Gino Hahnemann
di Stefano Zangrando
[Il brano pubblicato è tratto da harzblog]
Si chiamava Tazio ed era un versificatore pressoché sconosciuto all’establishment letterario della nuova Germania. Era un magnifico e insolito esemplare di Ossi, un tedesco dell’est. Era robusto, bruno e peloso. I lunghi capelli neri, qua e là incanutiti, gli scendevano secchi e voluminosi sulle spalle e sulla schiena, riuscendo a occultare solo in parte una lieve gobba. Il suo volto olivastro portava i segni di una vita in gran parte vissuta e, sotto le folte sopracciglia nere, il profilo appena allungato dei grandi occhi dalle iridi color tabacco tradiva un elemento esotico, da indiano d’America. Sotto il naso importante, le labbra rosse e carnose erano bordate da due linee più scure, violacee, e il doppio mento sempre ben rasato raccoglieva in una curva glabra tutta quella densità di lineamenti e la riportava intera nella cornice corvina della grande chioma. Aveva questo aspetto selvaggio, anche un po’ torvo, e una voce molto bassa, ma parlava e si comportava con una finezza che rasentava l’effeminatezza. Questo contrasto risultava ancora più grottesco quando Tazio fumava con il suo bocchino, un cannello esile e bislungo che egli reggeva assumendo una posa questa sì smaccatamente femminea, che finiva per dare al suo personaggio un tocco di irresistibile, inimitabile eccentricità.
Fu lui, con quella sua singolare delicatezza, a recare un po’ di sollievo al mio umore sbalestrato nei giorni di intenso lavoro che precedettero l’inaugurazione. Lavorò spesso con me, ripetendo pazientemente le frasi quando non capivo e sorridendomi con questa sua curiosa cordialità, che non sconfinava mai in una concessione d’intimità. Ebbi l’impressione che fosse molto solo e che questo, in qualche modo, fortificasse il suo talento naturale, la spontanea virtù che egli possedeva di infondere una strana quiete nelle poche persone con cui sceglieva di rapportarsi, di instaurare l’abbozzo di un dialogo. Mi parlò della sua vocazione e dei suoi viaggi, promettendomi che un giorno o l’altro mi avrebbe fatto leggere qualche poesia. Mi dimostrai entusiasta e gli fui riconoscente per quella fiducia inattesa.
In seguito dovetti cercare sue notizie in internet, ma senza risultato, e neanche i miei successivi soggiorni nella capitale m’indussero, per ragioni che non so o non voglio spiegarmi, a rimettermi seriamente sulle sue tracce. Poi, qualche tempo fa, credei di trovare finalmente il suo numero sull’elenco telefonico: aveva cambiato indirizzo, a quanto pareva, ma adesso che stavo per risalire a Berlino, otto anni dopo il nostro incontro e per di più nell’inedita veste dello scrittore borsista, non vedevo l’ora di incontrarlo di nuovo e metterlo finalmente al corrente della sua trasfigurazione romanzesca.
Ecco, bisogna immaginare che sia stata tutta questa preistoria, nell’istante in cui ho letto Gino Hahnemann tra le manifestazioni dell’Accademia delle Arti, ad appannarmi lo sguardo. L’emozione era grande, così grande che mi ha impedito, per una frazione di secondo, di riconoscere i caratteri che seguivano il suo nome e cognome: (1946-2006).
I pensieri immediatamente successivi sono ovvii: non è possibile, non può essere vero ecc. ecc. L’aurora della gioia è trascolorata rapidamente in una strana vertigine, troppo vivida per incupirmi.
Cliccando sul link della manifestazione, ho appreso che il 17 ottobre verrà inaugurata a Weimar una mostra di materiali dal lascito di Gino Hahnemann all’Accademia.
Non ho saputo fare altro che cercare in internet qualche notizia in più e ho trovato perfino una pagina dedicata a Gino su Wikipedia tedesca, una pagina che all’epoca delle mie ultime ricerche in rete, forse un anno e mezzo fa, ancora non esisteva.
Poi ho trovato quest’altra pagina, più dettagliata.
Quella che segue è una traduzione libera e composita, che attinge da entrambe le pagine:
Gino Hahnemann nasce a Jena, in Turingia, il 24 settembre 1946. Dopo il diploma, dal 1965 studia presso la Facoltà di Architettura ed Edilizia a Weimar, dove nel 1971 prenderà la laurea in architettura e ingegneria. Nel 1969 a Wilhelmshorst incontra Peter Huchel. Dal 1971 vive e lavora a Berlino, nel distretto di Mitte. Lavora dapprima alcuni anni come architetto con Hermann Henselmann, poi in misura crescente come scenografo e costumista in vari teatri a Berlino, in Brandeburgo e nel Mecklenburg-Vorpommern. È stato l’ultimo scenografo del Palast del Republik.
