Reale, troppo reale
[ Riprendiamo editoriale e apertura del dossier che A. Cortellessa ha curato per lo «Specchio» (novembre 2008). Di G. Pedullà e D. Giglioli gli interventi critici; Antonio Scurati, Laura Pugno, Tommaso Ottonieri, Andrea Bajani gli scrittori invitati a esprimersi sul campo di forze del Reale e sulla possibilità di una sua rappresentazione. È possibile leggere tutto l’inserto qui DP]
di Andrea Cortellessa
«Il genere umano non può sopportare troppa realtà». Non lo ha detto qualche oscuro sofista della derealizzazione postmoderna. Lo ha detto, e più d’una volta, un grande della modernità più «eroica», quella più esposta al vento della storia, Thomas Eliot (si veda Burnt Norton, primo dei Quattro quartetti). Ciò malgrado – e anzi proprio per questo, data la coazione al citazionismo di noi postmoderni – sembrano queste le parole perfette per dar corpo all’evasività superstiziosa, all’esorcismo terrorizzato che ci ha iscritto d’ufficio, come scrive Antonio Scurati, a un apprendistato all’irrealtà. L’oroscopo funesto di quel suo libro intelligente, La letteratura dell’inesperienza, non era troppo diverso da quello formulato da Walter Benjamin nel celebre saggio sul Narratore di Angelus Novus. Se il racconto per antonomasia, in tutta la storia umana, era quello del guerriero che una volta tornato cantava le gesta e le ambagi, il peregrinare e la nostalgia di casa, si accorgeva Benjamin che ora «la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile». Solo che l’ora di Benjamin era il 1936; e la guerra restata muta, sigillata in gola a quegli uomini tornati cogli occhi sbarrati, era la Prima guerra mondiale. La grande narrativa della modernità è stata il tentativo strenuo, eroico, di combattere quell’ammutolimento: di premere sulle mascelle, sulla glottide. Per forzare quel blocco. Cosa sono stati Musil e Kafka, Gadda e Céline, se non lo sforzo di alzare la voce (in tutti i sensi) per risvegliarsi e risvegliarci – come diceva un altro di loro, Joyce – dall’incubo della storia? La forza di quella narrativa si scatenava di fronte a interdetti tragici. Più si alzava il livello dello scontro, più quegli scrittori innalzavano se stessi. A fronte di quei veti, i nostri sono barzellette. Quel silenzio era tragico: spezzarlo faceva sanguinare lingua e orecchie. Il nostro è annoiato: interromperlo produce solo rumore di fondo.
E allora l’inesperienza di cui parla Scurati è molto simile, ma è anche molto diversa, da quella diagnosticata da Benjamin. Le assomiglia, certo: come assomiglia, a un padre guerriero, il figlio che (per sua fortuna) non ha dovuto mai sparare un colpo. È vero, siamo una generazione di traumatizzati senza evento traumatico: l’unica esperienza che conosciamo a menadito, l’unico evento che ci ha penetrati in modo capillare, che sappiamo riconoscere – e, ammettiamolo, apprezzare – in tutte le sue sfumature, è proprio l’inesperienza. Per usare la metafora di Andrea Bajani, il dente che ci duole davvero è quello che ci hanno già tolto: l’arto fantasma.
È per questo che sempre più di frequente, nei decenni seguiti a quel versante immenso e crudele, gli scrittori si sono trasformati in reporter. Apro Il poeta postumo di Franco Cordelli appena riedito, prima pagina: «Il reportage rappresenta l’irruzione del dogmatismo nel processo di organizzazione della realtà e del lessico della realtà». Pare oggi, e invece sono passati esattamente trent’anni: già allora a discutere di «dogmatica dell’iper-realismo». Se «qui» non succede più niente, allo scrittore un mandato sociale resta, in effetti: quello di trasformarsi in bracconiere di atrocità, collezionista di disagi, sommelier di efferatezze. Proprio come dice Daniele Giglioli: lo scrittore come qualcuno che va dove noi non andiamo, che ci va al posto nostro. In questo senso non cambia (non cambia qualitativamente) se va, questo scrittore, sulle montagne dell’Afghanistan durante l’invasione sovietica, tra i camorristi che gestiscono i traffici del porto di Napoli, o a seguire Joyce (Michael Joyce) nel tour tennistico ATP. A spartiacque si possono indicare due libri degli anni Sessanta, A sangue freddo di Truman Capote e Guerre politiche di Goffredo Parise (uscito nel ’76 ma in gran parte scritto e pubblicato in precedenza). Ma erano più o meno gli stessi anni anche quando uscì quel film, Mondo cane, di Gualtiero Jacopetti: lì dentro, in fondo, c’erano già (al di là del valore specifico di ciascuno di loro) William Vollmann o Michel Houellebecq. Per non parlare di Jonathan Littell.
