Castel Volturno, Africa occidentale
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[ Miriam Makeba è morta ieri notte dopo un concerto contro il razzismo e la camorra, in solidarietà a Roberto Saviano. Trent’anni di esilio dal Sudafrica dove era nata 76 anni fa, un matrimonio con l’attivista dei “Black Panthers” Stokely Carmichael, Makeba ha cantanto con Harry Belafonte e con Paul Simon e ha cantato in occasione dell’incontro fra Muhammed Alì e George Foreman in Zaire. La donna che era chiamata Mama Afrika si è esibita davanti a poche persone, ha intonato “Pata Pata”, la sua canzone più famosa, e poi si è sentita male: a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, Soweto d’Italia. ]
di Maurizio Braucci
“Quinto comandamento. Tu non uccidere.”. Il foglio bianco è attaccato sul muro di fianco alla saracinesca serrata, tra pagine di preghiere coraniche. La scrittura a mano, frenetica, ad inchiostro blu, continua per una ventina di righe “Cari fratelli africani, perdonateci se siamo una razza di cani muti e anche sordi”. In calce, per testimoniare che non è vero che siamo tutti uguali, la firma è “una cristiana di Casal di Principe”. Al numero 1083 della Strada Statale Domitiana, sulla soglia della sartoria dove un mese fa il clan dei casalesi ha massacrato 6 giovani immigrati, ci sono altrettanti mazzi di fiori, numerosi biglietti con preghiere in inglese ed un libro sull’uso sociale dei beni recuperati alla camorra.
foto di Luigi Caterino
Giriamo lungo questa interminabile strada che dai Campi Flegrei arriva al litorale casertano, fin quasi al Lazio, attraverso centri come Castelvolturno, Mondragone, Baia Domizia, valicando due fiumi e rasentando un’infinità di borghi, frazioni e paesi dell’entroterra campano. La Domiziana costeggia il mare eppure il mare si vede raramente, lidi, stabilimenti, negozi, case, hotel, lo nascondono come una volta facevano gli alberi di immense e fitte pinete. Il progetto degli anni ’70 di una Città Domizia, conurbazione rivierasca tra Napoli e Caserta, si è arenato qui tra speculazioni edilizie, escavi illeciti di sabbia, carenza di infrastrutture, inquinamento e, parola magica, camorra.Castelvolturno ne è l’emblema, eppure l’antico centro sull’omonimo fiume è tutt’altro, più equilibrato, rispetto ai suoi agglomerati lungo il mare: Pinetamare, Destra Volturno, Pescopagano, Ischitella ed altri. I Castellani del centro avevano una tradizione agricola e fluviale, ormai ridotta allo stremo, e forse per questo se ne sono sempre stati a parte, separati da quelli del litorale dove invece è passato, svanendo, uno sviluppo turistico e residenziale. Quest’area, di incredibili e alienate architetture, era una volta demanio pubblico, boschi ed acque ridenti come nelle pagine bucoliche di Virgilio. Alla fine dell’800, il giovane Regno d’Italia lottizzò metà di questa fascia verde e la cedette alle famiglie locali, per far sì che la popolazione si insediasse dalle piane agricole alla costa. Pian piano, però, dal dopoguerra, le terre acquisite furono oggetto di compravendite, occupazioni, passaggi di mano e speculazioni che infransero il diritto di proprietà che lo Stato aveva riservato solo ai residenti. E’ allora che compare a Castelvolturno un attore fatidico per il suo futuro: la famiglia Coppola. Vincenzo e Costantino ci arrivano attraverso il fortunato matrimonio del secondo con una ricca famiglia del posto, hanno grosse protezioni nella Democrazia Cristiana, vogliono costruire, guadagnare. A Pinetamare, dalla fine degli anni ’60, mettono su il celebre Villaggio Coppola, complessi residenziali, porto e darsena, 8 torri abitative di moderna architettura. Un solo problema: è tutto abusivo. Pinetamare è un concentrato di quello che intanto avviene in tutto litorale, cemento selvaggio, appalti camorristici, distruzione dell’ecoambiente. Mario Luise è il sindaco del PCI di Castelvolturno che in tre mandati – ’71, ’77, ’93- pone al centro del suo operato la lotta alle speculazioni edilizie, la contrapposizione alla famiglia Coppola, il richiamo ad una massiccia legalità, malgrado