Tra il 1974 e il 1984 sottopone alla sezione spettacolo dell’editore Henschel di Berlino diverse opere sceniche con cui si sarebbero potuti realizzare dei pezzi teatrali. Dal 1982 traspone queste opere in film come regista indipendente, con produzioni video e super-8 che vengono presentate in festival internazionali.
In seguito come artista performativo e fotografo partecipa a varie mostre collettive, manifestazioni multimediali e letture pubbliche in cui convergono su uno stesso piano diversi ambiti verbali e visuali interdipendenti.
Negli anni ottanta le sue prose e poesie appaiono sulle pagine di varie riviste alternative. Dal 1985 comincia a pubblicare libri propri. Secondo il critico Peter Böthig, Hahnemann è stato “uno dei primi a inscrivere l’esperienza omosessuale nella letteratura della DDR”.
A partire dal 1989 ottiene borse di scrittura dal senato di Berlino, dall’Accademia Schloss Solitude di Stoccarda, lo Stipendium Alfred-Döblin dell’Accademia delle Arti di Berlino e quello di Villa Massimo a Roma.
Nel 1993 avvia come autore, organizzatore e presentatore il “Literarischen Bildersalon” presso il Literaturforum nel Brecht-Haus di Berlino.
Nel 1994 inizia un rapporto di traduzione reciproca con il poeta americano John Epstein.
Nel 2003 partecipa alla mostra “Berlin-Moskau 1950-2000” nel Martin-Gropius-Bau di Berlino e nel 2004 a Mosca. Nello stesso anno alcuni suoi lavori sono in mostra alla 3° Biennale d’arte contemporanea di Berlino. Nel 2005 illustra un volume di poesie del poeta Thomas Böhme.
Gino Hahnemann è morto il 17 aprile 2006. È sepolto al cimitero Dorotheenstadt di Berlino, dove si trovano anche le tombe di Bertolt Brecht, Heinrich Mann e molti altri tedeschi illustri.
***
Gino Hahnemann
GUARDIA PRUSSIANA FACCENDA PRUSSIANA
10 gennaio 2001
Pulisco più volte al giorno
il modello del monumento equestre a Federico il Grande
nel nostro museo modesto-illuminista
dietro il verde urbano del boschetto di castagni disegnato
da Schinkel e cresciuto tra la nostra pretesa
e quella dell’originale.
Mi sta particolarmente a cuore
una pulizia veloce della zona di pericolo
sotto la coda del destriero, che colleghi come
Winckelmann, Pesne, Lessing, Gellert, Knobelsdorff,
Gleim o Kant sopportano incazzati a tutte le ore.
Entrando all’improvviso, visitatori dalla Renania,
che ormai da un pezzo non appartiene più alla Prussia,
si scaldano, chi è responsabile del monumento maltenuto
in Unter den Linden, schizzato di colore con pistole sparagavettoni &
con un resto dell’ultimo dell’anno.
Placato senso di benessere quando rispondo che appartiene a me
(per sgravare le associazioni prussiane, sole solette,
e con loro il senato di papisti, che paiono credere
che appartenga alla nettezza urbana).
Dopo una notte insonne, indosso
la mia camicia migliore, mi appresto curioso
a rilevare le tracce sull’originale,
a riprodurle mentalmente in scala, fedele,
e a sparare d’ora innanzi ogni mattina di fresco
con una pistola di plastica acquistata nel negozio di giocattoli
copie fedelmente riprodotte di gavettoni colorati
contro il modello da museo
che sorveglio.
In più tre sacchi, ridotti
in scala, di coriandoli.
Alla fine del servizio rimetto tutto
in ordine con una scopa in scala.
Così adempio il mio dovere.
Nulla è rimasto
dello stato dei prussiani.
Ma non è neanche scomparso.
I commenti a questo post sono chiusi
Grazie Zan per averci presentato Gino, davvero.
Grazie Lezama, e grazie a Domenico Pinto.
