Diorama dell’est #13
di Giovanni Catelli
Den nezavisimosti (Kiev)
…Et le cafard t’a rattrapé, rapide sur le boulevard, comme une foudre derrière toi, tu ne pouvais pas te défendre, comme toujours, tu le savais…
Il carillon della torre ha suonato le ore, ad una ad una, in fila, sul grande viale colmo di uniformi e vento, mentre tu tradivi ogni minuto nel fragore, nella folla, vasta diserzione d’ogni sguardo e gesto, lieve sparizione di fantasmi e tempo : si smarriva, irripetibile, il calore delle mani, la tenacia della stretta già premeva l’aria senza peso, la memoria delle dita confondeva i calcoli del vuoto : sei andato, alla cieca, nello spazio vasto, nell’apnea segreta del tuo sogno, separato dal destino e dal futuro, preda già d’assenze irreparabili, ed ostaggio, di minuti senza fine, lento districarsi del dolore nel respiro, lentissimo vagare degli istanti nella pena, mentre il fiume quieto della folla t’avvolgeva, mite, lungo i flutti già serali dell’estate, la sua luce interminabile, infinita, sorretta da una calda, misteriosa brezza carica di sale : a tratti, silenzioso, scrutavi lungo i volti, senza numero, indagavi l’imprendibile calcolo del fato, alla distanza sospesa delle città, delle separazioni, per l’inquieto inganno di un’attesa irrespirabile, l’ignoto azzardo di un ritorno, smarrito ancora in una sabbia mobile di giorni, una cifra di treni e calendari senza nome.
Vagavi, a chiamare su di te la notte, il tempo, a mordere la carne dei minuti nelle dita, guardando i telefoni, morti, sui muri, a volte chiamando, impassibile, certo, a bere nel vuoto l’intera distanza, il rumore fraterno ed ignaro, quel suono impagabile nelle sue stanze, pallido gesto già così prossimo, già quasi dentro il suo giorno il respiro.
Kievska Rus
Quando il tassista, carico di sonno, mi lascia, sull’orlo dell’alba e della primavera, nella notte limpida di aprile, di fronte al Kievska Rus, un improvviso prodigio m’attende, mentre nel silenzio traverso l’Artioma deserta : un vagoncino giallo, immobile, sui binari del tram che vanno verso casa e sulla Diktiriovskaia, cela, per un attimo, una favolosa luce azzurra : l’eterno bagliore ossidrico, invincibile, a sorvolare gli anni, e le città, stagioni mai concluse, notti, rammarichi segreti, lontane, ormai smarrite attese : i saldatori, fermi per sempre nel gesto luminoso, nel possesso indistruttibile del fuoco, gli elmi barbarici disegnati a silenziose guerre con il buio, con il ferro infido, con la notte breve : lavorano, immortali, a rinnovare, la trama ignota dei binari, la vena fragile che soffia i viaggiatori nel destino, mi consegnano, il remoto lucore della vita che non cede, il gesto buio delle cose senza voce, la profondità, rovescia, d’infinite cose senza luce.
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già l’est europeo ci avrebbe i suoi problemi (non che l’ovest sia di questi tempi da meno) anche senza questa coltre di metafore scrause, infilata una dietro l’altra, all’infinito.
tra le “infinite cose senza luce” ci metterei pure questi testi del catelli.
una solitudine che viaggia anche all’interno del corpo – nostro –
irradiandolo di luce che è – non luce -.
oh tashtego, lo sai che ti sono affezionata, quindi, spero tu non te la prenda se ti dico che certe volte mi sembri l’impoetico ;-)
e questo non perché mostri repulsione per le metafore, il che può risultare anche premuroso nei confronti della poesia comunemente dopata, ma perché invece ti confesso che anch’io che mi ritengo, finalmente, piuttosto immune dalla seduzione delle parole, sono 2 giorni che sto invidiando in una maniera così poco nobile quel bagliore ossidrico che ho pensato di ricominciare a buttar giù 2 righe al solo scopo di trovare la maniera meno scorretta di”rubarglielo” -dannazione! ;-)- corretto con un profilo appena più dimesso, forse albe ossidriche…insomma, ho passato una notte insonne con i bruciori di stomaco e qualcosa dentro che scalcia come un cavallo solo per queste benedette albe ossidriche, tanto che penso proprio che alla fine capitolerò…
quindi, grazie o, meglio, scusa Catelli ;-)
e però c’è sempre, che ne so, quel “il remoto lucore della vita che non cede”.
anche a quello puoi aggrapparti maria (v).
le vie della para-poesia sono molte.
anzi, sono quasi tutte quelle a disposizione: facile imboccarne una, anche solo per sbaglio, troverai sempre qualche liceale ad applaudire.
grazie a tutti, comunque.
tashtego non condivido la severità di giudizio, stavolta.
