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Amare lettere Montenegrine


O l’uno o l’altro
di
Azra Nuhefendić

«Noi che abbiamo vissuto l’assedio di Sarajevo
non ne ricaveremo, si capisce, alcun profitto …
questa conoscenza è la spada che non sguaineremo
in ogni momento [ma] io almeno terrò sempre la mano
sul suo manico».

Marko Vešović, da La cavalleria polacca

Marko Vešović, poeta, ha rifiutato l’importante premio letterario “Risto Ratković” che gli è stato assegnato in Montenegro per libro di poesie “Rastanak s Arencanom” (“Addio ad Arenzano”). Non vuole accettare quel riconoscimento che nel 1993 fu conferito a Radovan Karadžić.
Radovan Karadžić, accusato per crimini contro l’umanità, scriveva poesie molto prima che diventasse un politico. Però, i premi letterari cominciò a ottenerli solo dopo essere divenuto Presidente della Repubblica Srpska di Bosnia.

In occasione del premio conferitogli nel 1993, Karadžić giunse a Bijelo Polje (città del Montenegro) su un carro armato; nei punti principali della città e sui tetti delle case si piazzarono i cecchini. “Fu un’occupazione, altro che evento culturale!”, scrisse a proposito lo scrittore Andrej Nikolaidis.
Marko Vešović, è un grande personaggio del mondo culturale sarajevese; narratore, giornalista, intellettuale di feroce ironia. È considerato tra i poeti più importanti nell’area dell’ex Jugoslavia (tra le sue opere: “La cavalleria polacca”, ”Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo”).
Nel rifiuto di Vešović c’è molto più di una consueta protesta civile contro qualcuno che, dei diritti umani e civili, non ha alcuna considerazione. “È inaccettabile il silenzio che vi è in Montenegro su quello che è successo durante la guerra in Bosnia Erzegovina … Rifiuto di far parte di questa vergogna montenegrina”, ha spiegato Vešović.

Prima della guerra, sia Karadžić che Vešović facevano parte dei circoli culturali di Sarajevo: entrambi poeti, per giunta legati da un’amicizia che risaliva ai tempi dell’università. Poi, connazionali montenegrini, arrivati a Sarajevo per studiare.
Con la guerra, le loro vite hanno preso due vie opposte, e oggi sono su posizioni totalmente antitetiche. Mentre Karadžić “affilava i coltelli” per risolvere il problema dei turchi in Bosnia, Marko Vešović “ha affilato” la sua scrittura. E sul piano individuale, Vešović si è confermato il personaggio che tanti, me compresa, speravamo che fosse.

Una ventina d’anni fa, nel 1985, a Belgrado, dividevo l’appartamento con la mia amica Jelena, serba dalla Bosnia Erzegovina; suo marito, tale Dragan, era un srbijanac, cioè un serbo di Serbia. Tutti e tre giornalisti, ma Dragan anche aspirante poeta. Ci credevamo grandi intellettuali, facevamo tante chiacchiere e dibattiti presuntuosi sui temi “cruciali” dell’umanità.
Eravamo spensierati e ci godevamo la vita. La logistica l’avevamo in Bosnia. Da là, gli sponsor, ovvero i genitori di Jelena, ci spedivano tutte le “porcherie” del maiale. Prima di Natale, come era usanza, abbattevano un suino e ci mandavano in continuazione salami, prosciutto, salsicce, lardo, pancetta. Noi, di sera, facevamo fuori tutto quanto, con molta cipolla, aglio, vino e un infinito bla, bla, bla.
La guerra non ci passava neanche per la testa, neppure per un attimo. Era una cosa che succedeva ad altri, in luoghi lontani. Eravamo molto contenti e volevamo che quella vita durasse a lungo.
Una di quelle sere avevamo discusso, come ipotesi teorica, su cosa dovesse accadere affinché cambi tutto, rovinando la nostra amicizia. Mi ricordo di aver detto che speravo di non cambiare sino al punto di non riconoscere più me stessa.