Mi rendo conto che il post è forse un po’ troppo personale per NI; in un pezzo pensato per un blog diverso dal mio non mi sarei autocitato. Spero che questo non risulti troppo urtante. Del resto ho acconsentito a riportare qui il testo, modificato nella parte finale, per offrire una maggiore visibilità alla figura di Gino Hahnemann.
intenso. non lo conoscevo, lui.
grazie.
un caro saluto
paola
grazie
Sta benissimo anche qui.
bella anche la poesia.
sembra tutto chiaro, ma non è così.
resta da capire per quale motivo l’autore non rispose alla lunga lettera del 2001, perché non lo cercò durante i suoi successivi soggiorni a berlino.
se si fa morire un rapporto amicale (con una persona di cui si traduce una poesia) c’è un motivo, ma questo motivo non viene dichiarato.
mi permetto questa obiezione – che in un contesto narrativo finzionale forse non avrebbe senso – perché il pezzo è palesemente auto-biografico e perché tutti quelli nati nel 46/46/47, fino al ’50, li considero miei fratelli, in-compresi, ma inevitabilmente ri-compresi, come me, in un mondo fottutamente cambiato.
allora domando apertamente: perché nel 2001 non gli hai risposto?
lui immagino avesse investito tempo ed energie in quella “lunga lettera”: perché non gli hai risposto?
Tashtego, è evidente, come tu stesso hai arguito, che mi sono interrogato sul perché non ho più risposto a Gino.
Il testo – non io, il testo – da un lato lascia intendere che contavo di rifarmi vivo di persona, dall’altro sorvola manifestamente le ragioni della mia condotta successiva. Ma questa omissione fa parte del suo essere un testo, e un testo autobiografico, nel quale si palesa soltanto quel che l’autore vuole palesare; il resto, al limite, passa appunto per altri canali: allusioni, silenzi, lapsus ecc.
Ora, se non ho voluto palesare le ragioni della mia condotta, o quelle che interrogandomi ho finito per presumere tali, è perché ho voluto così. Non le apporrò certo in calce, in pubblico, perché un lettore toccato nel vivo mi domanda di enunciarle. Io non sono il mio testo.
Dopodiché, se proprio ti interessa, te ne posso riferire privatamente.
io nemmeno ero il mio commento.
quindi 1-1.
Uff. L’espressione «per ragioni che non so o non voglio spiegarmi» parla già da sola di un timore, della paura di dover riconoscere un lato poco nobile di sé: forse non avresti dovuto interpellarmi fin dal principio.
Tashtego pare assai intelligente.
Poi, chissà perchè, gli viene voglia di fare il bischero.
So che è inutile insistere, ma.
Non capisco, davvero non capisco, per quale motivo un’onesta domanda come “perché non gli hai risposto?” si meriti una risposta quasi sdegnata dall’autore, che ribadisce “io non sono il testo”, e successivamente aggiunge un “uff”.
Eppure in qualche modo la cosa riguarda lo statuto della narrativa, voglio dire che non è una questione banale.
La, per così dire, notizia della lettera e della mancata risposta è nel testo, non è una mia intromissione/indiscrezione.
Viene detta una cosa ma senza che ne venga fornita la spiegazione, che pure, palesemente, è a conoscenza dell’autore.
Capisco la reticenza, forse la condivido.
E però la reticenza narrativa, che fa sicuramente parte del suo statuto, va gestita “in modo narrativo”, costituendosi come omissione all’interno della tensione che ogni vicenda, se ben narrata, crea nel lettore: tensione di conoscenza, certo.
Tu puoi omettere, creare un buco narrativo e gestirlo in vari modi, tra i quali il più in uso è l’implementazione della suspence.
Ma un’omissione pura e semplice provoca nel lettore una reazione di curiosità del tutto legittima e assolutamente naturale, che non può essere liquida con un “io non sono il testo”.
È proprio perché prendi le distanze dal testo di cui sei autore, di cui rivendichi il suo essere forma non giustificabile, che l’omissione non gestita appare come un vizio, un difetto di forma, un buco in un’immagine, una censura che cela, senza apparente ragione, un particolare dell’insieme.
È ovvio che sei padrone di farlo.
Come il lettore è padrone di chiedersene il perché.
*
E allora chiedo a soldato blu: in che senso la mia domanda ti appare come una bischerata?
*
Alla fine azzardo una modesta postilla, senza voler insegnare niente a nessuno: credo che uno scrittore non possa dire “io non sono il testo”, perché per il lettore, come per chiunque, è vero esattamente il contrario.
Sono convinto da sempre che noi siamo quello che facciamo, dunque ogni artista È, in tutto e per tutto, la propria opera.