gli attentati camorristici e i boicottaggi politici contro di lui. Nel suo libro di memorie – Dal fiume al mare, ESI edizioni- racconta di quando riesce finalmente ad entrare nel Villaggio Coppola, un’enclave dove ogni servizio è nella mani della potente famiglia, a capo di un camion della spazzatura per imporre la raccolta comunale dei rifiuti. Nel 1976 ottiene solo la misera ammenda di 100.000 lire comminata ai Coppola dal tribunale di Caserta per i loro abusi, nel 1997 invece riesce a far mettere sotto sequestro la darsena e 12 ettari di complessi residenziali di Pinetamare, grazie alla collaborazione con il magistrato Donato Ceglie, iniziatore da lì a poco delle inchieste sui traffici dei rifiuti tossici. Alla fine degli anni ’90, Luise smette la sua attività politica e, intanto, cambiano gli scenari della regione Campania. “Il vecchio modello di sviluppo urbanistico” racconta Francesco Coppola, un urbanista napoletano “Era inteso a decongestionare Napoli edificando oltre i suoi perimetri in maniera contigua, creando quel fenomeno che viene detto conurbazione perché si estende da un centro ben definito. Il Litorale Domizio aveva aree libere dove prevalsero la costruzione di grandi condomini e di parchi recintati per accogliere le classi medie provenienti dalla città, ma anche di villette a schiera per i soggiorni estivi e le seconde abitazioni dei piccoli risparmiatori. Quella domiziana era infatti una zona che voleva integrarsi turisticamente con Sorrento e le isole, in un’epoca in cui i costruttori usufruivano delle partecipazioni statali e attingevano alla Cassa per il Mezzogiorno. La popolazione aumentò notevolmente in un solo decennio, anche per lo spostamento in massa da Napoli dei terremotati del 1980. Ma ecco che, imprevedibilmente, negli anni ’90 mutano i criteri di sviluppo urbanistico, la nascita dell’Unione Europea impone nuove trasformazioni dei territori, si adottano i cosiddetti Assi di Sviluppo che indicano le linee guide da seguire: trasporti integrati, lotta al degrado, policentrismo urbano. Da allora, le istituzioni e i grandi imprenditori hanno dovuto rivedere i loro investimenti per potersi avvalere dei finanziamenti pubblici. Nasce una nuova cultura dello sviluppo e quella precedente va in crisi, colossi come il Villaggio Coppola diventano obsoleti, la conurbazione a partire da un centro fisso viene abbandonata. I Piani Integrati Territoriali diventano il nuovo modello per interventi su vari settori socioeconomici, così ogni area cerca la sua vocazione in una dimensione geografica più ampia, tra centri distanti la cui unitarietà è garantita dalla crescita dei trasporti. L’Alta Velocità, la metropolitana regionale, l’aeroporto di Grazzanise, l’interoporto di Nola sono le infrastrutture dell’immediato futuro che ispirano gli investimenti che si stanno ora effettuando in aree come quella domizia”.
Dalla metà degli anni ’90, il Litorale Domizio smette di essere la meta estiva dei napoletani e dei casertani, il progetto di conurbazione con il capoluogo viene abbandonato, la mancanza di una pianificazione generale, l’abusivismo selvaggio e l’inquinamento, rendono ridicoli slogan come “Città dell’uomo, paradiso dei fiori” apposta all’ingresso del complesso residenziale di Fontana Bleu, a Pinetamare. Qui, sul versante di ponente, oltre edifici abbandonati o occupati da immigrati, visitiamo il Rio Blue, un complesso balneare i cui scivoli colorati, avvolgendosi in spirali temerarie, piegano all’interno di vasche asciutte e ormai piene di detriti. Tutto giace in disuso, una pancia sventrata di plastica dura e cemento, porte divelte, vetri infranti e piante selvaggie che sbucano dal pavimento. Sembra di sentire le grida dei bambini che fino a pochi anni fa sguazzavano tra una piscina e l’altra, a dieci metri dalle onde del mare, sotto verande e finestre dei condomini intorno da cui si ammira il Golfo di Napoli.
Inoltre, le azioni di confisca dei grandi immobili abusivi da parte delle istituzioni non sanno andare oltre la precarizzazione della vita di chi ci abita e che spesso decide di andarsene.