Il punto è che tutto questo, in sé, non né un bene né un male. Il punto è cosa succede quando quello scrittore torna, e ci proietta l’horror movie del suo safari nel Reale. Ci lascia indifferenti, ci trasforma in voyeurs, ci fa invidia? È moralistico? È pornografico? È le due cose insieme? Oppure è davvero conoscitivo? Incide sulla nostra mente, come dice Laura Pugno? Ci scoperchia la testa, ci opera a cranio aperto? Sono risposte che può dare solo il singolo lettore, ogni volta che apre un libro. È per questo che mi sento di dar ragione soprattutto a Gabriele Pedullà, che una volta avrebbe rischiato di apparire tautologico nel richiamare gli scrittori all’agone con lo stile, a confrontarsi con quell’Altro, quell’oggetto alieno e minaccioso che è vicino, vicinissimo a loro e che, se non stanno attenti, è capace di strozzarli (come capitò a Mallarmé): la loro stessa lingua. Mentre oggi tale richiamo, ai più, appare un vezzo rétro.
Dice bene Tommaso Ottonieri: la letteratura sconta un handicap, rispetto ad altre arti. Meno immediata, difficilmente ci metterà di fronte all’astanza del Reale. Provate a dire, di fronte a un Sacco di Burri, che «non è realistico»: è lì. La letteratura quel Reale lo può bensì rappresentare, cioè stare in suo luogo. Simboleggiarlo, allegorizzarlo, emblematizzarlo. La storia della letteratura è la storia dei progressivi allontanamenti e dei repentini avvicinamenti, a quel Tremendo: senza mai toccarlo davvero. Il che non toglie, però, che le foto di alcuni di quei safari effettivamente ci tocchino. Ma se lo fanno, spiace dover ribadire simili ovvietà, è per la loro qualità. Sono assolutamente certo che fra trent’anni, quando ripenserò a Gomorra di Matteo Garrone, non mi indignerò – come non manco di fare ora, insieme a tutti – per le malefatte dei Casalesi, non solidarizzerò con le disgrazie di Saviano. Quello che ricorderò sarà la luce della scena in cui i ragazzi, seminudi nell’acqua, giocano coi mitra. È la scommessa di ogni arte, stavolta senza distinzione: essere presente ora, nell’urgenza e nella rappresentatività dei suoi contenuti. Ma insieme, e soprattutto, esserci domani, cioè idealmente sempre: nella potenza con cui esprime contenuti che, un giorno, ci lasceranno di per sé indifferenti.
Piuttosto che l’11 settembre 2001 – massimo inganno dell’iper-realtà, il suo convincerci di non essere tale – forse un giorno, e più modestamente, vedremo una data epocale, per la letteratura, nel 12 settembre 2008. Se ha dimostrato qualcosa la morte di David Foster Wallace è che, moderni o postmoderni che si sia, scrivere e leggere può lasciarci perfettamente indifferenti o, al contrario, fare un’enorme differenza. Mi sono riletto quel che DWF scrisse di David Lynch, il cui «vero e unico obiettivo», secondo lui, era «entrarti nella testa». DWF era uno che sapeva spiegare le cose, e spiega benissimo come Lynch in effetti ci entri in testa. Naturalmente, così facendo c’è entrato anche lui, DWF. Con le sue euforie e i suoi ripiegamenti, con la malinconia impaurita di chi è sempre in fuga dal silenzio, col bruciore degli occhi ipercinetici quando sono stanchi, la sera. Con la tentazione di chiuderli, una buona volta, e mandare tutto al diavolo. Scrittore postmoderno? Facciamo scrittore, e basta.