Questo particolare me lo ricordai ripetutamente, anche perché presto gli eventi ci avrebbero messo a dura prova, anche la nostra amicizia.
Spero davvero di non aver tradito me stessa. Ma tocca agli altri giudicarlo. Intanto esiste un personaggio sul quale non ci sono dubbi. Questi è, appunto, Marko Vešović. Dalla guerra è uscito con una tale coerenza personale, un’onestà intellettuale e una forza morale, da assurgere a simbolo.
Dalla prima sensazione di incredulità provata all’inizio della guerra (“ma è vero che sta succedendo proprio a noi?!”), Vešović si è risvegliato per comprendere di essere stato tradito e attaccato, non solo dai propri connazionali, ma anche dagli amici più stretti come Radovan Karadžić, nonché da poeti-amici come Rajko Petrov Nogo, Branko Čuljak e altri. “Il mio migliore amico mi ha fato bere il mio sangue come fosse una zuppa”, ha scritto Vešović.

Conosco quelli che durante la guerra si sono dimostrati deboli; quelli che non hanno potuto reggere gli orrori e sono scappati; quelli delusi, che hanno smesso di resistere, o altri, che si nascondevano dietro cariche politiche o sociali. Marko Vešović ha combattuto contro il male come un semplice fante. Nel modo migliore che sapeva fare, con le parole. Scriveva e scriveva.
Per la gente di Sarajevo la sua presenza (poteva, ma non voleva lasciare la città) era importantissima. La sua scrittura infondeva coraggio, risvegliava la speranza. Li proteggeva dalla disperazione totale, da quello che temevano: che tutti i serbi fossero contro i bosniaci.
Vešović affermava che è possibile essere prima un uomo, e poi magari un montenegrino, un serbo, un bosniaco, un cattolico o un musulmano.
Per il suo atteggiamento, per quello che scriveva e diceva, Vešović fu messo sotto un fuoco feroce da parte dei suoi connazionali.

In Montenegro diventò la personificazione del traditore, “il turco”, “il convertito”, “un balija” (termine spregiativo per indicare i bosniaci musulmani). La sua famiglia lo ripudiò, si vergognavano di lui. Gli tolsero la cittadinanza montenegrina, la chiesa serbo-ortodossa lo scomunicò, tutti lo maledivano.
Ancora oggi, in Montenegro, quanto Karadžić viene considerato un eroe, tanto Vešović è considerato un traditore.
Vešović è rimasto fedele a se stesso e ai suoi principi. Analizzava il male, lo metteva a nudo, lo ridicolizzava lo demistificava.
Dopo la guerra ha continuato a vivere come una persona qualunque. In nessun modo ha “commercializzato” il suo patriottismo: vive nel piccolo appartamento che possedeva prima del conflitto, fa il docente, insegna, scrive.

Ma a Sarajevo, per alcuni si è dimostrato difficile da digerire il simbolo Ve`sovi`c. È più facile accogliere quelli che ci hanno tradito, che perdonare chi si è dimostrato migliore di noi.
Questa malattia disturbava un altro poeta e scrittore bosniaco: Džemaludin Latić. Stretto collaboratore dell’ex presidente bosniaco Alija Izetbegović, patirono insieme il carcere per la loro appartenenza a un gruppo di musulmani nazionalisti, l’ala ultranazionalista del partito SDA. Ma, ahimè, scappò da Sarajevo all’inizio della guerra per tornarci quando tutto era già finito.
Non fu l’unico, ma si distinse perché in pubblico non poteva perdonare a Vešović di aver dimostrato quello nel quale egli non riuscì. E lo ha attaccato, non per la poesia, non per il comportamento, ma per il fatto di essere un montenegrino.
Chi non trova le ragioni nei fatti, le trova nell’assurdità.
Latić scrisse uno sporco articolo intitolato “Baš onako vlaški” (“Proprio come un vlah”, termine spregiativo per i serbi). Rimproverava a Vešović di essere “ancora a Sarajevo”, ovvero gli suggeriva di trasferirsi “tra i suoi”, gli negava l’autorità e il diritto di difendere i bosniaci e la Bosnia Erzegovina.

