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Urbanità 4

di Gianni Biondillo

Al professor Dal Co non è piaciuto il mio urlo di dolore che apre Metropoli per principianti, dove dico, provocatoriamente: “non fate studiare architettura ai vostri figli”. Intervistato da Stefano Bucci ha detto, un po’ piccato, che gli pare “una boutade. Sarebbe come dire: ‘non iscrivete i vostri figli a medicina, perché faranno solo i medici di base’.”

“Magari!”, mi viene da pensare caro professore. Magari fosse così, ci metterei la firma. Tra l’altro i medici di base hanno guadagni mensili non disprezzabili. Invece qui la cosa è assai più tragica. Sarebbe, per mantenere il suo esempio, come dire: “non studiate medicina, che poi vi tocca fare i lettighieri, gli uscieri d’ospedale, gli operatori del call center…”

Perché è questa la vera contraddizione. Siamo il paese col più alto numero di laureati in architettura d’Europa e, al contempo, col più basso numero di progetti realizzati firmati da architetti. La città moderna non ci compete, non l’abbiamo costruita noi. Ci si lascia ingannare dai casi estremi delle star dell’architettura, che sono poco più di specchietti per le allodole, ma lo zoccolo duro, il popolo degli architetti, le mani sul territorio non le ha messe mai. È una percezione falsata quella che ci danno i vari Fuksas, Piano, Gregotti: è un po’ come credere che dato che c’è Faletti, tutti gli scrittori vendano ogni volta milioni di copie dei loro romanzi. Non è così: gli scrittori, in media, fanno la fame. Ma con la differenza che almeno pubblicano, mentre gli architetti, in media, non costruiscono affatto.

Anzi, fosse per me farei mie le parole di Dal Co per cambiarle di segno: “Studiate architettura, così diventate architetti di base.” Con tutti i problemi che il nostro territorio ha, il patrimonio architettonico da salvaguardare, le questioni di riconversione anche di spazi minimi o irrisolti, l’abusivismo, la sostenibilità, non sarebbe da istituire, a livello governativo, come un dovere di sanità paesaggistica, la figura dell’architetto di base?

[pubblicato su Costruire n. 303, settembre 2008]
Urbanità 1
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Urbanità 3

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16 Commenti

  1. Immagino che i figli del prof. Dal Co incontreranno un mare di ostacoli nella loro carriera, dovranno “sudarsi” cattedra e prebende, forse intendeva dir questo, l’illustre professore di Storia dell’architettura.
    Sono insopportabili questi professionisti dell’armiamoci e partite, del “siamo tutti uguali”, del “partiamo tutti alla pari”.
    Complimenti a Gianni per il coraggio, oltre che per la bravura.
    Ciao
    Paolo