La rivincita dell’inatteso
È come con la crisi finanziaria. Non si può dire non ce ne fossero indizi, eppure ha preso tutti di sorpresa. Anche in letteratura è successo un po’ lo stesso. Era un po’ che se ne stava lì in latenza, inibito, ogni tanto qualche timido tentativo di sortita. E poi, un giorno, eccolo improvvisamente tornato parola d’ordine. Quale? Il caro vecchio realismo, certo. L’industria culturale ha sempre bisogno di formule semplici da ridurre a slogan. È già pronta la saga: Il ritorno del realismo, Il realismo colpisce ancora, Il realismo contro tutti. Invocare il realismo – mai specificando di quale realismo si tratti, cioè di quale livello di realtà sia chiamato a dar conto – ha fatto sempre gioco alle rivincite del buon senso.
Prima è venuto il cinema, rispolverando l’album di famiglia del neorealismo delle annate buone. Poi l’invasione degli scrittori, all’ammasso dell’eterna fame di storie, fame di identificazione, fame di fatti. Basta con l’autoreferenzialità, l’intellettualismo, il bellettrismo di modernità e posmodernità per una volta unite nell’esecrazione. La pressione sociale sugli autori è massima. Qualche indizio, a un livello un po’ più sofisticato? Qualche settimana fa a Sarzana Walter Siti legge un suo testo sul realismo, lo riprende «Il Foglio», gli rispondono Alfonso Berardinelli e altri. Poi la rivista «Allegoria» esce con un questionario sul tema Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno. Il postulato è che alla fine degli anni Novanta sia emersa una generazione di scrittori che «hanno sciolto il nodo delle ossessioni teoriche e autoreferenziali postmoderne come Alessandro il nodo di Gordio: tagliandolo». Il curatore dell’inchiesta, Raffaele Donnarumma, sa di usare a sua volta l’accetta ma non rinuncia a infarcire il suo intervento di slogan come i seguenti: questi scrittori riscoprono «personaggi credibili […]. Le loro storie vanno prese per buone, cioè per vere – anche se sappiamo bene che si tratta di finzioni»; bisogna «scavalcare la prigione del linguaggio». Punti di riferimento sono individuati nello stesso Siti, in Antonio Franchini, in Mauro Covacich, ovviamente in Roberto Saviano: il quale, brandendo lo stemma di Pasolini, «rivendica una parola diretta».
Conosco Donnarumma, so che non è tipo da falò di Borges in piazza del Campo; però quando leggo che «il realismo è serietà del quotidiano» cioè una «misura di igiene», un certo sentore di arte degenerata non riesco a non avvertirlo. Più che altro mi pare strano questo discorso su una rivista che si chiama Allegoria. Se la pensano così, mi dico, dovrebbero cambiare nome in Tautologia. Poi però vedo che gli scrittori, a questo discorso, non ci stanno proprio. C’è chi è simpatico e chi decisamente meno, ma insomma «la fine del postmoderno è, in realtà, una ripresa lisergica del moderno e della storia, in un’assenza di dimensioni e appiattita sul presente» (Aldo Nove); «la vera resistenza oggi è nello stile» (Antonio Pascale)… Vitaliano Trevisan rivendica addirittura, impavido, la «fuga dalla realtà» (dato il contesto, lo abbraccerei). Certo, c’è Giuseppe Genna a spiegarci che «la letteratura è sempre fantastica», mentre per Nicola Lagioia «ogni romanzo che ha qualcosa da dire si occupa della realtà» (si vede che qualche tautologo c’è pure da queste parti).