Qui, nei pressi del mare, tra le pinete ancora salubri e senza rifiuti tossici, restano pochi aficionados, chi ha comprato casa con duri sacrifici, chi l’ha eretta abusivamente e poi l’ha condonata, intorno a loro lidi balneari dismessi, cantieri lasciati a metà, edifici sotto sequestro e poi loro: gli immigrati.
Gli autobus della linea M1 da Napoli-Mondragone sono da tempo una spina nel fianco della CTP – Compagnia Trasporti Pubblici- che serve tutta l’area. A bordo viaggiano i tanti africani che vanno a lavorare in città, dall’alba a sera, e come sempre accade nella storia delle questioni razziali, l’autobus può diventare un luogo di discriminazione e conflitto. Angelo Marrone, il giovane gestore di un bar mi spiega “Gli immigrati neri sono insediati tra l’hinterland napoletano e Pescopagano, qui si dividono a metà il paese con gli slavi che invece occupano l’area successiva, dove il clan La Torre non ha mai permesso agli africani di valicare il limite di Mondragone. Lo capisci anche se guardi come è distribuita la prostituzione: le nere a sud e le bianche a nord, nelle mani di nigeriani e albanesi. Spesso gli autisti dell’M1, quando vedevano i neri fermi alle pensiline, nemmeno si fermavano ed io più volte ho dovuto litigare perché gli aprissero le porte. Qualcuno dei passeggeri si lamentava che gli immigrati puzzavano, ma perché venivano da ore e ore di lavoro in campagna, se scoppiavano litigi e gli episodi di intolleranza si facevano forti, i neri sparivano dall’autobus per qualche giorno.”. Da tre anni sull’M1 si sta tentando una mediazione culturale attraverso il progetto Contact, promosso dalla CTP e dalla Caritas: dieci operatori immigrati salgono a gruppetti di tre persone sulle vetture, annunciano la loro presenza ai passeggeri, chiacchierano con loro e gli ricordano l’importanza di obliterare il biglietto e di andare d’accordo col prossimo. La loro non è una presenza risolutiva, ma si fa sentire, tant’è che è stata estesa ad altre linee. Maria è di quelle che sta sugli autobus per tre ore al giorno, lavora anche presso la casa di accoglienza dei comboniani a Castelvolturno, è del Ghana, vive in Italia da 20 anni. “La storia di tutte queste persone è sempre la stessa, vengono quasi tutti dall’Africa Occidentale, hanno affrontato un lungo viaggio per raggiungere qui un parente o un amico, hanno fatto una sosta di qualche anno in Libia per mettere un po’di soldi da parte e poi si sono lanciati oltre il mare. All’alba li vedi che vanno a lavorare nelle raccolte stagionali intorno a Villa Literno, oppure, più tardi, che raggiungono i quartieri di Napoli per vendere quello che possono, pompe di benzina e cantieri edili accolgono il resto. Facendo capo alle loro comunità, qualcuno col tempo ha aperto un negozietto di alimentari, un bar, una sartoria, ma la maggior parte appena può va via, altri invece ritornano qui perché si sentono accolti meglio che nel nord Italia. Se gli italiani di qui fossero razzisti potremmo mai essere diventati così tanti come siamo?”. I numeri parlano approssimativamente di circa 6.000 africani e di 3.000 slavi, Castelvolturno conta 2.000 regolari, il resto è senza premesso di soggiorno. Giorgio Poletti è un frate comboniano che vive qui da 12 anni, l’asilo, il doposcuola e la casa di accoglienza per le ex prostitute sono le attività di base del suo gruppo composto da 4 religiosi ed altri, pochi, volontari italiani “Questa zona è un laboratorio delle problematiche moderne, se impari a risolverle a Castelvolturno poi saprai come fare anche nel resto d’Italia. Ormai gli italiani di qui si dividono tra quelli che pensano che non è possibile costruirsi un futuro con gli immigrati e quelli che li tollerano perché sono occasioni di lavoro e di commercio. La verità è che siamo tutte pedine di una grande scacchiera, ognuna delle forze in campo ha solo un pezzetto di verità, italiani, immigrati, istituzioni dovrebbero unire questi frammenti e costruire insieme il cambiamento. Invece per dove si sta scegliendo di fare passare il futuro in quest’area? Solo attraverso il cemento e i mattoni”. Ma oltre agli immigrati del lavoro nero, ci sono quelli