  2. Non ho letto il libro di Biondillo, perché se non sono costretto preferisco non leggere libri afferenti il mio mestiere: mi sollecitano troppo, mi emozionano.
    E perché in materia di città non sono un principiante.
    Ma butto giù lo stesso un appunto alla svelta, perché il tema mi sta molto a cuore.
    Anch’io, quando mi capita, raccomando al giovane di non iscriversi ad Architettura, per non andare incontro, nella maggior parte dei casi, a una cocente delusione e dibattersi poi, per il resto dell’esistenza, in un mestiere bellissimo e molto difficile, ma ingrato, disprezzato, sotto-pagato, in-influente, e, qui da noi, terminale.
    Anzi, proprio quando mi sono convinto che l’architettura italiana avesse toccato il fondo dell’emarginazione culturale e fattuale, ecco che qualcosa mi segnalava un ulteriore step verso il basso, tanto da farmi temere un’imminente estinzione della disciplina (non certo degli architetti laureati).
    Ho visto troppi architetti di talento soccombere alla botta terribile della realtà italiana e, di fatto, smettere il mestiere, per avere ancora qualche fiducia: potrei fare molti esempi, anche personali, di cancellazione di bei progetti, a volte bellissimi, dai programmi attuativi di innumerevoli amministrazioni pubbliche, che pure ne avevano indetto i rispettivi concorsi, spesso per far posto a al niente, oppure a successive realizzazioni di progetti mediocri, talvolta schifosi, talvolta frutto di lottizzazioni politiche, eccetera
    La quasi scomparsa dei libri di architettura dalle librerie è la riprova di una situazione molto critica.
    Ma ciò che è più grave è la quasi totale assenza di architettura degna di tale nome nella città contemporanea, quella che si sta costruendo oggi e quella che abbiamo costruito negli ultimi decenni: tutto è come prima, anzi molto peggio di prima.
    La città è di fatto in mano agli urbanisti, ridotti al ruolo di trasformatori di politica in procedimento tecnico, mentre l’estremo opposto vede egemoni due figure tristemente note per il loro disinteresse alla qualità e alla forma, anche solo intesa come logica di messa a sistema dei dati di partenza di un progetto: geometri e costruttori.
    C’è stato un tempo, in questo paese, in cui la cultura della città e del territorio faceva corpo con quella dell’architettura e questa con le manifestazioni progettuali di scala più bassa, come il disegno delle suppellettili che ci servono per vivere.
    Organizzazione del territorio, più disegno della città, più disegno degli edifici, più disegno degli oggetti, uguale «qualità diffusa»: questa fu l’utopia di quei decenni, che a quelli della mia generazione fu trasmessa dai molti maestri di allora, come Ludovico Quaroni.
    Tuttavia non mi corre dubbio su due cose.
    La prima è che l’imperativo unitario delle discipline afferenti l’habitat a tutte le scale, non potesse che fallire.
    La seconda è il dover constatare che la portata del fallimento è molto, ma molto, più ampia e grave di quanto, anche nelle peggiori previsioni, fosse possibile supporre.
    Manfredo Tafuri ci aveva fornito una serie di magistrali letture storiche sul «fallimento del Piano» come destino comune e non evitabile ad ogni trasformatore/pianificatore.
    Alcuni di noi, me compreso, si irritavano di fronte ad una visione che ci appariva troppo amara, persino sprezzante di un ruolo che pensavamo importante.
    Ma, almeno per quanto riguarda la vicenda italiana, degli ultimi trent’anni i fatti gli hanno dato ragione: non solo è fallito il Piano e la sua ideologia, ma è fallita un’intera disciplina: è stata quasi cancellata, quasi totalmente esclusa dalla costruzione del futuro e del presente del Paese.
    Il fenomeno mediatico delle archistar, che peraltro è mondiale, ne è la riprova: niente più costruzione paziente di un territorio, di una città, di un’architettura di «qualità», cioè frutto di una sintesi ragionevole delle principali istanze strutturali, funzionali, estetiche e politiche poste dal territorio, ma una città genericamente di merda dove qui e là si esibiscono edifici bizzarri, che qualche volta sono anche buone architetture, ma raramente.
    In questo quadro (sono solo appunti moolto sintetici) come si fa a consigliare a un ragazzo/una ragazza di fare architettura?
    Cioè, come si fa a non dare ragione a Biondillo?

  3. Beh, piccato, beh, figli, beh coraggio:-)

    rilassatevi.

    cmq anch’io penso che certe lauree, e peggio ancora le umanistiche, le famose lauree deboli, anzi, ancora più deboli, dovrebbero essere a numero chiuso.
    ma è antidemocratico, e quando lo dico tutti mi danno contro.

  4. mi limito a leggere la prima frase “non fate studiare architettura ai vostri figli”.
    Mi sembra una grande cavolata per un motivo molto semplice: si dovrebbe studiare architettura ma imparando anche il valore del verde come contorno delle opere, imparando il bello intorno al “rigido”, gli alberi intorno ai muri. In Italia è così, nel nord Europa non lo è: ecco bravo, magari come al solito non risponderai a questo mio che sembra il detto di un avvinazzato (e non lo sono a (dis)detta del mio nick)…….dentro agli studi di architettura servono persone che hanno a che fare col contorno delle architetture e basta con l’estro e con l’arte……imparare gli Ambienti nel loro complesso……ecco, io così l’architettura la studierei.
    E questo non per arricchire chi vende verde ma per arricchire i cervelli di certi architetti.

    vado a lavorare e saluto.