Non starò a ripetere il mantra di Barthes, Baudrillard, Gentile, Cabrini ecc. (Donnarumma – che come s’è visto propone categorie di radicale innovazione – avrebbe buon gioco a definirli «motivi francamente datati»), piuttosto prendo il numero di «Riga» che Marco Belpoliti e Marco Sironi hanno dedicato a Gianni Celati. Uno che non so quanto sia considerato serio e credibile, igienico poi… (però posso testimoniare che a 72 anni ha un aspetto invidiabilmente sano). Fra l’altro c’è un’intervista a Sarah Hill sul documentario (Celati da qualche anno sembra preferire la macchina da presa a quella da scrivere, i precedenti illustri com’è noto non mancano); mi spavento, mi dico, certo che se pure Celati si butta da questa parte siamo al regime, è di nuovo tempo di Ždanov… invece lo sguardo «documentaristico» dei grandi neorealisti, per lui, è la capacità di «guardare tutto, dove tutto diventa singolare, come quando si visita una città in stato di innamoramento». In otto pagine d’intervista la parola realtà viene pronunciata cinque volte, e sempre in accezione negativa. All’inizio la «realtà» è quella guardata alla televisione negli Stati Uniti durante l’invasione dell’Iraq («una realtà tutta fatta di parole e decisa in partenza, che non doveva essere perturbata da niente»). Poi: «non credo che filmando il mondo esterno qualcuno mi documenti la cosiddetta realtà. Mi mostra delle cose che esistono, ma non per questo evade dalla finzione. Una macchina da presa porta con sé tutto un modo di immaginare il mondo, e trasforma ogni cosa osservata» (ecco, è precisamente questo che mi succede quando leggo uno scrittore vero – più o meno celebre, sia egli Walter Siti o Paolo Nori, Franco Arminio o Leonardo Pica Ciamarra o, si vedrà fra poco, Francesco Pecoraro – che mi racconta la sua realtà). Al posto di realtà, parola equivoca fra tutte anche senza le virgolette di Nabokov, Celati preferisce usare una ben differente categoria, contingenza: «questa mi pare l’essenza stessa del documentario: l’esposizione all’inatteso, al fuori, a una situazione contingente che diventa come una dimensione esterna dell’inconscio», insomma «qualcosa che allarghi il pensiero». Contingente, inatteso, altre volte Celati ha predicato l’impensato. Sono tutte forme di contatto, nel suo stile certo, con quella cosa che Lacan chiamava Reale, di cui Hal Foster già a metà anni Novanta constatava il ritorno (sottotitolo: L’avanguardia alla fine del Novecento). Si capisce che non è ciò che già sappiamo; non è quello che ci hanno raccontato secoli di realismo. Senz’altro non ha niente a che fare con ciò che ci ammanniscono industrie culturali e uffici di propaganda. Al contrario è proprio quello che ancora non sappiamo. Che magari non avremmo alcuna intenzione di sapere. Ma che sta lì, sulla pagina. Se apri il libro, quel libro, lo sai che sei perduto. D’altra parte è proprio per questo che lo hai scelto.
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È passato poco tempo da quando, su Nazione Indiana, volendo salutare Gianni Celati , al ricordo di un episodio accaduto tanti anni fa, univo un accenno a ciò che la lettura delle sue opere aveva rappresentato per me. Le mie parole non pretendevano nulla: erano del tutto occasionali.
Ma alla fine mi veniva spontaneo dichiarare che per me Celati era il “poeta dell’impossibile ritrovato”.
Ora, nel bellissimo articolo di Cortellessa , leggo che lo stesso Celati “ha predicato l’impensato “.
Ciò che mi viene da pensare è che le due cose tendono a un significato simile.
Sembrerebbe qualcosa di nuovo questa diatriba sul “realismo” a inizio di nuovo millennio.
Soltanto se ci dimentichiamo di quello che è già successo, però.
Chi parla oggi di “realtà” senza specificare ciò che vuole intendere, o è in malafede – alleato di una cultura di destra che sa benissimo che cosa vuole “imporre” attraverso l’uso spregiudicato di questa categoria.
Oppure.
Dopo tanti maestri che, in filosofia, hanno segnato il passaggio di millennio [un solo nome: quello che mi è più caro: Richard Rorty]. Oppure sono ignoranti.
Certo può capitare l’impensato. Ma darebbe ragione agli avversari del realismo.
Altrimenti, ditemi il perché io dovrei leggere un libro di un ignorante che pretende di spacciare le sue fantasie come lettura della “realtà”.
