Una raccolta preziosissima

di Giovanni Cossu

E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui.
DANTE, Vita Nuova, XXV.

Diogene Reiteri sembrava un avvoltoio, appollaiato a due metri da terra, su quello scranno dalle cui altezze doveva controllare le scolaresche in visita alla sezione del museo, dove si trovavano esposte le mirabili serie di preparati anatomici in cera: una raccolta preziosissima, come diceva la guida del T.C.I. del ′74.
Né questo era l’unico compito a lui affidato.
Perché con una lunga pertica, imbracciata quasi asta di battaglia come un santogiorgio nel pieno delle sue facoltà, doveva, oltre che colpire con decisione i più ribelli all’ordine e al silenzio – di solito annidati nei punti più lontani delle interminabili file – anche illustrare le caratteristiche salienti, sia dal punto vista funzionale che del metodo costruttivo, di quei preziosi manufatti.
Naturalmente indicandoli, perché qualcuno non scambiasse l’una cosa con l’altra.
Servendosi di un linguaggio che nulla concedeva alla prolissità, rifiutando qualunque vaghezza di tipo intellettuale, sino a negarsi ogni accenno che potesse portarlo, poi, a digredire sui presunti valori artistici di quello che opera d’Arte non era.
Linguaggio, per questo, di non comune efficacia. Dovuto non solo a una pluridecennale esperienza, ma che si fondava su una sicura intuizione di quello che il pubblico andava cercando in quelle sale.
Era ormai divenuto celebre – tanti gli anni che faceva quel lavoro e tali e tanti quelli che avevano frequentato la scuole cittadine, da doverne subire l’incombente presenza almeno una volta nella vita – il modo in cui, immancabilmente, Diogene iniziava la sua lezione sul corpo umano e sulla nascita e gli sviluppi di quella branca di scienza chiamata osservazione anatomica.
Un incipit da maestro, con cui, volendo, si poteva intendere che si era detto tutto: “Questo è l’uomo!”
Detto, però, con tono sarcastico, mal dissimulando il suo profondo convincimento che quelli mai e poi mai sarebbero arrivati a scoprire la pur minima parte di verità celata in così semplici parole.
Perché non proprio di uomo si trattava.
A meno che non venisse considerato altrettanto lecito, davanti al bancone di un macellaio, invaso dalle parti sanguinolente dell’animale, esclamare con la stessa enfasi: “Questo è il bue!”
Fatto accettabile solo se, per una qualunque evenienza, gli abitanti tutti della città venissero reclusi all’interno della cerchia delle mura, senza più alcuna possibilità, o speranza, di potersi recare in campagna a vederselo, un bue vivo e vegeto.
Ma, apparentemente, Diogene di tutto ciò non si dava pena.
La preoccupazione maggiore restava quella di portare a termine il compito a lui affidato. E questo, nelle condizioni in cui era costretto ad agire – dovendo mostrare la perfezione dei frutti più maturi di un’arte ormai scomparsa da oltre un secolo – significava far finta che, in quel campo, da allora non fosse accaduto più nulla.

Scatenando vecchie
isterie misconosciute
un angelo caduto
promana verbi
a scapito di enigmi

