Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato 13
[18 immagini + lettere invernali per l’autunno; 1,2,3,4,5,6,7,8,9,10,11…]
di Andrea Inglese
Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,
che tu sia muta, e lo sia di circostanza,
come se fosse questo
un riguardo nei miei confronti, un modo
preoccupato, quasi apprensivo,
di accogliermi, di farmi tuo ospite,
con un piacevole senso di privilegio,
di compimento, non so, non credo,
è quanto dovrebbe risultare
da un’analisi benevola dei fatti,
ma non posso, in tutta sincerità,
abbandonarmi a questa benevolenza,
che tu sia muta, è un fatto,
il perché tu lo sia, è il fatto
che tu vorresti sottintendere,
se così io lo capisco, se ti capisco bene, io,
nel tuo silenzio, ma sono
i tuoi mutismi
che io contesto,
il loro succedersi e organizzarsi,
con un loro filo, una massa,
progressivamente percepibile,
e che sfugge alla determinazione
dei tuoi pretesi sottintesi,
questi mutismi, malgrado il tuo silenzio,
fanno dottrina,
la fanno qui,
ogni volta,
di fronte a me.
Come se la mia voce da sola,
e le lettere che la sostengono, e portano
avanti nello spazio,
come se questo sforzo,
fosse vano, come se il segnale,
non fosse mai partito,
nulla di fatto, di costruito, di sottratto.
Io nel mio pieno. Nell’irriconoscibile pieno.
Non mio, di nessuno, adesso.
Il silenzio fa male, molto male.
Questa volta non ho alcun dubbio sull’immagine, Inglese.
E ancora di meno sulla poesia.
Quei due versi, finali.
Finali non solo perchè sono la fine della poesia:
“Io nel mio pieno. Nell’irriconoscibile pieno.
Non mio, di nessuno, adesso.”
ma anche perchè sono la fine della poesia.
La mancanza di una lingua che ci unisce agli altri,
ci toglie anche la possibilità di riconoscerci.
E non siamo.
“Come se la mia voce da sola,
e le lettere che la sostengono, e portano
avanti nello spazio,
come se questo sforzo,
fosse vano”
Ultimamente spesso mi capita di pensare sia così.
Molto bella anche questa n.13.
un interlocutore muto ma, peggio, sordo.
Sordo perchè non viene scalfito dalle parole, dal loro senso rotondo in questo tuo 13esimo arrotolarti su te stesso.
tu sai che le tue parole non hanno destinatario, tu sai di parlare con un ente inesistente
nel chiederti il perchè del suo silenzio, ti chiedi il perchè del tuo bisogno
e la risposta non ha senso, non avrebbe senso, perchè non c’è una risposta
è solo l’errare d’un “io” che si distacca e che si cerca e non si riconosce.
questa è la mia lettura, la cosa che mi attrae “convincendomi ad abitare” le tue lettere.
molto bella
monologando con le lettere 12 e 13, un omaggio domenicale ;-)…
che cosa
al di là dello spazio e del tempo
del superspazio del super tempo delle superstringhe
del superuniverso infinitamente finito
forse una spumola una spongia o soltanto
un reticolo una specie di
o qualche distruttura
aliena e astratta
aliunde ipototipotizzano
dunque farfalle nere stelle nere costellitudine
nigricità celeste luci buie cosmossìmori
solitronitudine
rallentare le stelle qualche milione
in un ammasso globulare –
raffreddare quell’ammasso magellanico…
cimiteri stellari l’inimmaginario
eppure tu parli tu scrivi tu leggi
di ammassi globulari defunti perenti
di cadaverità le quasi-stelle
il quasi-cielo il quasi-cosmo il quasi-nulla
il quasi-tutto il quasi-quasi-quasi
quam si
si precipita nel buco
del culo azzurro
(dal magnifico Gianni Toti, “strani attrattori”, Empiria Ediz)
;-) saluti a tutti/e
caro andrea
poesie come queste mi pare di capirle assai bene.
un minuto per leggere questa poesia, un minuto speso assai bene.
arminio