Non succede mai niente di nuovo:
“[…] abbiamo forse per la prima volta l’evidenza di due modi d’uso diverso della finzione scritta che convivono nella stessa società: l’uno promosso come adeguato ai principi conoscitivi sui quali la civiltà occidentale si va orientando, l’altro respinto e tenuto per forma inadeguata alle conquiste conoscitive avvenute”
GIANNI CELATI, Finzioni occidentali . Fabulazione, comicità e scrittura. Einaudi 1975, pag. 5.
Non vi dirò di quale periodo si tratta, né di cosa Celati parla effettivamente.
grazie Domenico, dei tuoi preziosi contributi.
bello leggere pagine così, come altre, diverse, ma non meno indispensabili dei tanti nostri critici, italiani, che ci fanno onore (ripenso a certe bellissime pagine di Rizzante, una delle ultime proprio su Celati, se non sbaglio, e ancora ad altri articoli di Christian Raimo, di cui non ho mai smesso di rimpiangere la mancanza e tanti tanti altri, da Marco Giovenale a Giancarlo Alfano a Cecilia Bello M…ognuno con il suo stile inconfondibile e la sua direzione d’orchestra ogni volta magistrale, con cui si può essere o meno d’accordo, ma mai dubitare che sia assolutamente necessaria…quanto basta per interrogarsi: di quale decadenza ancora si discute?
a proposito poi, de
«Il genere umano non può sopportare troppa realtà» ,
questa carrellata mi ha talmente entusiasmato che mi lascio andare all’autoreferenzialità fino all’orgasmo e mi cito un paio di versi di una mia poesia in cui tanti sono citati che fa così ;-)
il problema della realtà è che ce n’è troppa
ed è sempre in movimento, abbiamo un
disperato bisogno di filtri: la pelle
come dispositivo di esclusione
indossare l’umanità come la nostra pelle.
abbiamo bisogno di tutta la protezione degli strati
saluti
Segnalo questo pezzo di Accorroni su LPELS:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/10/28/il-grido-di-cordelia/
Non so perché ma il tutto mi rinvia sotteso molto alla prosa d’arte…
”reale” è ovviamente un concetto polimorfo, è reale tutto quello che un umano sperimenta e può essere sperimentato da un altro umano..è reale nascere e morire..è reale fingere e immaginare..etc etc
qui mi sembra sia inteso nell’accezione di scenario storico sociale, di fondale etico e politico, sicuramente meno noioso a livello letterario di molti fin(t)i dicitori, e non mi riferisco all’intelligenza stilistica e politica di Celati, un saluto di buon lavoro, V.
Ho letto il dossier. La penso come Pedullà.
Un testo passa dall’essere un testo comunicativo, testimoniale, funzionale, sociale all’essere un testo letterario attraverso la forma e lo stile.
A qualsiasi tema o contenuto applicati (e senza nulla togliere al valore comunicativo testimoniale eccetera dei testi che lo vogliono avere).
Senza questo passaggio resta testimonianza, comunicazione, eccetera. E li leggiamo per altre ragioni da quelle che ci fanno aprire il Processo di Kafka.
E’ curioso che si sempre si debba ribadire che la letteratura ha un suo linguaggio specifico e che l’opera deve arrivare a compimento trovando la sua forma nella lingua.
Se non la trova sfido chiunque a digerirla, a meno che non sia un’archivista.
“Realismo” è una parola quanto mai ambigua, una convenzione che passa sopra ai testi per indicare una postura e poter parlar d’altro.
Nessuno ha mai chiesto alla musica di essere “realistica”.
Ma parole e immagini, proprio perché servono anche ad altro, perchè sono utilizzabili anche per intervenire nel sociale e nel politico, soffrono di questo statuto ambiguo.
Non capisco cosa intende Donnarumma – che non ho letto se non qui, brevemente citato – con “scavalcare la prigione del linguaggio”, se la scavalca dev’esser ben bassa, caso mai la forzerà, e se la forza finisce a capofitto nello stile, ma leggere che è una misura d’igiene mi fa pensare a un presidio medico sociale, a un consultorio.
