Articolo precedente
Articolo successivo

I “miracoli” di Spike Lee


di Gaetano Liguori

[oltre a essere uno dei jazzisti più bravi della scena nazionale (e non solo), Gaetano Liguori è da anni recensore cinematografico. Mi ha girato questa sua sul film Miracolo a Sant’Anna che io volentieri pubblico. G.B.]

Estate del ’44, i tedeschi e i fascisti (non dimentichiamolo) sono attestati sulla linea Gotica, un’impressionante serie di difese naturali date dall’Appennino tosco-emiliano, bunker, fortificazioni che per circa trecento chilometri tra Massa Carrara fino a Pesaro, divideva l’Italia. Lo sfondamento di questa linea era essenziale per gli Americani, che combattevano in Italia dal Settembre del ’43, e che già avevano provato la determinazione della Wehrmacht in battaglie come Montecassino o Anzio.
Nella parte toscana ai primi di Agosto del ’44 l’esercito tedesco si trovava a nord dell’Arno tra Pisa e Firenze, fece saltare i ponti e si attestava nella valle del fiume Serchio tra le Alpi Apuane e Massa. Il compito di cercare di sfondare in quell’area venne affidato da parte del comando Americano alla 92° divisione Buffalo. Tutto chiaro per un antefatto storico ad un film di guerra, se non fosse che il battaglione era formato da uomini di colore e che il regista del film è il grande Spike Lee, cantore cinematografico negli ultimi 20 anni dei diritti degli Afroamericani.
Per i primi 30 minuti siamo in pieno film di guerra genere classico, un Sam Fuller un po’ più ricco; si evidenziano i primi caratteri all’interno dalla “pattuglia sperduta”, caratteri virili classici da “Sporca Dozzina” o “Soldato Ryan”. Si assiste poi ai primi episodi di razzismo, quando un graduato bianco (dopo caporale, tutti i sottufficiali ed ufficiali dovevano essere bianchi) non dà l’appoggio dell’artiglieria ad un piccolo gruppo di soldati che nel Dicembre del ’44 si trova a combattere al di là della linea del fronte. Questi sono i primi due film, quello di guerra e quello sull’integrazione razziale, qui entra il terzo film quello “esoterico” tipo “Codice Da Vinci” che con continui rimandi tra presente e passato aggiunge un tocco magico alla storia. L’entrata di un ragazzino, che ricorda il pinocchio di Comencini, ci potrebbe far sorridere se non fosse che nasconde un terribile segreto, perché è l’unico sopravvissuto alla tremenda strage di S. Anna di Stazzema: ora la storia si fa seria ed anche un po’ irritante. Dialoghi prolissi e di maniera rallentano l’azione, la caratterizzazione dei soldati di colore risulta banale, ma il clou si raggiunge con l’entrata in scena degli italiani, prima gli abitanti di un paesino, e poi i partigiani tutti rappresentati in maniera folkloristica e senza una minima verosimiglianza psicologica.
Abbiamo impiegato 60 anni perché la verità saltasse fuori dal famoso e tristemente noto “armadio della vergogna” dove lo Stato ha nascosto per anni i fatti e che ancora adesso si fa fatica a ricostruirli, troppi erano gli interessi in ballo: far passare il massacro come una reazione emotiva dei tedeschi alla resistenza di alcuni sparuti partigiani mi sembra un po’ troppo. Esisteva l’ordine da parte del generale Kesserling che per ogni soldato tedesco morto venissero uccisi 10 inermi civili, ma questo ordine fu superato dalla furia delle truppe tedesche, formate non solo dalle “SS assetate di sangue”, ma anche dalla Wermacht di cui facevano parte fanteria, truppe corazzate, alpini di montagna, reduci dal fronte russo, truppe non tedesche formate da Ucraini, Rumeni ecc… I numeri parlano chiaro sulla linea gotica la Wehrmacht perse circa 75000 uomini, gli alleati 65.000, ma ci furono anche all’incirca 10.000 persone fra vecchi, donne e bambini che furono trucidati tra S. Anna, Marzabotto, Fossoli e centinaia di altri piccoli paesini di nessun importanza strategica, al di fuori di trovarsi sulla linea di ritirata dell’esercito tedesco. Ancora da stabilire le responsabilità dei repubblichini di Salò, che nel nostro paese, paese dalla memoria corta ora vengono equiparati ai partigiani.
Lo sceneggiatore e autore del romanzo da cui è tratto il film, James McBride, è stato più prudente del regista e ha invocato la “fiction”, ma spiegarlo ai parenti delle vittime è un po’ complicato. Tornando al film, in una toscana da cartolina risultano imbarazzanti le caratterizzazioni dei personaggi italiani che se non parlassero con forte accento toscano sembrerebbero usciti dalla pubblicità di una marca di olio d’oliva: la spregiudicata “signorina” che si concede all’esotico, il fascista rincoglionito con ritratto del duce in camera da letto, zie, zitelle petulanti, festa sull’aia con balli e fisarmoniche (meno male che i mandolini li hanno lasciati a Corelli in quel di Cefalonia). I partigiani sono quel “casual tanto basta” e si dividono in buoni e idealisti, traditori e cinici, con un finale in stile paradiso quanto meno incomprensibile con Lo Cascio in abito bianco alle Barbados.
Per chi ama il cinema e pensa a capolavori come “Lola Darling”, “Fa la cosa giusta” oppure “La 25 ora” non può non dispiacersi di vedere questa caduta da parte di Spike Lee, che se invece di “Miracoli” avesse affrontato il problema del razzismo non solo da parte degli americani, ma anche degli italiani, che sono sempre meno “brava gente”, allora forse ci potrebbe dare un film più interessante ed anche meno noioso.

