldo, perché infine io possa restare lontano abbastanza da Alberto, albertito, tito che nessuno gli può voler bene come lei perché dopo tutto sbava come un cane rabbioso e ha quaranta di febbre.
Quando passai sull’altro marciapiede di Santa Teresa pensavo non ci fosse rimedio per noi, avevo visto che mi mancava quell’ultima cartella clinica con la terapia che non avevo voluto darle a suo tempo, e ancora meno adesso che mi aveva raccontato delle voci che faceva il bambino, che aveva paura, che somigliava sempre di più a quel padre che non aveva mai visto.
Avevo inoltre quella precisa sensazione, che capita a uno che ha pianto per troppo tempo e gli mancano ancora delle lacrime per dare una connotazione più umile a quell’invisibile mal di testa che è di persona cattiva, che fugge, che vuole dimenticare.
E di sicuro io ero disposto a tutto questo, a continuare a piangere fino a quella stanza del cazzo dove la mammina e il mostro si ammalavano ogni minuto e sembravano felici che la fine del mondo li trovasse così preparati, e ridevano degli altri, e mangiavano cose orribili, tutte quelle mele, tutti quei vermi, tutta la terra sporca del mezzo giardino della signora di sopra, la maga, che ogni tanto diceva di salire su per far respirare meglio il bambino, e loro due forse continuavano oltretutto a volersi bene per non sporcarsi con qualcos’altro.
Ero disposto a ricordare quello ch’era successo, ma forse era più vero che non lo fossi, dico era una cosa naturale, stare lì, come un vagabondo per tutta la mattinata, con solo la voglia di chiederle spiegazioni di tutto questo silenzio, a dire a Loreto che mi facevo trasferire in un ospedale di Terni perché Leopoldo era diventato insopportabile.
Era più vero, era più naturale che il pazzo fossi io, il cane cieco che cade dalla terrazza di Posillipo davanti alla gelateria, il mostro che sbava.
( Mi resi conto improvvisamente che ero sceso giù, con l’ascensore di Capodimonte, ero quasi vicino a vico Lammatari, con l’idea che almeno adesso avrebbero tolto i sigilli alla stanza, che non c’era più polizia, che la gente se n’era tornata più o meno ai cazzi suoi)
Il portone era aperto come sempre, e non bussai.
Presi a salire le scale meditando questa stanchezza che avevo nelle gambe, la destra soprattutto, all’altezza del ginocchio, per aver camminato tanto.
Avevo la tosse, e così la signora del piano di sopra, vedendomi più o meno vicino alla porta, mi si parò davanti.
– Voi li conoscevate, vero? – disse – Che peccato, mamma mia..
Nelle immagini: fotografie di Mariagrazia Falco all’interno dell’ex manicomio di Maggiano
Non si possono scrivere gli occhi spalancati.
I miei occhi davanti questo racconto: meraviglia e ammirazione.
Grazie a Alessio Arena. E grazie a Francesca Matteoni.
Questo lungo racconto mi ha toccato. La scrittura precisa mi stringe il cuore. Piange il cuore nella passeggiata in Napule, sotto lacrime e pioggia. Bellissimo il personaggio custode della follia. Un canto disperato, di dialogo sprecato, di canto d’ammore e d’abbandono.
Le foto sono di una fragilità che mi ha atormentato il cuore.
Luogo dove si vede l’albero, si sente la libertà, attraverso le sbarre.
Luogo dove i gridi muiono nel farmaco, si urtano al vetro, alla parete ferita. Si dice la solitudine.
Follia e solitudine, follia e paura.
Quando il luogo è abbandonato, si ascolta il silenzio che chiude la mente.
Consiglio il film di Depardon: San Clemente.
Trovo molto interessante l’impasto napoletanispanico di Arena, uno dei pochi esordienti in Italia dediti a un certo realismo magico d’oltreoceano che ci appartiene molto di piú di quanto si pensi.
Mi ricorda il Cortázar di “Octaedro”. Nel jazz del flusso narrativo, e nel gioco degli scarti temporali.
Leí éste relato en la versión española, “Todas las manzanas de un pecado” me ha parecido muy interesante tu forma de representar el inskinski de cada situación.
Espero leer mas cosas tuyas en la revista “Futurisme”
ottimo racconto, ottime foto a corredo. bel post.
Alessio Arena ha un certo bisogno di editing (e di qualche buon consiglio sui titoli), perché il suo talento narrativo è genuino: dice qualcosa e lo dice avvincendo. Apprezzabile l’uso di una Napoli senza aggettivi, fatta di nomi e luoghi solo accennati, che non fa né da personaggio né da pretesto. Degli impasti basso-vernacolari, se non sono di Gadda, c’è da diffidare, qui per fortuna non se ne scorge traccia. Bravo.
Enourmous room. Ofelia. Il suo cuore è un orologio.