Caro Andrea,
dunque, quello che volevo dire l’altro giorno è che se la situazione fosse veramente disperata sarebbe tutto più semplice, si sarebbe giocoforza più schematici, quindi più radicali. Per ridurre il valore astratto alla proposizione ‘questa è una cultura di Morte fatta da Morti’, basterebbe prima di tutto togliere le maiuscole e poi considerare che non sono tutti vivi quelli che vediamo in giro, e anche noi siamo morti e vivi in proporzione, a seconda di quanto ‘sappiamo’ sontuoso il vivere.
In quel caso (se la situazione fosse disperata) ci sarebbe chiaro che ormai abbiamo interpretanti troppo forti e univoci che non interagiscono tra loro, e che, al di là delle apparenze, esiste ormai solo l’esattezza, la griglia prototipica, le decisioni predeterminate e stabili nel tempo, e che il mutevole non è più base di stabilità. E poi che non siamo più in grado di sovrapporre stati di incertezze a certezze, visto che il principium analogandi non è più alla portata della nostra mente. Ci sarebbe chiaro che il pensiero non tende più a espandersi nel massimo del territorio che può raggiungere, e di non essere in grado di farci modificare dalle forme di vita, e che le nostre decisioni sono morte e non ce ne siamo accorti. E infine che la corripondenza tra ordine esterno e interno è stabilita nell’assenza dell’esterno.
In quel caso il senso di difficoltà che avvertiamo costantemente sarebbe dovuto al fatto che non associamo le cose facilmente, ma invece fatichiamo per tenerle distinte, e di concerto siamo preda di quello che dicono strabismo etico, vale a dire tutti d’accordo su quello che si deve fare, basta che non riguardi la nostra personale assunzione di responsabilità.
In quel caso forse, se ci rimangono delle forze, si potrebbe riportare l’attenzione sul fatto che l’attività del sistema nervoso autonomo, il cervello antico, si è affievolita in modo abnorme, anzi si può dire quasi atrofizzata, mentre quella della corteccia cerebrale è intensificata in misura esagerata (mi è venuto in mente un paragone tra Fargo dei Coen e A prova di spia. Sono due film sui meccanismi della stupidità: se il primo funziona a meraviglia e il secondo no, al di là del gigioneggio degli attori, non sarà perché il livello di stupidità comune è nel frattempo cresciuto a dismisura?). Allora in quel caso, se proprio proprio quella mente avesse ancora voglia di vita, sarebbe necessario per lei prendersi in giro, alle spalle per così dire, e il linguaggio sarebbe un buon terreno per farlo. Visto che sarebbe un’ultima istanza, forse si troverebbe il modo di imparare nella scrittura un atto ‘fisico’ di arrendevolezza e fiducia, assumendo pian piano un tipo di certezza che ha sapore naturale (che lo sia o no, non avrebbe senso chiederselo). Si inserirebbe quel po’ di scrittura nel flusso della realtà in divenire, e noi lettori potremmo usufruire di una mente un bel po’ più ampia e collaborativa. Se la situazione fosse disperata si sarebbe solo coscienti che le parole ‘sanno’ fino a che punto sono fallimentari.
Si vede però che la situazione non è affatto disperata, se si dà credito ai funzionari del Ministero dell’Interno, che si fanno forza della mediocrità e credono addirittura che si possa riprodurre un fatto con le parole, senza accorgersi che il solo pensarlo è reazionario (qui vale anche ‘portatore di morte’).
A mio modesto parere, modesto in quanto ‘naturalmente’ ma pure ‘accuratamente’ marginale, non li scusa il fatto che non se ne accorgano, così come non s’accorgono che l’assoluta imposizione di immobilità che prova la mente durante la lettura, ad esempio, di Gomorra contiene un messaggio forte e chiaro: ‘la camorra è imperitura, rassegnatevi, non ci si può far niente tranne la solita manfrina della lotta alla camorra’ (che Saviano sia diventato un’icona del movimento studentesco è un segno dei tempi). La rinuncia realista a supporre realtà più recondite non è solo argòs logos, non solo rassegnazione, pigrizia e flaccidume mentale, ma è corsa al posto fisso, quello nella pubblica amministrazione e anzi oserei dire nell’ordine pubblico, pratica che va scomparendo in ogni altro ambito lavorativo e invece sopravvive nella letteratura (da recente statistica il 25% degli italiani vuol diventare scrittore).