E nient’altro.
Io non ho condiviso il modo quasi perentorio con cui Tash ha posto le sue domande.
Penso che la “reticenza” appartenga al testo, che dia il suo colore emotivo
al racconto.
Imputare all’autore la reticenza e pretenderne riparazione è cosa da “biografia” non da “racconto biografico”.
sarà che questa esperienza di mettere un nome di amici in Google e trovare la seconda data di fianco alla prima mi è capitata di recente, ma quel filo di gelo per loro ed anche per se stessi, quel rimpianto senza appello di aver perso i contatti, che ha volte non ha un motivo particolare se non nei percorsi delle vite, è davvero una sensazione terribile
non si ha molta voglia di spiegarsela e di spiegarla
punge un po’ nel vivo insomma
è lecito il domandare di Tash ma anche il non ricevere risposta
la poesia è molto bella
sembra la descrizione di una vera e propria performance artistica concettuale
se Stefano traducesse altre poesie di Gino Hahnemann
sarebbe molto interessante
questo dovrebbe essere lui:
sapevo che era inutile.
Sì, è lui.
Questo mi dà l’occasione di rispondere senza sdegno a Tashtego, spiegando la cosa sul piano compositivo, che è il solo che credo abbia (buon) senso trattare.
***
Le osservazioni sulla gestione narrativa della reticenza e il difetto di forma sono condivisibili.
La mia intenzione, più o meno riuscita, e comunque basata sul groviglio di sentimenti descritto da Orsola (salvo poi implicare le sfumature soggettive del caso), era effettivamente quella espressa da Soldato Blu, cioè far sì che la reticenza appartenesse al testo, al suo colore emotivo.
Nel post originale, quello pubblicato nel mio blog, il profilo biografico dell’artista è seguito da un breve ponte in cui, adducendo il dilettantismo di allora come scusa per non riportare la traduzione italiana, presento la versione originale della poesia che tradussi e spedii a Gino (la prima che Gino declama qui sopra). Subito sotto, concludo il pezzo con due frasi: la prima rimanda al link del sito “Literaturport” dove si può vedere lo stesso video postato qui da Orsola; la seconda, nelle mie intenzioni, era precisamente la conclusione personale ed emotiva del pezzo, che qui non appare perché per NI abbiamo deciso di cambiare la coda (la poesia qui sopra l’ho tradotta al volo nelle due ore precedenti il postaggio), ma che nel mio blog intendeva compiere la coerenza del testo:
«Quanto a me, tra un mese andrò a Weimar, ma a che serve».
In questo modo si chiudeva il motivo aperto nel primo paragrafo e, con esso, la vena emotiva, soltanto elusiva, che attraversa il testo. Credevo così di suggellare coerentemente il silenzio nei confronti del mio stesso rimpianto, quel rimpianto che, nel punto in cui si dice «per ragioni che non so o non voglio spiegarmi», svela una punta di rimorso.
Detto questo, può benissimo darsi che, anche con il finale originale, il testo presenti il difetto di forma ravvisato da Tashtego. Del resto l’ho scritto in tre ore, praticamente di getto.
***
Credo che raccoglierò il tuo stimolo, Orsola, e proverò a tradurre altre poesie di Gino. Grazie.
la scrittura in rete porta a testi di natura molto ibrida
fra diario in pubblico e saggio, fra narrativa e testimonainza diretta, fra giornalismo e fiction spesso il confine è ondeggiante, si va dall’estrema mancanza di “pudore” alla reticenza due righe dopo.
ci siamo incrociati
grazie a te Stefano
,\\’
Per restare in argomento.
Ieri sera ho visto Le tre scimmie, bel film del turco Ceylan.
Soprattutto nella prima parte vi è un uso poetico dell’omissione.
Il metodo è questo: assistiamo sempre alla scena precedente e a quella seguente rispetto ad un passaggio narrativo importante, ma la scena che mostra direttamente il passaggio, non c’è.
Ceylan costruisce una tensione di conoscenza, ma poi costringe lo spettatore a sciogliersela da sé in base agli indizi che gli fornisce successivamente.
Questa tecnica, peraltro declinata in modo non del tutto coerente, gli consente di stare addosso alle sue figure e soprattutto alla rete complessa di rapporti inter-personali famigliari che si crea proprio in conseguenza delle azioni che non vediamo.
Detta così sembra una cosa artificiosa, ma il risultato è del tutto opposto.