dichiarando guerra alla menzogna

Dove le prendesse, Diogene, queste amenità, è subito detto.
Soffriva d’insonnia. Quasi calcolata.
Troppo grande l’abisso che separava la sua vita diurna, in qualche modo immersa nell’esaltante opera collettiva di scoperta della Natura, dalla banalità di vita che gli toccava fare una volta chiuse le porte del museo.
Da spingerlo a escogitare qualcosa – un qualche metodo – per avvicinare quelle due entità temporali che a lui sembravano segnate da una diversità un po’ troppo netta: il giorno e la notte.
E così, poco a poco, attraverso tentativi non sempre felici e progressivi aggiustamenti, era riuscito a creare una sua tecnica che, seppure per vie paradossali, rendeva uniformi le cose.
Sembrava infatti a Diogene di essere riuscito a far sì che, se durante il giorno era costretto a parlare di carne umana, la notte la carne umana parlasse lui.
Esattamente in questo modo.
Conciliato il sonno dalla stanchezza, lasciava che la natura seguisse il suo corso, nelle primissime ore della notte, non senza essersi assicurato, regolando la suoneria della fidatissima sveglia, che questa lo destasse nel mezzo della notte.
A questo punto, abbandonato il letto, si recava in cucina, dove trovava già pronta dalla sera prima la caffettiera, aspettando con pazienza che le forze dell’acqua e del fuoco compissero la loro opera nell’approntare l’oscuro liquido, per poi mandarlo giù tutto, addolcito con poco zucchero.
Fumata una sigaretta e visitato quasi sempre il bagno, ritornava a letto come se quella fosse stata la più semplice e spontanea delle interruzioni di sonno.

Scottati in gioventù
in interrotto rito
notiamo con stupore
noi mortali
la dichiarata assenza
delle madri

e ci mostriamo esseri perfetti
per garantirci un senso che non storpi troppo
e arresti le maree di finzioni calcolate

Questi erano i risultati di quella tecnica di cui però, ora, dovremo dire di più.
Cercando di cogliere anche l’aspetto soggettivo che a Diogene pareva di esperire.
Insomma, se anche Diogene per niente indisposto di fronte a una ripresa del sonno, qualcosa, a quel punto, sembrava incepparsi.
Fissava, allora, Diogene la parte di sé più disponibile a un condizionamento per mezzo della volontà: l’attenzione su quella moltitudine di reperti anatomici in cera che aveva avuto davanti agli occhi tutto il giorno – tutti i giorni – e che per questo rimanevano, sempre nitidi, impressi nella sua memoria.
Scegliendoli a seconda delle bizzarre ispirazioni del momento o in base a un preciso programma di indagine. Modificandoli talvolta o, più precisamente, scomponendoli in parti meno complesse, e proiettarli così nello spazio del suo corpo. Esattamente in quella porzione di corpo dove, senz’alcun dubbio, quei reperti in carne ed ossa si sarebbero dovuti trovare.
Per poi, con uno sforzo di concentrazione inimmaginabile in condizioni diverse, negare al cervello ogni diritto di proferire parola.

Mettere il dito nella piega
significa far conto
su sapide battute

vestigia un po’ ammuffite
di templi profanati
le cui vestali
graziose (regolari) ragazzine
aprono gli occhi al sole

Qualcuno potrebbe, a questo punto, confondere esposizione e realtà. Pensare che quelle insolite pratiche e i risultati ottenuti fossero legati da un legame diretto: da una cosa ne consegue un’altra.
Che gli sforzi fatti in tal senso trovassero corrispondenza nel senso manifesto degli esiti di quegli sforzi.
Così non è.
Diogene non era infatti una macchina, come verrebbe da pensare.
Prevaleva invece in lui qualcosa che lo determinava come soggetto. Che lo preservava come uomo.
La fede.
Che unita a una perfetta consapevolezza, a una paziente determinazione di non farsi scoraggiare da nessun magro o inesistente risultato, lo portava in tutte, anche le più disperate contingenze, ad attendere.
E non altro.
E allora, le meraviglie.
In una compulsione che è difficile descrivere a chi non l’abbia mai provata, le varie parti del corpo, i vari organi, i più minuti organelli, le meno appariscenti cellule dei più svariati tessuti, si appropriavano, volta a volta, della parola per comunicare. Qualcosa il cui nesso con il tutto – Diogene in quella disposizione – non era possibile individuare e la relazione con le parti che si esprimevano impossibile da definire.

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27 Commenti

  1. Vi sono diversi commenti in moderazione. Il delirio e i motti di spirito a personalità multipla non sono graditi. Evitate l’erosione delle impronte digitali, potrebbero sempre servirvi.