Ergo, checché ne dicano mettimale e poeti (il che è lo stesso) la situazione non è affatto disperata come ci vogliono far credere…
La realtà dei personaggi elettrici amplifica la mia irrealtà. A voler essere eccessivamente realistico-documentaristi, di questi tempi, si diventa neurofantascientifici. g.g.
da La storia elettrica di Al
“Ora, cosa gli restava? Forse l’arditezza sbiadita nell’ologramma scricchiolante e prossimo a disconnettersi? L’arditezza era solo un qualia che la coscienza di :raffaelle gli aveva indotto attraverso una transcoscienza prioritaria.
La bramosia, il desiderio, la passione del corpo atavico ed archetipico di lei che fluoresceva sulla dissolvenza della Grande Madre Analogica. Dipinta sulle nove punte della sfera inscritta nel solido perfetto. Il filo nella cruna.
:raffaelle reclamava diritti ineguali, al di là di emancipazionismi vecchi,
puzzolenti di politica.
Al parlava di realtà pol-etica, pol-etilica, an-pol-etil-acea, e via di seguito, come nell’inventario organico delle forme chimiche di monomeri e polimeri.
Scordò di accudire i suoi gattini, quel giorno, e biasimò la sua immagine transiettata sul muro. Gli specchi gli restituivano un’immagine sfocata della realtà. Il transdispositivo che lanciava fasci di coscienza fuori dal corpo per tutta la stanza, rivelò, come al solito, che il difetto sostanziale si nascondeva in Al.
Gli specchi sorrisero. La realtà è realtà. Fuori o dentro te, pensò Al, e si
lasciò cadere in un profondo sonno, gli specchi… funzionano, l’orgone fluttua regolare. La roba, stavolta, è davvero buona.”
Grazie.
“Nessuno ha mai chiesto alla musica di essere “realistica”.”
le note non hanno un referente, come invece le parole.
non è ambiguità, è un differnte statuto.
(esiste poi anche la musica cosiddetta “concreta” che ha a che fare col suono normalmente prodotto dalla realtà).
cos’è un suono normalmente prodotto dalla realtà?
Ammetto che era una domanda provocatoria e mi pento.
Tu non parli di suono, ma di rumore.
La musica concreta manipolava i rumori ambientali, e manipolandoli ne cambiava lo statuto.
Se tu registri un parlato e lo usi “tal quale” , come i rifiuti, potrebbe essere considerato “rumore” linguistico, (non mi azzardo a dire lingua saussuriana per non infognarmi in una discussione che mi costringerebbe a un ripasso forzato).
Ma la letteratura manipola la lingua. Sennò che fa?
I referenti sono i materiali su cui lavora la lingua di un autore.
Nel momento in cui cominci a manipolare cominci la tua marcia verso lo stile. Che tu lo voglia o no.
Credere che la realtà (qualunque cosa sia, perché se io sono naturalmente visionaria, o fumata o anche solo daltonica potremmo cominciare a perdere la testa) passi nel testo “tal quale” è un’ingenuità di cui non ti faccio carico.
Il realismo è una finzione come un’altra. E nella poetica esplicita di uno scrittore ha più a che vedere con la sua visione di sé, in qualsiasi modo maturata, che con il testo che produce.
E nel discorso critico pure.
Quando Donnarumma dice che i personaggi di Siti sono credibili e le loro storie vanno prese per buone, cioè per vere anche se si tratta di finzioni, dice che Siti ha ben usato lo stile.
Cioè ha ben manipolato e lavorato sui referenti.
Cos’altro aveva in mano? Lo stile è l’unico strumento a sua disposizione. Tutto quello che fa lo fa con la lingua, non assembla materiali, non riporta verbali di polizia, non sbobina colloqui registrati, non scatta polaroid. E se anche facesse tutto questo non lo butterebbe a caso sulla pagina, lo organizzarebbe perché acquistasse un senso leggibile. O no?