In fondo tutti viviamo le conseguenze di molti fatti cui non abbiamo assistito, di cui sappiamo solo ciò che ci hanno raccontato.
OT Mutatis mutandis, l’altro ieri ho visto Bubble di Steven Soderbergh, in cui l’enigma, di tipo poliziesco, oltre a emergere dopo ben un’ora di film (su 75 minuti), rimane irrisolto fino alle ultime due brevissime sequenze non a causa di un artificio narrativo, che pure in qualche misura c’è e concorre a generare nello spettatore una continua revisione della propria ipotesi, ma per via della rimozione mentale che, fino all’ultimo istante, caratterizza l’omicida – il quale, solo dopo la prima notte in carcere, realizza di aver commesso il crimine. Ora, non mi intendo di psicologia criminale, ma narrativamente gli elementi caratteriali o ambientali che dovevano preparare un simile esito mi son parsi deboli.
Non entro nel merito delle ragioni per cui Stefano non ha risposto alla lettera, a me per esempio non sarebbe mai venuta in mente la domanda che gli ha fatto tash, perchè io sono una che “potrebbe” non rispondere a una lettera.
Mi interessa però sempre la dinamica dei commenti, che sono testi.
Ho riletto il primo di tash al quale Stefano ha risposto con qualche fastidio e quello di soldato blu che gli dà del bischero.
E mi sono chiesta, perché?
A me in effetti era sembrato solo un chiedere venato di compassione, tash si era fatto carico della risposta non ricevuta. Qualcosa in più, in effetti di “un’onesta domanda”. Direi una domanda emotiva.
Di questa domanda emotiva è stata data però una lettura negativa.
Soldato blu definisce il modo di tashtego perentorio, il che forse è accaduto in altri thread, non qui.
C’è dunque sempre un “pregiudizio personale” che si spalma da un testo all’altro e si rafforza di commento in commento.
La fama copre il testo.
Anche se poi, se si va a vedere come nasce la fama, ci si accorge che nasce per equivoci e misletture.
E’ in parte il solito probema della mancanza del tono di voce, ma c’è di più, a mio avviso, che non mi spiego. (In generale. Ho approfittato di voi per un piccolo OT).
La chiarezza del commento di Alcor mi costringe a riflettere sulle mie reazioni e, in parte, a fare ammenda scusandomi con Tash.
Mi ha convinto l’accenno al “solito problema della mancanza del tono della voce”.
Può essersi trattato di un fraintendimento.
La percezione parziale di un’espressione viene colmata automaticamente dal nostro cervello con toni o significati appartenenti alla nostra memoria.
Che la perentorietà sia un’arma da me spesso usata per farmi spazio nella giungla dei rapporti quotidiani è indiscutibile.
Può quindi essersi trattato di proiezione.
Ma ritornando in tema: non condivido, per questo, le posizioni di Tash.
E giudico contradditorio il ragionamento su cui ha basato la giustificazione delle sua domanda:
“Alla fine azzardo una modesta postilla, senza voler insegnare niente a nessuno: credo che uno scrittore non possa dire “io non sono il testo”, perché per il lettore, come per chiunque, è vero esattamente il contrario.
Sono convinto da sempre che noi siamo quello che facciamo, dunque ogni artista È, in tutto e per tutto, la propria opera.”
A mio parere è Tash che scinde l’autore dal testo, rivolgendosi in modo diretto alla “persona” dell’autore e rimproverandogli la reticenza – questo mi è sembrato di cogliere: la bischerata – e non limitandosi a quelle che possono essere le giuste critiche sull’uso letterario – sbagliato tecnicamente, secondo Tash – della stessa reticenza, senza volerla trasformare nel suo contrario.
Tutto vero, tutto giusto.
La domanda emotiva di Tash toccava un po’ irrazionalmente una mia piccola ferita aperta che avevo scelto di non esporre, di qui il mio fastidio.
Volevo che si parlasse più di Gino, mentre i rimpianti autoriali sarebbero dovuti rimanere nell’ombra.
Poi Tash ha cambiato registro, declinato la sua domanda in termini poetico-narrativi e tutto è andato meglio.
Rimane appesa lì, come un capo intimo dimenticato, questa ammissione, cioè questa anti-omissione di Tash, che costituiva il nerbo (il nervo?) della sua prima domanda: «tutti quelli nati nel 46/46/47, fino al ‘50, li considero miei fratelli, in-compresi, ma inevitabilmente ri-compresi, come me, in un mondo fottutamente cambiato».