Print Friendly, PDF & Email

16 Commenti

  1. Ho reagito agli ultimi 15 minuti del film ridendo insieme alla persona che mi sedeva accanto: classica reazione causata dall’umorismo involontario delle scene che mi scorrevano davanti. Sì, decisamente una pellicola poco riuscita che mi trova in sintonia con questa recensione. Che peccato!

    Anna Luisa

  2. A proposito di esotismo italiano: chi di voi si ricorda del sequel (ambientato a Firenze) del Silenzio degli innocenti ?
    I cineasti americani (che io amo anche quando sono terribilmente ‘di genere’), evidentemente ci vedono così ? Fra i cattivi di quel film ricordo un povero Ivano Marescotti costretto a recitare il ruolo (marginalissimo) di un pastore sardo (vestito però come un buttero) sadico e ed efferato sicario. Vi ricordate la scena dei maiali assassini ? Ecco: all’estero siamo questo: uomini di natura, vicinissimi allo stato ferino (e fin qui la cosa non mi disturberebbe neanche più di tanto); ma – in più – degenerati: sadici, feroci, etc.
    ggg

  3. Non sono molto daccordo. D’accordo non è un capolavoro. Ma bisognerebbe analizzare più il cinema, Cinema non resoconto storico, non documento né documentario.

    Non c’è bisogno di invocare la fiction quando è il mezzo cinematografico a comandare come non c’è bisogno di invocare il femminino quando si legge Dan Brown.

    Dopotutto nella 25ora erano i silenzi a comandare, i fari nella notte sparati al cielo come l’impossibilità di dimostrare che il venticinquesimo sogno era un’amara truffa.

    Qui Spike e (qui mi cito) “dall’oltreoceano va a Sant’Anna per difendere un vicolo di terra scosceso, per conservare a tutti i costi l’innocenza dalle sembianze di un Angelo smarrito nella follia di un massacro marchiato a freddo 1944, per non dimenticare, per difendere un’appartenenza sbeffeggiata e la propria dignità d’esseri umani, per poter credere ai miracoli, per poter credere di nuovo ai miracoli anche quando i colori si sovrappongono, si confondono e si annullano, come l’innocenza e la colpa, come il patriota e il traditore, come l’amico e il nemico, come l’adulto di cioccolato e il bambino di ferro.”

    In Miracolo a Sant’Anna non c’è la semplificazione.

    Di miracoli si tratta, come la 25esima ora di un giorno che non c’è perchè Monty è condannato.

  4. Sottoscrivo. A me non hanno convinto neanche le scene di guerra, perché l’imprinting di “Salvate il soldato Ryan” è troppo forte.