OFELIA(coro/Amleto) Io sono Ofelia. Quella che il fiume non ha trattenuto. La donna con la corda al collo La donna con le vene tagliate La donna con l’overdose. Sulle labbra neve. La donna con la testa nel forno a gas. Ieri ho smesso di uccidermi. Sono sola coi miei seni, con le mie cosce e con il mio grembo. Faccio a pezzi gli strumenti della mia prigionia la sedia il tavolo il letto. Distruggo il campo di battaglia che era la mia dimora. Strappo le porte perché possa entrare il vento e il grido del mondo. Mando in frantumi la finestra. Con le mani insanguinate strappo le fotografie degli uomini che ho amato e che mi hanno usato a letto a tavola sulla sedia per terra. Do fuoco alla mia prigione. Getto nel fuoco i miei vestiti. Mi strappo l’orologio dal petto che era il mio cuore. Esco sulla strada vestita del mio sangue
(da Hamletmaschine di Heiner Muller)
Un magnifico regalo, Maria.
Bello il personaggio di Leopoldo.
Conoscevo Arena come giovane cantautore, non sapevo che prendesse la scrittura così sul serio.
La caratteristica di Alessio è che riesce a non prendersi troppo sul serio né con la musica, né con la scrittura, né con le altre mille cose che sa fare. la cosa positiva, in tutto questo, è che non è necessario prendersi sul serio per creare cose così belle!
Bravo Ale.
Ancora un racconto, ed io che mi ripeto nel decantare la bellezza che sai scrivere.
Eppure in questo racconto sei diverso, più fluido, quasi mi viene da dire più tranquillo, non vedo l’ora di leggere e stupirmi del prossimo.
I.
lo leggerò molte volte…
Una bella pagina di letteratura, in rete è sempre piu raro.
Concordo, cosa rara trovare pagine cosi belle..
“Quando passai sull’altro marciapiede di Santa Teresa stavo piangendo.
Pensavo non ci fosse rimedio per il problema delle cartelle cliniche e inoltre avevo quella precisa sensazione, che ti capita quando non c’è rimedio per qualcosa, di aver perso qualcosa dalle tasche (che qualcuno me l’aveva rubata).”
Certo che un incipit del genere non dispone al meglio un lettore con la mosca al naso, e la pulce nell’orecchio, come il sottoscritto.
Questo, a mio parere, è scrivere per scrivere, ovvero “buttare giù” alla “come viene viene”, l’importante è che io piaccia a me, tanto gli altri cosa vuoi che ne capiscano.
Errore.
Poi qualcuno ti legge. E allora devi sopportarne il giudizio. Come questo mio. Specie se ritieni di poter affrontare la ribalta.
Intanto qualche punto in più, in questo inizio non sarebbe stato male. Come dopo “cliniche” per esempio. “La precisa sensazione” potrebbe benissimo diventare “Avevo la sensazione”, quel “precisa” fa tutto fuorché precisare, a mio parere. Se poi lo metti prima del sostantivo funziona anche peggio, sempre a mio parere. Ma il bello sta per arrivare.
Ascòltati: “… che ti capita quando non c’è rimedio per qualcosa, di aver perso qualcosa dalle tasche (che qualcuno me l’aveva rubata).
Io, a questo punto, ho cominciato ad arrendermi, nel senso che non ti ho più dato credito. Questa storia mi è sembrata fasulla, e mi è sembrata fasulla perché scritta con il piede sinistro (senza offesa per quelli di Riva e Maradona).
A parte quel doppio “qualcosa” ripetuto in successione. “Qualcosa” è termine vago e sommamente generico che uno scrittore deve evitare, se non vuole essere sciatto e generico, ne va della precisione. Quando scriviamo “qualcosa” è perché andiamo di fretta, ma quel “qualcosa”, se ci pensiamo bene, può essere sempre sostituito da un termine più appropriato e meno generico, purché ci soffermiamo a riflettere sulla nostra scrittura e sulle sensazioni reali che avvertiamo. Ma la chicca è il passaggio dal tu generico all’io più sperticato (“che qualcuno me l’aveva rubata”).
Che cosa “qualcuno” (chi?) ti aveva rubato? Il primo (o la prima) qualcosa o la seconda?
Sai cosa ho pensato leggendo il primo paragrafo? Questo non sa un’acca dello scrivere.
Poi sono andato avanti, al secondo paragrafo. Ho letto:
“Erano già diversi giorni che non vedevo Loreto, e forse era colpa sua, forse mi ricordai di quello che aveva detto nel preciso istante in cui il generalecappabianca, svincolandosi con la sua zampetta tremante in mezzo alle sedie, aveva fatto cadere la zuppa del bambino che si stava raffreddando sul quel suo tavolino giocattolo, e io mi ero sentito un poco colpevole per aver consigliato poco prima di tirarlo fuori dal bagno, dal momento che il povero generale si sarebbe ammalato di più a stare un altro giorno chiuso là dentro. ”
Qui confesso che mi sono arreso. Nel senso che non ci ho capito niente. Mica colpa mia, credimi, colpa tua, altroché!
Per concederti un’altra possibilità ho dato una scorciata al terzo paragrafo:
“Nel preciso istante che il mio riflesso si srotolava nella piccola vetrina del Bar Puoti, il cui triste panorama nessuno si sarebbe permesso di tappare passando dall’altro marciapiede con quegli enormi ombrelli aperti…”
Forse volevi dire: nel preciso (anche qui?) istante “in cui” il mio riflesso… E sorvoliamo sull’uso del verbo “tappare” e su questo via vai di marciapiedi dove non si capisce quale sia mai quello più giusto…
Insomma, non sono andato oltre nella lettura. Perché sarò pure masochista quant’altri mai, ma non fino a questo punto.
Magari hai scritto un bel racconto, mi fido dei commenti entusiastici che ti hanno riservato.
Al posto tuo, però, comincerei a fare qualche riflessione.
Pensaci.
Dimenticavo: ma se uno volesse pubblicare una roba sua (cioè mia) come si fa in questo posto. Mica per altro: visto il livello…
se sei così generoso da inzaccherarti con noi umili mortali puoi sempre andare qui, dove tutto ti è spiegato assai bene:
https://www.nazioneindiana.com/chi-siamo/contatti/
Poi magari si nomina Paolo Sciola “editor ufficiale” dei documenti segreti. Quelli i cui contenuti non devono essere divulgati.
E’ bravissimo a correggere gli scritti.
E, ancora più importante, non può divulgarne i contenuti.
Lo dice lui: non capisce niente di quello che legge.
concordo con chi ha detto che qui sei più fluido.
prendo a pretesto il commento di Sciola (che a dispetto di come appare qui, è scrittore bravo e ne sa; però qui hai sbagliato ‘candeggio’ – i.e, approccio :)
la lingua usata da Arena non la puoi incastonare in mere relazioni logico-sintattiche. non è mutuata solo dal dialetto napoletano, o dallo spagnolo. è un ibrido che tiene conto, oltre che della geografia, anche della polivalenza del modello culturale, sia del narrante sia del narratario.
ad esempio, leggendo quello che dici sul terzo paragrafo, quel “Nel preciso istante” ha una funzione iterativa (rapportalo a “[…]mi ricordai di quello che aveva detto nel preciso istante in cui il generalecappabianca[…]”, nel paragrafo precendente) e il ‘che’ subordina il ‘mi ricordai’ – emotivo ed estraniante – all’evento del ‘vedersi specchiato’ nella vetrina, nel ‘preciso istante. Ovvero, il ‘mi ricordai’, che dovrebbe avere funzione di principale, nel flusso narrativo intendo, viene piegata in subordine.
come se la cosa pregnante di tutta la frase sia il vedersi specchiato, anche se, razionalmente, la cosa importante è il fatto di ricordarsi quello che Loreto non avevo detto.
E’ complesso, certo. E a volte Arena esagera con questo meccanismo. Vedi, appunto le due negazioni nella frase di cui parlavo sopra.
Chissà se mi sono capito :)
Credo, tuttavia, che arena stia trovando la giusta misura.
@ Ircarrino
non ti conosco, ma certamente sei un grande:
“Chissà se mi sono capito”!.
Un Ircarrino per dieci Sciola, e con un centinaio di paralottiche in meno.
lasciando un commento qui, mi sento un po’ come una bambina che prova a nuotare nella piscina dei grandi, però volevo soltanto dire che ho amato moltissimo il caos di questo racconto, che stranamente trovo affine al mio.
e vorrei ringraziare francesca per la scelta delle foto. e franz per averle definite “ottime”.
Quello che manca ai giovani esordienti italiani(e dico giovani, diciamo under 30, quelli che hanno una prospettiva culturale della letteratura che è per natura diversa dalla nostra, diciamo quarantenni/cinquantenni) è il coraggio.
Vediamo i casi maggiormente visibili di Paolo Giordano e Federica Manzon.
La loro è una scrittura corretta, compassata, che non rischia, che prescinde della lezione di certa recente letteratura d’oltreoceano. Una scrittura che ti porta fino alla fine, senza sussulti, senza osare nella costruzione di una lingua che possa veramente rispondere degli attuali cambiamenti, che possa caratterizzare la storia raccontata di una “poetica” che ne potenzi il contenuto.
Certo cinema italiano, che da queste scritture composite e noiose trae nutrimento, vivrá a lungo grazie a giovani come questi.
Per fortuna peró ce ne sono degli altri. E per fortuna qualcuno ogni tanto se ne accorge.
La scrittura di Arena non è una scrittura da comodino.
Nemmeno quella di Barroughs lo è. Nemmeno quella di Cabrera Infante.
Uno ci perde il tempo, e questo, quando si è poco disposti, è cosa imperdonabile.
Ma quando si è poco disposti le alternative alla letteratura sono quelle che sappiamo.
E’ evidente che il talento di un ventenne susciti anche gelosie.
*Paolo Sciola
Di ragionieri della parola ne abbiamo già tanti, un altro non ci serve, grazie.
E anche i testi di grammatica per scuole medie non ci mancano.
fantastic!
scrivere cosi è essere saggi presenti consapevoli razionali arrivare ala mente è da pazzi.
essere tutteddue è da alte menti
come te
grazie meda