dell’illecito, della droga, della prostituzione, sono quelli nelle grandi macchine, con gli orologi di lusso e le catene d’oro, quelli che spendono come e più dei bianchi. Gli accordi sullo spaccio tra nigeriani e casalesi hanno ormai quasi trent’anni, 40 e 60 per cento sono le rispettive quote sui profitti prima dei recenti processi contro la camorra locale, ma il mercato rimane florido. Oggi, alcuni dei ragazzini dei paesi intorno hanno l’abitudine di passare i fine settimana nelle pinete di Baia Verde o sulla foce di Destra Volturno, in una full immersion di droghe chimiche e prestazioni sessuali delle prostitute. Da Frosinone e dintorni arrivano spedizioni di acquirenti per saggiare e comprare la roba anche in grossi stock, una telefonata da un apparecchio pubblico della Domiziana avverte lo spacciatore di turno che “Siamo arrivati. Prepara tutto”. La strage del 18 settembre scorso ha dei precedenti. Nell’aprile del 1990, a Pescopagano, furono uccisi 4 immigrati nel Bar Centro, erano spacciatori e allora l’accusa cadde sulle guardie del servizio di vigilanza che, ancora oggi, controlla le case dei residenti, un servizio in odore di camorra. A chiedersi come mai il Litorale Domizio sia diventato un agglomerato di tantissimi immigrati, le risposte che si ottengono sono varie. Le raccolte stagionali nelle piane dell’entroterra, l’impiego nella grande fase di costruzioni edilizie dell’immediato passato e, a sentire l’ex sindaco Mario Luise, se ne aggiunge un’altra “Questa costa è stata sempre un luogo per nascondersi, ci misero al confino anche i mafiosi, è un bosco dove gli uccelli possono cantare senza essere visti”. Sugli equilibri criminali recenti si dice che, tra i ghanesi, ci sia chi stia tentando il salto di qualità. Marco Marino, un insegnante che abita a Lago Patria, racconta “Se vai in Ghana, come ho fatto io, capisci che molti lì ammirano i nigeriani perché in Italia sono riusciti ad arricchirsi. La coca che sbarca sulle coste dell’Africa Occidentale ora incrocia anche il Ghana e offre nuove opportunità a chi non si fa tanti scrupoli” Sarà un caso che i sei morti del 18 settembre avessero tutti passaporto ghanese? Di fianco alla sartoria dove è avvenuta la strage, ai due lati, ci sono un negozio di parrucchiere ed uno di barbiere, ambedue ghanesi. Dopo un mese dagli omicidi, l’unico ancora aperto è quello per donne, l’atmosfera al suo interno è molto tranquilla, i clienti dell’altro esercizio invece hanno già cambiato barbiere, Mounhir, il gestore, è fuggito all’estero subito dopo il massacro. Ipotesi, supposizioni, illazioni forse.
“Vuoi sapere perché li hanno ammazzati?” mi chiede Ciccio senza nemmeno aspettare la fine della domanda “Guardati alle spalle e lo scoprirai”. Fuma con aspre boccate e la stanza si riempie di fumo, non capisco cosa voglia dire, mi giro, ma sulla parete dietro di me c’è solo un poster in bianco e nero di Bakunin che mostra la lingua. “Non devi guardare qui” mi schernisce Ciccio “Ma lì, lì ad Ischitella”. Ischitella è la frazione dove è avvenuta la strage, dove il giorno prima, di fianco ad un ristorante cinese, dopo l’Hotel Millenium, di fronte ad uno stabilimento in ristrutturazione, abbiamo visto il locale ora sotto sequestro della polizia giudiziaria. So che Ciccio, un vecchio anarchico di Mondragone, sta prendendo in giro la nostra curiosità “Stanno dicendo un sacco di cazzate sui giornali” continua espirando un anello di fumo “Cercano sempre dei motivi spettacolari. Ma le ragioni stanno nelle strade, dietro gli angoli, nel cemento, proprio nei mattoni e nel cemento”. Sorride, sa che mi sta solo confondendo, forse non sa nulla, forse sa qualcosa ma non vuole dirmelo chiaramente. “Dovete capire che la camorra agisce nella realtà delle cose, non ha troppi piani generali, dice: quelli hanno fatto questa cosa, si stanno mettendo con questi altri e allora dobbiamo ammazzarli. Adesso poi, con i capi in galera o in latitanza, devono mostrare di non aver perso il controllo del territorio. Sono obbligati a punire severamente qualunque sgarro, anche una questione banale”. Che cosa ha voluto dire? Che cosa dovrei guardare alle mie spalle?
Si fa sera, torniamo verso Napoli, malgrado tutto resta nei nostri polmoni l’aria del mare e della natura di qui che resistono all’oltraggio degli uomini. Davanti al centro di accoglienza Fernandes, gli immigrati se stanno fermi, in attesa, bloccati tra passato e futuro, come spettri in un limbo. So che molte cose stanno cambiando, nuovi accordi politici, nuovi investimenti condizionano quest’area e gli immigrati sono diventati un impaccio, malgrado per anni abbiano preso in affitto quelle case ormai sfitte sul litorale, offrendo la possibilità di un guadagno ai proprietari. Ho scoperto tante altre cose, ma ormai non c’è più tempo. Non so perché quei sei giovani neri siano stati uccisi, non so se l’omicidio di Antonio Celiento, avvenuto pochi minuti prima a Baia Verde, sia collegato alle loro morti. So che però, qui e nel raggio di chilometri, le istituzioni e la società civile devono decidere qual è oggi la loro priorità: lo sviluppo economico o la lotta contro la camorra. Allo stato dei fatti, il primo obiettivo esclude il secondo. Roberto Saviano è sotto scorta per aver scritto esattamente questo.
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Un articolo che fa la luce su una natura sacrificata, rovinata, sventrata.
Vedo questo spazio di dolore, questo vento arreso alla follia dell’architettura, all’ ambizione arrogante della Camorra.
Mi fa male pensare al ricordo immaginario dei pini sontuosi con il fogliame prottetore, e il mare incontrando senza limite la terra fatta di sabbia e di solitudine; una solitudine eleganta.
“Il mare eppure il mare si vede raramente.”
Il mare, pensieroso, non si vede. Il mare di colore malva non si vede .
Il mare che invita all’innocenza, non si vede più
Ma resta come l’ultimo lembo di resistanza. Voglio credere , quando si fa attenzione, il mare viene cercare il cuore degli uomini di questa terra.
La prostituzione parla di altra solitudine. La Camorra gioca con gli esseri umani, sono pedine nella scacchiera della criminalità. Niente di più. Denaro, profitto, sfruttamento.
Posso entrare nell’anima di una donna venuta di Africa, lasciata alla solitudine, al freddo, alla paura sul ciglio della strada. Posso entrare nell’anima di sua sorella di Albania, spaventata nel vertigini dei corpi maschili, del suo corpo di dolore, senza orrizonte.
Mi fa paura.
All’oltragio degli uomini, degli assassini della Camorra, si puo conservare
uno spazio di speranza.
Complimenti a Héléna e a Maurizio Braucci.
Chi avesse visto questo sito alle sette e mezza del mattino, quando ho postato il reportage di Braucci, saprebbe che non c’era nessun riferimento alla morte di Miriam Makeba, e al testo si accompagnava una bella foto di Luigi Caterino. In pratica: la notizia della morte mi è arrivata DOPO ed è stata accolta come una coincidenza davvero sinistra. Mi rendo conto che si tratta di un’excusatio non petita, affidata alla buona fede di chi ci legge. Ma comunque, anche al rischio di sembrare “coloro che ci marciano”, mi sembrava peggio non rendere omaggio a questa grandissima donna e grandissima artista che ha fatto sentire l’ultima volta la sua voce in memoria dei sette ragazzi uccisi.
@Helena chi ti conosce e conosce Nazione Indiana e lo spirito che anima questo blog sa perfettamente che non si tratta di gente che “ci marcia”, ma di persone che scrivono e divulgano cose interessanti e che hanno forti motivazioni culturali e sociali.
Detto questo, grazie a te per aver pubblicato il post e grazie a Maurizio Braucci che ha la capacità, con parole di una semplicità incantevole, di raccontare la dura realtà e di farla penetrare in chi legge. Mentre leggevo mi tornavano in mente le immagini di quei luoghi nei miei anni dell’adolescenza, quando si poteva andare ancora in campeggio a Baia Domizia o affittare una casa a Castel Volturno e Ischitella senza soffocare nel cemento infetto e abusivo, senza scontrarsi con l’illegalità ad ogni piè sospinto. Questo post rende onore a chi lo ha scritto per la sua verità e lucidità e contribuisce a tenere alta l’attenzione sulla camorra, a non spegnere i riflettori della pubblica opinione sull’illegalità e su quanti lavorano quotidianamente per combatterla. Non abbassare la guardia deve essere la nostra parola d’ordine se vogliamo pensare di poter vivere in una società civile.
Miriam Makeba ci ha regalato generosamente la sua ultima canzone con tutto il suo impegno umano e il suo talento: il suo ricordo resterà anche in questa terra martoriata e forse la sua morte servirà a far riflettere sull’importanza della vita e del rispetto umano.
Bellissimo il commento d’Irene. Penso al ricordo che possiede del paesaggio e al presente rimpianto affogato nel cimento.
Ho fatto una ricerca su Miriam Makeba. Era una donna generosa, luminosa. E’ partita nel miraggio del suo canto.
Per Helena: ogni lettore di NI conosce l’impegno onesto, lucido dei scrittori e dei membri.
Ora aspetto un articolo su Miriam Makebo per conoscere meglio la sua musica, il suo impegno…
Posso testimoniarlo: ho letto il reportage di Maurizio Braucci prima che fosse diffusa la notizia riguardante la “partenza” di Miriam Makeba e non vi era alcun riferimento a tale evento. Mi sono raccolto in meditazione e ho salutato con la lettura del Sutra l’eternità della vita della grandissima artista. Grazie a Maurizio Braucci e al suo lavoro di scrittore, giornalista, testimone del nostro tempo. Non per niente. è stato “a bottega” da Goffredo Fofi! Buon sangue non mente…
Castelvolturno. Piazzale di Baia Verde. Terra di frontiera. E’ l’Africa Domitia, costruita sulla pelle degli irregolari. Fabbrica di puttane, di latticini alla diossina, di pusher ingaggiati a cottimo dai professionisti dell’abuso. Tempo freddo umido. Un pubblico essenziale, un centinaio di persone, da Napoli e dintorni. Operatori sociali. Giornalisti. Organizzatori. Pochissimi i veri protagonisti dell’evento: qualche famiglia di immigrati regolari e sparuti gruppi di clandestini.
La performance di Mama Afrika comincia dopo le dieci, in netto ritardo sulla scaletta. Sebbene febbricitante, la donna si muove a tempo, vocalizza, ammicca, sembra una sciamana. Alla fine saluta, dichiara il suo amore a tutti, vorrebbe chiudere, ma i presenti reclamano un bis e Miriam concede Pata Pata. Subito dopo, raggiunge la postazione del batterista e si accascia.
Dal palco concitazione: “Chiamate un medico”. Nessuna ambulanza. Ne giunge una dall’ospedale Pineta Grande, poco dopo le undici, a pochi, significativi minuti dalla crisi.
Nel frattempo, al nord, diversi comuni organizzano ronde di quartiere, formate da volontari residenti; i principali TG rassicurano il pubblico sulla questione del razzismo. Fede minimizza. L’escalation criminale contro gli extracomunitari è un’invenzione della sinistra, fango sul belpaese.
Il governo dispone le classi separate per gli immigrati, i controlli alle frontiere, pure utopie negative, mentre il vaticano tace. La beatificazione di Pio XII, “splendido dono di Dio”, è l’ultima questione di rilievo.
Non esistono parole per far luce sul degrado di un territorio incolpevole, ridotto allo stremo dall’azione congiunta della politica, dell’economia, dei clan, ma questa è l’Africa Domitia, alla quale Miriam, reca in dono il suo stanco, illimitato e generoso cuore:)
La vita e la morte di Mama Africa sono il segno, il simbolo, la sostanza dell’eterna lotta fra il bene e il male.
Il male è il terrore, la paura, la violenza, la morte.
Il bene è una donna nera, scalza, con una voce incredibile, leggera come una farfalla, che balla e muore su un palcoscenico così dolcemente che non fa quasi male.
Perchè cantando e ballando, fra la propria gente, in qualunque terra e per qualsiasi motivo ti trovi non si muore mai.
Grazia a Helena per aver messo la musica. In realtà conoscevo Pata Pata, ma mi rammento la versione francese, credo l’aver ascolatato da bambina.
Magnifica donna, come lo dice Bruno, nel suo canto solare.
Grazie
Ho appena comprato la Repubblica che arriva con un giorno di ritardo a Amiens. E vedo un magnifico articolo di Roberto Saviano e di Gino Castaldo…