  2. corro il rischio Giovanni, per te.

    – Ecce Homo –
    ma non lo vedi
    tra brandelli d’oscura finzione
    nemmeno l’ombra riflessa
    della complessa imperfezione.
    – Ecce Homo –
    nel languido intermezzo,
    notturno navigante tra le sponde
    dello stupore assorto
    in parole sparse
    sferiche concentriche particelle,
    vene dei versi, atomi delle cellule
    aperte, chiuse, labiali, gutturali:
    microcosmi di quel costato
    senza logos
    ricomposto nel notturno deambulare
    di ombre cinesi in potenza d’arte.

  3. Ci sono alcuni filosofi i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io; che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua esistenza; e che siamo certi, con un’evidenza che supera ogni dimostrazione, della sua perfetta identità e semplicità.

  4. Non posso sapere quanti sono questi “diversi commenti in moderazione”.
    Posso sospettare che siano ancora peggio di quanto possa immaginare.

    I racconto è stato scritto nel 1985. I pochi che lo lessero, dissero allora che era discreto. E’ stato riesumato in concomitanza con un dibattito che è in corso attualmente su Nazione Indiana.

    Mi chiedo, è possibile che le cose siano talmente cambiate, che oggi non si può più narrare pensando o pensare narrando, senza che un normale soldato venga scambiato per Rambo?

    Ora vado a procurami ago e filo.

    @Natàlia

    Grazie, cara amica, per questa tua poesia. Che è bella.
    Sono commosso. Non mi era stata mai dedicata una poesia.
    E non sono proprio certo di meritarmela.

  5. Caro Soldato, ti ringrazio per l’amicizia che mi dai, per me preziosa più della tua raccolta.
    Nel Canto III dell’Inferno, al verso 51, Virgilio, mostra a Dante i cosiddetti vili, “coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (il termine “ignavi” fu coniato successivamente dai critici, ma mai adoperato da Dante), così dicendo:

    “Fama di loro il mondo esser non lassa;
    misericordia e giustizia li sdegna:
    non ragioniam di lor, ma guarda e passa.”

    Buona giornata Soldato, lascia perdere ago e filo, usa la penna, ti è più congeniale.

  6. a me dispiace della mia ignoranza, faccio fatica a leggere queste cose “difficili” e non ho tempo di documentarmi.

    sono solidale, comunque.
    nel senso che, perché ignorante, te e natalia e forse pochissimi altri, non mi hanno ignorato e allora io sto da questa parte, quella che mi sembra dei “non cattivi”.

  7. Caro Bevitore,
    nella bacheca di Nazione Indiana, ti ho paragonato a Elio, dio pagano che fa maturare l’uva e rende possibile la nascita del vino.

    Dopo un primo momento in cui ho fatto finta di essere indeciso sul fatto che tu non rappresentassi anche lo spirito di Elia.

    Sicuro però di una cosa: che chi diceva: “Beati i poveri di spirito”, diceva la verità senza capire un cazzo [come sempre].

    Che ci stiano sui coglioni quelli che di spirito ne hanno troppo: lo spirito di Vangelo e Bibbia, è vero.

    Che siano beati quelli a cui manca il vino, è ancora una volta la dimostrazione di quali stronzate si possano mettere assieme
    con parola e verbo.

    Quelli, o “Quello”, non ti conoscono, Bevitore.

  8. Strana, questa cosa dei commenti in moderazione. Sarà qualche questione personale, suppongo.
    Ho trovato il racconto molto difficile, questo sì (ma non scritto male, men che meno ridicolo).