    Comunque mi è caduto un mito. Ho sempre letto le recensioni di Lietta Tornabuoni con una sorta di timore reverenziale, come di fronte alla maestra. Sull’ultimo Espresso esalta questo film, e definisce “le polemiche che hanno preceduto e accompagnato il film”, cioè questo articolo per esempio (e il mio, su LPELS), e la stroncatura di Paolo Mereghetti, tanto per fare un nome (http://www.corriere.it/cinema/08_ottobre_03/miracolo_anna_mereghetti_critica_d907931e-911b-11dd-9f28-00144f02aabc.shtml), “prive di senso, frutto di incultura, di localismi, di dilatazione dei media”. Per dire, irritarsi per la falsificazione storica di un evento come la strage, sarebbe un localismo.

    Per il resto faccio i complimenti a Liguori che, da musicista raffinato, sa pure scrivere bene.

  5. Condivido pienamente l’analisi. A me non è piaciuto per niente. L’unico motivo valido e interessante – e cioè la partecipazione della comunità afroamericana alla guerra antinazista – si è quasi subito arenato in un pasticcio pseudostorico senza capo né coda. Non basta parlare dei temi alti e drammatici della storia per fare un buon film, così come non ci si può nascondere dietro l’alibi della finzione.

  6. Non ho visto il film, quindi non ne commento la qualità.
    Solo mi chiedo: se Spike Lee voleva fare un film sul razzismo nell’esercito americano, a che pro mettere in mezzo la strage di Sant’Anna di Stazzema?
    E se proprio voleva farlo, possibile che non si sia reso conto di che razza di nervo scoperto andava a toccare?
    Su una recensione ho letto che nel film uno dei partigiani dice qualcosa come “in fondo noi siamo uguali ai fascisti”. Ecco, da uno come lui proprio non me lo aspettavo. Che cosa direbbe, lui, se qualcuno gli venisse a dire che, in fondo, fra Malcolm X e un attentatore delle Twin Towers non c’è poi tanta differenza?

  7. @ Baldrus
    Ho letto ora la tua recensione su LPELS, che mi era sfuggita.
    In uno dei commenti hai evocato il fantasma di “Cinzia da Boston” (ci siamo capiti, vero?). Davvero azzeccato, se il film di Spike Lee è come penso ce sia…

  8. Giuseppe mi pare si avvicini al cuore del problema… la maniera con cui una cultura dominante sotto ogni profilo, e cioè quella americana, pretenda di leggere tutto il reale (e quindi la storia e ogni storia) con il suo linguaggio e con i suoi problemi, dimenticandosi degli uomini altri e dei contesti altri… che è la base di ogni buon razzismo.

  9. Io parlerei semplicemente di film sbagliato. Completamente sbagliato, certo. Ma diciamo pure che il buon Spike è andato a impelagarsi in un tema che proprio non gli appartiene. Perchè se si vuole parlare di guerra “interna” agli eserciti, lotte di classe e diritti razziali, non si va certo ad ambientare la storia in Italia e prendere “quel” pezzo di storia per fare da sfondo. Il bambino, poi, sembra, la peggiore degenerazione del figlio di Benigni ne LA VITA E’ BELLA. A Spike Lee consiglierei d non allontanarsi troppo da New York City per i suoi prossimi lavori. Altrimenti vado io a trovarlo e a farmi resistuire i soldi del biglietto. Quindici euro di debito con me, caro amico Spike! Passi per stavolta, ma la prossima…

  10. a Marco Ottaiano
    il punto è: come fa uno come Spike Lee a sbagliare un film? non sarà che voleva fare esattamente quello che ha fatto?