  5. di questi tempi l’architettura non ha molti amici (vedi Contro l’architettura di Franco La Cecla)… la vera ragione è che non esistono occasioni di architettura che dovrebbero essere necessariamente pubbliche … l’unica vera architettura pubblica di questi ultimi trent’anni sono le autostrade

  6. tashtego dai, non vorrai che ti risponda che mi piacciono le case con i muri dipinti di verde!!!!

    e poi sono appena tornato, sono stanco, cotto, e quanto altro, domani debbo portare i ragazzi delle professionali a lavorare sul campo a fare vedere come si fa un bagolaro con la punta e un albero di giuda senza polloni……..ecco cosa intendo per verde, ecco cosa intendo per verde…….

    domani prometto che approfondisco ché altrimenti sembro il mediocre paesano da osteria lontano anni luce dalla laurea ma vicinissimo, tete à tete con il verde (che non è la vernice che si dà ai cancelli).

    saluti!

  7. Ecco, è così difficile parlare di architettura, eppure tutti ne parlano. Tutti pensano di poterne sapere e dire qualcosa. Di utile e interessante. Chi fa il medico parla di architettura, chi l’avvocato parla di architettura, chi fa il maestro parla di architettura. Tutti sanno dirne qualcosa, tranne gli architetti. Mi pare.

  8. Alcor, fidati, “piccato” è la parola giusta, so quello che dico! ;-)

    Tash, ma come? Tu che sei il mio lettore implicito! :-(

  9. Cmq, al di là del vostro specifico, che ha un’importanza maggiore, perché la città ci riguarda tutti, si potrebbe dire quasi lo stesso anche dei laureati in medicina, a quel che so non tutti riescono a fare i medici di base. E degli avvocati, che fanno gli eterni praticanti. E dei notai, che se tuo padre non ha già uno studio son dolori, e dei commercialisti. E dei farmacisti.
    C’è qualcosa che non quadra nella nostra università. ANCHE nella nostra università.

  10. Non è PROPRIO quello che dici tu. Sullo stato delle cose siamo d’accordo.
    Anche se né tu né io abbiamo una soluzione, dire non fate iscrivere i vostri figli ad architettura o a legge o a farmacia non è certo una proposta meditata, è un auspicio retorico. Bisognerebbe anche dare delle proposte alternative. Io non ne ho, a parte il numero chiuso, che è non è democratico, essendo la nostra università quello che è e la nostra società quella che è. Ed è anche difficile dire quanti laureati in quante discipline ci vogliono, dopo aver convinto le famiglie a mandarceli con il fucile puntato alla schiena. E per altro se ne avessi nessuno mi ascolterebbe. Non so tu. Non ho letto il tuo libro e non so se avanzi anche proposte concrete, oltre a invitare i genitori a impedire ai figli di iscriversi. Che nel tuo campo dovrebbero essere però anche proposte politiche. Perciò posso essere d’accordo e al tempo stesso considerarla una boutade anch’io.

    Sul fatto invece che Dal Co si sia “piccato”, ma cosa vuoi che si picchi. Gli hanno chiesto una cosa, le ha dato tre secondi di attenzione ed è passato ad altro. Tu ne fai un interlocutore ostile, sei sicuro che se ne sia accorto? Tra l’altro è uno storico, sarebbe stato più sensato che Bucci lo chiedesse a chi ha grandi studi e dà lavoro a molti architetti.

  11. Alcor, so quello che dico. Ti prego fidati. Se mai un giorno ti incontrerò, ti racconterò tutto per filo e per segno.

    In ogni caso: proprio l’altro giorno, in una intervista dicevo (fra le altre cose):
    “Il mio libro è spesso associato a quello di Franco La Cecla, ma in realtà è assai differente, per quanto tutti e due siamo molto critici con l’attuale star system architettonico. La mia è soprattutto una provocazione nei confronti di una nazione indifferente al merito, ai talenti. Dove il passaggio generazionale delle professioni passa per le caste, non per le qualità dei singoli. Se mi fossi fermato alle prime pagine avrei potuto sostituire il termine “architettura” con “giurisprudenza” o con “fisica teorica” che il senso non cambiava. Però non mi sono fermato lì: reputo, anzi, il mio libro una vera e propria dichiarazione d’amore per questa professione. Un amore, purtroppo non ricambiato. Non solo nei miei confronti, ma anche in quelli dei 135 mila architetti che popolano la nostra nazione.”

  12. Che c’è di male nel fare il medico di base?
    Io direi piuttosto: “figlio mio, non fare medicina se pensi di non voler fare il medico di base [ma il chirurgo plastico in una clinica privata…]”
    Ezio

    (ebbene sì, parte in causa, in quanto marito di)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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