  9. [ risolverei la questione dei “poveri di” con la triplice valenza della parola “spirito” (essenza volatile spirituale o spiritosa vinosa o humor) ]

    qui serpeggia un farfarello gaddiano nella lingua

    il luogo, la location direbbe qualcuno di modernista, è molto godibile.
    a Torino c’è un museo simile mi pare.
    ed anche Diogene sulla alta sedia da arbitro di tennis
    con la lunga bacchetta

    tutto fila fino circa a

    “Soffriva d’insonnia. Quasi calcolata.”

    poi si fa un po’ troppo oscuro
    ma temo l’eclissi sia intenzionale

    ,\\’

  10. @ Orsola

    Nessuna meraviglia.
    Alla tua accuratezza nelle cose fai,
    corrisponde la precisione nei giudizi sulle cose degli altri.

    Quella frase: “Soffriva d’insonnia” è il punto esatto in cui finisce la prima parte del racconto e inizia la seconda
    Nella prima si tratta di osservazione “oggettiva”, nella seconda di osservazione “soggettiva”.

    Diceva Erwin Scrodinger, criticando l’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica che “una fotografia sfocata è diversa da una fotografia di un ammasso di nubi”

    E’ quello che succede nel racconto: la descrizione di ciò che vediamo intorno è chiara.
    Descrivere l’interiorità di una persona o ciò che una persona sente nella propria interiorità non può essere altrettanto chiaro.
    Ma non si tratta di una foto sfocata.
    Si tratta della foto di un ammasso di nubi.

    Come tu hai percepito chiaramente.

  11. Non si fotografano gli ammassi di nubi. Si rappresentano. Anche perché con una semplice foto non si vedrebbe l’ammasso. Forse ritoccandola… La foto!
    Di cosa stavate cincischiando? A parte i pompini in pubblico…

  12. Morgillo, lo devi chiedere a Schrodinger.

    A questo punto sarà solo un fantasma,
    ma lo sei anche tu!

    Solo che tu sei un fantasma scemo.

  13. Natalia, neanche nella seconda fotografia che hai postato c’è l’ammasso… E comunque in una foto sfocata io non ci vedo un ammasso di nubi. Chiaro? Quindi?

  14. in una foto sfocata
    colgo contorni di nubi in ammasso
    trasporto di vento
    negli occhi dell’animo
    inquieto nella notte

    [in una foto sfocata colgo ciò che voglio vedere.]

    buonanotte sig. Morgillo.

  15. Sig. Hume le consiglio di più prima di attribuirsi nomi che non le si addicono.
    tuttavia, casualmente, il “suo” nome ben si addice a quanto sopra espresso dai tesserati del cineforum.
    non si aspetti ulteriori risposte polemiche perchè avrò di meglio da fare, al cineforum danno “bertoldo, bertoldino e cacasenno”.

    […] C’è tra le idee una forza, espressa dal principio della associazione, che le unisce: “Questo principio di unione … dobbiamo considerarlo semplicemente come una dolce forza che comunemente si impone; le proprietà che danno origine a questa associazione e fanno sì che la mente venga trasportata da un’idea all’altra sono tre: somiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, causa ed effetto”. Noi passiamo facilmente da un’idea ad un’altra che le assomiglia (per esempio una foto ci fa venire in mente il personaggio che rappresenta); oppure da un’idea ad un’altra, che abitualmente si è presentata a noi come connessa alla prima, nello spazio e/o nel tempo (per es. l’idea della levata dell’ancora mi suscita quella della partenza della nave); l’idea di causa mi richiama quella di effetto e viceversa (ad es. quando penso al fuoco sono portato a pensare al calore oppure al fumo).

    D. Hume

  16. In una foto sfocata colgo la mano incerta di chi ha tolto nitidezza a un’immagine che non riusciva a fissare. O tante altre cose. Più o meno intenzionali. Ma mai le nuvole. Certo però, ognuno in una sfocatura ci vede quello che vuole. Io in testa non ho mai le nuvole e gli uccellini. Anche perché al di sopra delle nuvole, quando sei sull’aereo, se alzi gli occhi oltre il finestrino, c’è il buio assoluto dell’universo.

    E comunque i vostri attacchi sono mediocri e pretestuosi. E mi fanno solo alitare fumi. Stantii. Nuvole. E la finirei qui.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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