Ma non lo vuol dire (mi scuso con Donnarumma se lo sovrainterpreto, ma mi attengo a quel che leggo qui), e perché non lo vuol dire? Questo mi interesserebbe sapere. Cosa vuol far passare dietro l’idea di credibile, buono e vero?
Una visione sociale?
E chi mette dalla parte dei non credibili, non buoni, non veri? Celati? Landolfi? Gadda magari? Non so, tiro fuori nomi a caso.
Parlo a Donnarumma perché tash intenda e faccia una piccola rissa con me.
“Ma l’uomo è questione di stile”
ha detto un laconico saggio.
Se stile poi manca, coraggio:
un asino raglia e poi muore.
@alcor
non intendevo inter-venire nel merito del realismo, non ho le idee chiare, anzi non ho idee tout court.
dicevo solo della musica, delle parole e delle differenze abissali che inter-corrono tra le due modalità espressive.
so solo che le narrazioni mi piacciono parecchio quando esalano profumo di “realtà”, parola che, come diceva qualcuno di cui non ricordo il nome, non si può scrivere senza virgolette.
ette.
*[…] le narrazioni mi piacciono parecchio quando esalano profumo di “realtà”, parola[…]*, dice Tashtego.
Così va bene.
Ancora più bene andrebbe: “realtà.parola”.
Così tutti capiremmo che per sapere quale sia il senso della “realtà.parola” di cui dovrebbero essere impregnate le narrazioni per piacere a Tash, non dovremmo cercare di capire che cosa sia Realtà, ma quali sono le fantasie, le ossessioni, i ricordi, le finzioni, le conoscenze che Tash associa a questa parola.
E che risulta impossibile – realmente – che lui trovi qualcun altro che le condivida a priori.
Messa in questo modo è indubitabile che siamo tutti “realisti”.
Ma si tratta, ancora una volta di un incontestabile “linguaggio privato”. Abbiamo sì in comune la parola, ma soltanto quella.
Quello che ci mettiamo dentro, o dietro, non lo sappiamo nemmeno noi. Figurarsi pretendere di imporre agli altri che la sentano nello stesso modo.
E’ come l’araba fenice: che ci sia ognun lo dice, cosa sia nessun lo sa.
“Abbiamo sì in comune la parola, ma soltanto quella.”
Dissento.
Abbiamo in comune moltissime cose, quasi tutte.
Siamo individui solo per una porzione molto ridotta della nostra mente e del nostro corpo e per di più la maggior parte dell’individualità è genetica.
Tutto il resto è fortemente (fortunatamente) tipologico, altrimenti non potremmo uniformare i comportamenti in modo così accentuato.
Quindi, non ostanti tutte le possibili obiezioni filosofiche, possiamo di fatto parlare di “realtà condivisa”.
Per scrupolo ci mettiamo le virgolette, ma solo per marcare l’ambiguità statutaria della parola, non per negarne la legittimità/necessità.
Le teorie del reale sono molte, la prassi è invece ovunque più o meno la stessa e bisogna ammettere che ci impedisce, per esempio, di andare sotto il tram quando attraversiamo la strada.
La realtà ha bisogno di parole per essere detta.
Le parole hanno bisogno di realtà per essere condivise e comprese.
Difficile quindi distinguere il piano della pura percezione da quello della comunicazione: nulla di ciò che è percepito esiste “veramente” se non è comunicabile, se non è narrato, raccontato, detto, condiviso.
La realtà, per esistere, necessità di incessante narrazione.
Per quanto lo si voglia negare, le parole non si staccheranno mai dalla referenza del reale, pena il crollo del significato.
E il significato, si ammetterà, per una parola è tutto, o quasi.
no “necessità”, ma “necessita”
Scusate, temo di essere in ritardo.
Senza addentrarmi troppo nel merito della questione (che per certi versi è complessa e spinosa, per altri, come rileva bene tashtego, è assai più semplice di quanto appaia), vorrei solo far notare che, di per sé, l’idea di “stile” è ambigua e vuota quanto l’idea di “realismo” e formule come “il realismo è una finzione come un’altra” o “la letteratura inizia quando c’è lo stile” sono tautologiche quanto quelle proposte dagli alfieri del “ritorno al reale”.