non per questo autore, non per questa pagina.
io, purtroppo, slitto sempre sul piano poetico, per cui anche a me può disturbare una parola come “lucore”, in prosa può essere innocua, in poesia fa bene mordersi le unghie fino all’osso. lucore è per il mio lessico una parola bandita, ma il tutto regge perfettamente, la pagina ha una sua forza, non mi sembra proprio per niente roba da dilettante, altro che
i saldatori, fermi per sempre nel gesto luminoso, nel possesso indistruttibile del fuoco, gli elmi barbarici disegnati a silenziose guerre con il buio, con il ferro infido, con la notte breve : lavorano, immortali, a rinnovare, la trama ignota dei binari, la vena fragile che soffia i viaggiatori nel destino, mi consegnano, il remoto lucore della vita che non cede
(io, ma per i miei gusti e, ripeto, per i miei parametri, avrei solo, di nuovo, abbassato un po’ il volume, con qualcosa come, ad esempio “il rumoro sordo della vita che non cede”)
e la trovo davvero una pagina di raro nitore.
la parola “nitore”, ecco.
giovedi 9 ottobre alle 18 presento a milano la mia raccolta di poesie, Treni (alla libreria Archivi del 900); potrebbe essere un’occasione per proseguire la discussione…
oh tashtego, distingui lessico poetico, lessico critico, lessico giornalistico, lessico da bar …etc etc
se io potessi usare il tutte le occasioni sempre lo stesso, avrei a disposizione un ben magro repertorio…
@ giovanni
ti ringrazio caldamente dell’invito. mi farebbe molto piacere partecipare, ma non riesco a muovermi troppo in questo periodo. cercherò di rimediare approfondendo la tua conoscenza anche da qui. nel frattempo, il mio augurio.
@maria(v)
la lingua è una, indivisibile.
ma è solo la mia opinione.
tu, categorizzando, istituisci gerarchie.
le gerarchie sono distinzioni che collocano in alto, in basso, sopra, sotto, eccetera.
la lingua è restia a farsi collocare.
ma anche questa è solo mia opinione.
certo esiste il lessico “da bar”, ma in quale senso si distinguerebbe da quello poetico?
perché non può essere poetico?
solo perché i lettori della poesia hanno, come si disce, “studiato”?
no, no, tashtego, niente di quello che hai capito tu. come al solito vengo fraintesa, evidentemente non sono capace di spiegarmi,
adesso vado di fretta, detto in parole poverissime, rapidissime sperando di non peggiorare
quello che intendevo è che esistono lessici specialistici, questo non puoi negarlo. la poesia, da che mondo è mondo, e per sua disgrazia, nonostante tutte le avanguardie che hanno aperto le finestre, fatto prendere aria alle lenzuola, continua a rimanere, per buona fetta, fissa immobile sulle alte sfere. (oppure, c’è un’altra buona fetta, che resta china come un aruspice sulle sue viscere).
quindi, posto che tutti i lessici devono trovare spazio nella poesia, (io stessa son passata dai viscerali al narrativo al critichese stretto, scrivendo una poesia dove rientravano solo citazioni di romanzi, perché le poesie mi stavano strette, a un’altra in cui, passo successivo, rientravano solo citazioni di saggi che poneva altri problemi di digeribilità, non completamente risolti con la musica etc etc etc – un discorso che adesso sarebbe troppo lungo)
ripeto, partendo da queste premesse: e cioé avendo consentito a tutti i linguaggi di avere libero accesso alla poesia, da quello informatico alla trivialità da bar etc etc, per espugnare la rocca, l’unico veto che mi pongo è quello aulico-arcaizzante- retorico…
questa è la ragione per cui “lucore” è, per me, una parola bandita. ma ti assicuro che di parole bandite, e che pure fino ai giorni nostri, ancora per molti, rientrano pacificamente nelle sue possibilità, ce ne sono a bizzeffe. questo significa che se da un lato allargo il campo coi gerghi, dall’altro lo restringo notevolmnete sottraendo quello che è stato fino a non molto tempo fa e ancora oggi continua ad essere considerato patrimonio di sua competenza.
e ti assicuro che è un patrimonio ingombrante e di enorme consistenza.
e questo perché il suo linguaggio deve essere prima di tutto efficace e per essere tale deve essere innanzitutto ATTUALE e l’aulico, l’arcaico sono moneta falsa…
spero di aver meglio chiarito il mio pensiero, adesso scappo
“I soldati non dovevano essere umili, ma bravi soldati:non fagotti di rassegnazione, ma grumi di volontà: cercai sempre di creare almeno un lucore di volontà, anche nelle più torbide anime dei ‘rassegnati’.”
Carlo Emilio Gadda.
Le parole sono tutte buone, bisogna vedere che uso se ne fa.
Molto giusto e vero, ma Gadda è Gadda e per alcune parole ormai ci vorrebbe il “porto d’armi”, o almeno la sicura, tipo “tenue, lieve, arso, sospeso, inquieto” che gli si sparano quasi da sole agli aspiranti poetici nella loro trasfigurazione non richiesta del mondo.
Appunto, gadda è gadda:–)
E’ proprio quello che volevo dire.
Vorrei aggiungere che vietarsi di usare alcune parole in fondo è un atto di modestia, l’ammissione di essere incapaci di usarle, di essere travolti dal potere della loro tradizione, di non riuscire a rovesciarla, di subirla, invece che farne qualcosa.
Il potere delle parole sta anche in questo, costringere gli esseri umani a fare i conti con loro.
E’ una cosa apprezzabile.
Da parte degli esseri umani, volevo dire.
O anche è una forma estrema di estetismo.
Non so come si sia arrivati a questa cosa dell’aulicità delle parole.
Credo anch’io con Alcor che siano tutte buone, alte o basse.
Il mio commento iniziale era di disapprovazione per una prosa che usa la metafora in modo ossessivo, esclusivo e soprattutto combinatorio, con un effetto completamente kitsch, cioè para-artistico.
Un buon programmatore saprebbe costruire un programma per produrre diorami dell’est al computer e poi scegliere quello maggiormente sorprendente come ricchezza combinatoria di metafore.
Ma posso sbagliarmi.
Strano che quando si parla di ricchezza di linguaggio si citino solamente coloro che ne sono ricchi per dovizia e affastellamento e sorpresa, come (uff) Gadda-Manganelli.
Mai quelli che ne sono ricchi per efficacia di sintesi, per sapienza e accortezza di economia, come Fenoglio.
Maestro venerabile, se mai ve ne fu uno.
Ti fa quest’impressione perché usa frasi brevi e sincopate e molto i dialoghi. E molto una miriade di fatti in rapida successione, tanto che a volte sembra esagitato.
Ma di metafore e scelte espressive ricercate è pieno anche lui. Ce l’ho in campagna e qui con me ho solo gli Appunti partigiani, però:
…un gatto scappa schermando i suoi fanalini d’un azzurro prezioso.
…rumor di ruggine…
E pochi giovani borghese…deserti di ragazze.
…armigeri…
La gente trema come un bosco sotto il vento.
… e le notti son fredde, sì, ma è un freddo che lo resisti da fermo.
E’ sintetico? sì, ma negheresti a Gadda gli stessi attributi?
C’è una parola che potresti togliere o cambiare, qui? e cito a caso dall’Adalgisa:
Egli discendeva in linea maschile diretta ga Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, stato già governatore spagnolo della Néa Keltiké e resosi anche troppo noto, alle istorie, per la sua sete di giustizia, la levatura altissima, la magrezza del volto, l’animo punitivo, l’inesorabile e predace governo. nel riscuotere le gabelle ai traghetti, dove bagnavasi il confine del possedimento, o alle porte, dove s’aprivano le munizioni della città, aveva inosservato ogni mitigante cautela, ogni istanza moderatrice o contraria, d’umane o di politiche sceverazioni.
Certo, puoi buttare tutto il libro, ma non dirmi che non c’è sintesi, sapienza, accortezza di economia.
Dietro e in ogni parola si apre un senso. Un ironia dolorosa, un senso del tragico. Si può essere disinteressati a che il senso si apra così, si può preferire il fatto, il gesto, l’energia giovanile, la sicurezza del corpo, che Fenoglio ha e Gadda no.
Contini parla di rottura e manipolazione delle forme linguistiche “in rispondenza a una lacerazione morale e conoscitiva”, è così, chi non vuole leggerlo potrà pensare che sia ridondanza stilistica, barocchismo ornamentale, mancanza di economia.
Non io.
alla fine, l’autenticità originaria non esiste, e in chiunque scriva, anche e soprattutto in fenoglio, esistono vezzi del tutto individuali…forse, è solo questione di gusto…ad ognuno il suo…
Mi scuso per il lungo OT
e per i refusi, ma non avevo allargato il testo.
uff Tashtego
stavo quasi per darti ragione sulla metafora
Maria (v) e Alcor hanno ristabilito l’equilibrio in tempo
ma poi ti contraddici
e, tu quoque, non ti lasci sfuggire l’occasione di partorire una
delle “infinite cose senza luce”:
è certo che il “bagliore ossidrico” gaddiano
non potrà mai essere ridotto da nessun'”alba
non sono a priori contro le metafore, spero si sia capito.
esse sono il sale della vita: senza metafore intere discipline, come la psico-analisi, la critica d’arte, scomparirebbero.
sui camioni dei traslocatori greci c’è scritto METAFORA, trasporto.
“e le notti son fredde, sì, ma è un freddo che lo resisti da fermo”
bellissimo.
appena tornata, chiedo scusa a tutti se ho scatenato un putiferio, io parlavo solo di poesia, ragionavo a voce alta, ad ogni modo sì, mi son lasciata trasportare, non so a volte parlo a vanvera, forse è stato quel mal di pancia (benigno ,-) la causa scatenante
nuxvomica se mi affido a te, preferibilmente in dosi massicce, mi farai lievitare o rimpicciolire? e quale delle 2 reazioni mi riporterà alle giuste proporzioni? aiuto…
Per rimanere fuor di metafora: il brano di CEG citato ieri alle 17,33 non appartiene a “L’Adalgisa” bensì a “La cognizione del dolore”.
Hai ragione, mi sono distratta perché non l’ho copiato dalla Cognizione, bensì, per comodità, perchè lo avevo vicino, da Strane dicerie contristano i Bertoloni, che è contenuto nel volume einaudiano del ’63, che prende il nome dall’Adalgisa.
Forse per chiarire a chi magari non lo conosce, ne “L’Adalgisa. Disegni milanesi” ci sono dieci disegni, appunto, due dei quali passeranno poi nella Cognizione del dolore.
L’Adalgisa sic et simpliciter è invece il titolo dell’ultimo disegno.
I due disegni che finiranno nella Cognizione, che è più tarda, sono Strane dicerie contristano i Bertoloni e Navi approdano al Parapagal.
La composizione e la pubblicazione dei libri di Gadda non è lineare.
Quindi tu, niky lismo, non conosci l’Adalgisa?
Mio zio me la leggeva a voce alta quand’ero bambina e si scompisciava.
Anche un mio amico, che è ingegnere, leggendo Gadda scivolava dalla poltrona dalle risate.
A me non fa quest’effetto, ma per una specie di carambola mi è venuto in mente un altro libro che faceva ridere i maschi, ma non me, un libro di Lavieri:–)
Non conosco l’Adalgisa e un’infinità d’altro. Ad apprenderne qualcuna può servire un buon blog. Grazie ad Alcor per le sue precisazioni.
adesso che mi sono ripresa giusto quel tanto che mi sembra sufficiente, vorrei aggiungere un’ultima cosa:
carissima alcor,
tu hai fatto delle giuste osservazioni, il fatto che io guardavo a quel brano con la lente della poesia e non della prosa, non cambia niente.
avresti ugualmente potuto dirmi, “Le parole sono tutte buone, bisogna vedere che uso se ne fa” citandomi al posto di Gadda, Villa e io, t’avrei risposto appunto come nux: “sì ma Villa è Villa”.
dopo di che, molte delle generalizzazioni che ho fatto, restano contestabili: non è sempre vero che per essere efficaci bisogna essere attuali, perché c’è chi riesce a rendere attuali ed efficacissimi i dialoghi con i morti, ma anche quello bisogna saperlo fare, per esempio alla maniera di un Rizzante e di nuovo risponderei: sì, ma Rizzante è Rizzante, e così, per la prima maniera di Voce, etc
quindi, come dicevi tu, ci sono delle parole troppo pesanti per farci i conti
e poi ci sono anche delle parole troppo anonime, inconsistenti, eppure di nuovo resta validissima la tua obiezione, su come saperle usare, perché di nuovo, prendi le rose, sono così anonime, però poi ti trovi davanti a quelle “rose contuse” e resti senza parole…
Alcor, scusa lo sproloquio, tutto questo per dire che hai, come al solito, perfettamente ragione.
comunque, a Giovanni Catelli, volevo solo dire che ho sbagliato a sostituire lucore con rumore sordo perché così facendo io ho con molta violenza sovrapposto la mia personalissima visione che, in fondo, è di segno completamnet opposto alla tua, è come se davanti a tutto ciò che hai scritto io avessi messo chiaro e tondo e con tanto di evidenziatore un segno meno e scritto qualcosa di completamente diverso. ecco perché non potrò mai fare, per esempio, il traduttore ;-)
(ah, ps, ancora per Alcor: anch’io mi sono scompisciata su un certo libro di lavieri, quello che più mi è rimasto è stato quello splendido: “penzapòbabbo”, credo fosse scritto così, cito a memoria ;-)
a tutti, un abbraccio, perdonate il consueto debordare, saluti.
@maria
Non credo fosse inteso Schmidt… bensì Mare Padanum di Rossi :-)
Con i libri di Lavieri più tu ridi e più ti avveri.
Buono lo slogan, Soldier: adesso bisogna pensare all’uomo sandwich per la fiera di Pisa :-)
Potremmo pensare a Tash, ma lui farebbe l’uomo tost.
Infatti, era Mare Padanum di Rossi:–)
O magari l’uomo toast, e così abbiamo la botte piena e anche la moglie ubriaca:–)