Vešović fu difeso dai colleghi scrittori (anche se non nel modo dovuto e sufficientemente risoluto, secondo il parere di un altro scrittore, Ozren Kebo). Due di loro, scrittori, e anche colonnelli dell’esercito bosniaco, hanno invitato Latić “a stare zitto”. In fine, dall’ufficio dell’Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina, giunse l’ordine a Latić di scusarsi pubblicamente con Vešović “per averlo aggredito con parole di odio”.
In Montenegro e in Serbia il caso fu preso “come l’inevitabile conferma ”dell’errore commesso da Vešović nel mettersi dalla parte dei turchi”.
Neanche quella mazzata ha cambiato lo stile di vita che conduce Vešović. Lo aiutano un team di supporto, la gente comune, gli sconosciuti che quando lo incontrano per le vie di Sarajevo gli chiedono con un sorriso:
”Come va professore?”
In queste parole ingenue è compreso tutto: “un grazie, un riconoscimento, la complicità, la scelta identica”.

Il Montenegro non si è mai, almeno ufficialmente, scusato con la Bosnia per il comportamento tenuto durante la guerra. I soldati montenegrini combattevano dalla parte dei serbi, la polizia montenegrina catturava e consegnava ai serbi, i bosniaci che si erano rifugiati in Montenegro (molti di essi sono stati uccisi o sono scomparsi). Per il fine settimana dal Montenegro partivano le cosiddette brigate “degli elettrodomestici”, civili che durante il weekend andavano in Bosnia per saccheggiare, uccidere, distruggere.
La società montenegrina è sempre stata e lo è ancor oggi, patriarcale; conta molto l’appartenenza alla propria tribù. Nei discorsi sia privati che pubblici, spesso si fa appello all’onestà e al coraggio. In questo contesto ai montenegrini piace citare Marko Mljanov, un eroe montenegrino, scrittore e ufficiale dal diciottesimo secolo, che ha fissato la differenza tra “eroismo e umanità” (čojstvo i junaštvo).
Per Miljanov l’eroismo è difendere i deboli dagli aggressori, l’umanità è proteggere gli altri da se stessi.
Durante la guerra in Bosnia, i montenegrini hanno tradito se stessi in tutte e due le cose. E ancora non hanno né il coraggio, né l’umanità per riconoscere d’aver sbagliato.
Quelli che hanno stabilito che la poesia di Marko Vešović merita un premio per il suo valore letterario, non trovano la forza di riconsiderare i motivi e togliere i dubbi che esistono sul fatto che lo stesso riconoscimento lo conserva anche l’ex Presidente Radovan Karadžić.
I due si escludono. O Marko o Radovan.

Editing: Ljiljana Avirovic

articolo uscito su Osservatorio Balcani

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3 Commenti

  1. Radovan Karadžić poeta? Non lo sapevo.
    Articolo molto interessante.
    Sulla guerra nella ex Jugoslavia hanno scritto molto, molto abbiamo saputo, ma non pare mai abbastanza.
    Grazie quindi.
    Anche per questa frase:
    “Per Miljanov l’eroismo è difendere i deboli dagli aggressori, l’umanità è proteggere gli altri da se stessi.”

  2. La parte che mi ha commossa è l’argumento dell’amicizia.
    Per me l’amicizia è preziosa e immagino benissimo lo strazio del cuore.
    So che scegliero sempre il mio cuore, forse è molto pericoloso, e che saro sempre del lato della vittima.
    So anche che sono debole. In un paese in guerra, partirei verso altra terra, perché non sono coraggiosa.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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