Le conseguenze della cura
di Marco Rovelli
Tre racconti, tre piccole ma intensissime geometrie del desiderio. In La memoria dei vivi Rossella Milone disegna con una traccia di scrittura nitida e lieve i movimenti di attrazione e repulsione tra corpi. Movimenti sempre triangolari. E di genere. C’è sempre una donna che si confronta con l’alterità maschile – e c’è sempre un mediatore del desiderio, un’altra donna, che la fa deragliare dalle sue cecità.
In due racconti l’alterità maschile è il padre: morto ne Le gioie dei morti e vivo ne Il centro di niente, ma in ambedue i casi di una presenza eccedente. In particolare Le gioie dei morti (che racconta dell’incontro di due sorelle da tempo prive di rapporti, un incontro appunto “nel nome del padre”, che non farà che riannodare silenziosamente antichi odi e lontananze) è un racconto tragico – e non tanto per il riferimento esplicito all’Edipo. E’ tragico perché ogni personaggio è come necessitato a fare quello che fa – non c’è scampo né salvezza, ma solo le conseguenze della colpa. E allora è proprio il gatto Giocasta a far balenare l’impossibile salvezza: perché “Giocasta non è umana, e nel suo inconsapevole agire risiede il perdono che si dà ai bambini e ai pazzi e ai vecchi”.
Nel racconto iniziale, quello più intenso, Leucosia, l’alterità maschile è invece il marito. Un marito in limine mortis, una malattia gli sta facendo perdere capelli, peli, capacità di trattenimento escretorio – perde peso, forma, consistenza. Ogni segno, insomma, viene eroso, sottratto: quel corpo in disgregazione, che va perdendo ogni sua connotazione, viene progressivamente desemantizzato. E perciò diviene puro oggetto di cura, schermo bianco perfetto per proiettarvi sopra tutto l’amore invasivo e apprensivo della moglie. E mentre lui, disgregandosi, si trasforma in padre e figlio nel medesimo tempo, lei diviene sempre e solo più madre. Si automutila, si nega ogni bellezza. Si nega la vita. E così facendo, la nega anche a lui. E innesca un circolo di colpe, di non-detti, di attese e false promesse. “Il vincolo dell’amore e della gratitudine”. Un circolo vizioso da cui si può uscire solo in un modo: la moglie, per tornare a essere tale, deve smettere di essere madre, e imparare invece a essere figlia. (E lo imparerà da un’altra). Lasciarsi dare invece che solo dare. Lasciarsi curare invece che solo curare. Trasformare l’apprensione in apprendimento. E, così, divenire compiutamente “soggetto”, e permettere all’altro di esserlo.
Questo movimento è tanto più necessario oggi, in tempi in cui il problema dell’altro lo viviamo quotidianamente in maniera sempre più feroce. Non c’entra nulla col soggetto del libro, ma c’entra, io credo, con il suo senso: quante volte, per esempio, non ci accorgiamo di quanto la semplice compassione per il diverso sia una forma diversa per minorizzarlo, per renderlo inferiore. Di come, dunque, non sia che un’altra faccia del razzismo.
Rossella Milone, La memoria dei vivi, Einaudi, 12 euro.
(pubblicato su l’Unità il 24-10-2008)
vorrei donarvi questo. Grazie.
da Trilogia dell’apparenza.
Il padre.
Ho tralasciato la dimestichezza col nulla disarmante del racconto in cui narravi del padre che spesso di notte andava in cerca d’amore e una notte, l’attesa impaurita e pruriginosa di un peccato dovuto ma non necessario, vide che tra i giovani non ancora adulti c’era un ragazzo a lui familiare. Ho lasciato correre ché il tempo adatto t’avrebbe colto, come un giardiniere le sue rose, e avresti raccontato. Il padre, quella notte, sfarò due volte all’indirizzo del giovane, a malapena distinguibile dalle sue precise ombre e da quelle più indeterminate dell’ambiente, sai come? Con i lampioni in serie che duplicano un corpo in dimensioni plurime. Quella notte il padre fissava il giovane e il ragazzo seminudo, col volto violentato dalla luce che ti rapisce, -lo sai come, te ne ricordi, sì?-, strappato al rassicurante anonimato, ci si sente nudi, non per altro, non che fosse svestito, solo la sua identità proiettata senza pudore sull’immaginario perverso dei suoi possibili clienti; il ragazzo abbagliato teme sempre il più possibile dei casi, il più contrito scontro con la pula, ogni ragazzo lì, col corpo non più del tutto suo, realmente, e non ancora virtualmente di qualche altro uomo, tende a sollevare il bavero del cappotto a guisa di maschera, non si sa mai, lo sai, e non è difficile, abbacinanti i fari avidi d’amore, pigliare un abbaglio, sbagliare e vedersi aspettare da qualcuno che ti conosce. Un amico, un parente, un coinquilino della vita che conduci di giorno, quando nemmeno tu, a volte, sospetti di essere esattamente come sei. Qualcuno che non ti conosce, infine. Via, ramon, capita! Ed è un accadimento tragicomico. Ma quella sera, il ragazzo accecato dai fari con la mano sul volto, capì che si trattava proprio di un cliente. E lui, non s’è mai fatto pagare. Non ha mai fatto la puttana. Ha solo seguito in istinto parallelo a quello della sopravvivenza. Soltanto quello, ed era già tanto.
Del resto un padre, di notte, ha pure lui una paura fottuta di vedersi accostare un’altra vettura non per farsi abbordare ma una fatale sventura, un incontro incongruo nel limite di un parcheggio, pur sempre un parcheggio, nei confini di un territorio normale. Che ne sai? Un uomo che incontra un collega d’ufficio, classicamente stupito e compiacente di quel ricattante segreto (ma in fondo non sempre, ché spesso c’è di mezzo la provvidenza umana a salvarci dal castigo divino, di un dio che paga l’eterno con l’eterno non-scendere a patti col mondo), pensava questo il padre, nella frazione di un secondo, pensava senza accorgersene, automaticamente. È finito. Grazie al cielo. Il ragazzo affonda la mano della maniglia della portiera. Apre. Sorriso di benevola accoglienza: a prescindere da tutto, conta solo l’incontro, col tempo forse anche il resto, l’essenza di una persona, il suo esserci al mondo. L’uomo è a tre quarti con un braccio attorno al volante e l’altra mano artigliata al poggiatesta dell’altro sedile. Il ragazzo è bellissimo. Afferra la maniglia. Lo sportello scatta. Il ragazzo è in macchina. L’uomo lo fissa. Il ragazzo mantiene lo sguardo dritto avanti a sé. Alcuni secondi. L’uomo strozza in gola il convenevole “ciao, cosa ti piace fare?”
Il ragazzo ha il viso scoperto.
Ora è al sicuro.
Si volta e sorride ma… Quell’uomo è suo padre.