  11. sono stato frainteso…
    io non ho niente contro le licenze, che un cineasta DEVE prendersi rispetto a una storia di matrice storica. Sì, perché non è solo un suo diritto, ma proprio un dovere: lavorare di fantasia, sulla base del materiale storico da cui prende le mosse. Ma bisogna saperlo fare. Quando Huxley scrisse i Diavoli di Loudun (ora sto parlando di uno scrittore, ma è la stessa cosa, in questo caso), disse che aveva ‘inventato’ solo i dialoghi. la questione è delicatissima. Non intendevo bacchettare Lee invocando la necessità di un’aderenza alla verità storica (da reportage) difficile da mettere in opera. Anche perché fra l’altro, in questo caso, non si tratterebbe di un’operazione di natura estetica ! Ma esistono, da un lato, dei codici, da rispettare, o meglio: da tenere a mente (diciamo così per semplificare); e dall’altro esiste la questione etica: entrambi gli aspetti sono ineludibili quando si frequenta il ‘genere’ storico: il romanzo storico e il film di ispirazione storica… Lee non è Olmi, né Visconti, né Leone… La narrazione storica è un genere nobile, difficile, periglioso. Questo intendevo dire. Sul Corsera, all’indomani dell’uscita del film nelle sale ho letto un commento di Monicelli abbastanza indulgente, che mi ha sorpreso (Monicelli è un buon esempio di trattamento libero della materia storica, libero e tuttavia rispettoso della complessità del reale nella dimensione dell’ “alterità” che è propria del passato); Monicelli difendeva, in sostanza, la libertà creativa del cineasta. Nello stesso numero l’ineffabile Messori se la prendeva con gli sceneggiatori del Codice da Vinci, colpevoli di aver riempito il film di anacronismi e incongruenze. Bell’esempio di divergenza di opinioni su tema affine. Insomma: i cineasti (e i romanzieri) sono liberi di fare con la materia storica quello che vogliono ? O hanno le mani parzialmente legate ? …

  12. “Anche perché fra l’altro, in questo caso, non si tratterebbe di un’operazione di natura estetica !”

    Il cinema non è “estetica”, non è un quadro o un accessorio, è CINEMA, ovvero movimento.

    “La narrazione storica è un genere nobile, difficile, periglioso”

    Narrazione la si lasci ai narratori, la storia agli storici.

    “Insomma: i cineasti (e i romanzieri) sono liberi di fare con la materia storica quello che vogliono ? O hanno le mani parzialmente legate ? …”

    Certo, quello che vogliono, la storia è storia, la trama è trama, la narrativa è narrativa, l’etica è l’etica, il cinema è tutto e tutt’altro.

  13. Sono d’accordo con Marco Ottaiano. Anch’io chioserei dicendo che si tratta semplicemente di un film sbagliato. Del resto non è che abbia sbagliati molti Spike Lee fino ad oggi

  14. W-D
    vedo che non fai il benché minimo sforzo per ‘ascoltare’ l’altro.
    Risponderò riga per riga, perché mi sembra interessante. Per il momento mi limito ad invitarti ad una lettura più attenta dei post di chi non è d’accordo con te
    g

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Non chiamatela Banlieue

di Gianni Biondillo
Innanzitutto: non è una banlieue. Smettiamola di usare parole a sproposito, non aiuta a capire di cosa stiamo parlando. E, a ben vedere, non è neppure più una periferia. Dal Corvetto a Duomo ci vuole un quarto d'ora di metropolitana, siamo ormai nel cuore della metropoli lombarda.

Il venditore di via Broletto

di Romano A. Fiocchi
Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione.

Il cuore del mondo

di Luca Alerci
Vincenzo Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di "Conversazione in Sicilia".

Apnea

di Alessandro Gorza
Era stata una giornata particolarmente faticosa, il tribunale di Pavia l’aveva chiamata per una consulenza su un brutto caso. Non aveva più voglia di quegli incontri la dottoressa Statuto, psicologa infantile: la bambina abusata coi suoi giochi, i disegni, gli assistenti sociali e il PM, tutti assieme ad aspettare che lei confermasse quello che già si sapeva.

Spatriati

Gianni Biondillo intervista Mario Desiati
Leggevo "Spatriati" e pensavo al dittico di Boccioni: "Quelli che vanno", "Quelli che restano". Il tuo è un romanzo di stati d'animo?

La fuga di Anna

Gianni Biondillo intervista Mattia Corrente
Mi affascinava la vecchiaia, per antonomasia considerata il tramonto della vita, un tempo governato da reminiscenze, nostalgie e rimorsi. E se invece diventasse un momento di riscatto?
gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: