cronache da Pechino #2
di Gabriella Stanchina
Oggi, sotto una pioggia battente, ho visitato la Città Proibita. Ho camminato ininterrottamente per sette ore per coprire i suoi 720.000 metri quadrati e scrutare dalle grate di legno nell’interno di alcuni dei suoi 890 palazzi. È un’esperienza difficile da descrivere e del resto credo che l’intenzione di coloro che nel tempo costruirono e ampliarono questa città fosse proprio quello di sottrarla al dominio della parola. Indicibile per vastità o per complessità?
Nei primi due giorni che ho trascorso a Pechino ho sperimentato un disagio che non avevo mai conosciuto durante i miei viaggi precedenti. Io amo soggiornare nelle metropoli: mi sono sentita abbracciata da Parigi, nelle strade di Toronto ho trovato familiarità e calore, come se le città fossero diapason che risuonano appena
sfiorate, consonanti al mio più intimo sentire. Ritenevo perciò che anche Pechino, nel rispetto delle proporzioni, e con un più lento ritmo di adattamento, avrebbe risposto al mio sguardo con un volto riconoscibile. Invece, Pechino mi ha sopraffatta.
I primi due giorni, terminate le cinque ore quotidiane di lezione, finivo sempre per ritrovarmi chiusa nella mia stanza d’albergo, assediata da un’ostilità ignota e silenziosa. Pechino mi rifiutava, con le pareti levigate e refrattarie dei suoi grattacieli, con il freddo lucore delle sue insegne, con la sua ostentata dismisura. Mi sono sempre sentita una cartografa di città, versatile nel mappare interiormente le strade che percorrevo, costruendo una mia personale geografia di suoni, odori, emozioni, soliloqui. Non era una questione di dimensioni: di Pechino mi sfuggiva la forma, la figura, la legge interiore che fa di ogni città un organismo vivente e dinamico. Guardando dalla finestra della mia stanza vedevo, incorniciato e minacciato dagli angoli taglienti e nitidi di tre grattacieli, un tiglio sopravvissuto in un’aiuola periferica. Lo guardavo verdeggiare inconsapevolmente, con la sua statura resa minuscola e risibile dall’ingegno dell’uomo e mi sentivo sorella in ogni intima fibra di quell’albero solitario, trapiantato in uno spazio e in un tempo ostili all’umile ciclicità delle stagioni, tra volumi impenetrabili e distanti, un Edipo smarrito lungo una via fiancheggiata da Sfingi bronzee e colossali.
Poi ho finalmente deciso di iniziare la mia opera di esplorazione e mi sono avventurata oltre le rumorose quattro corsie della Chaoyangmen Dajie, lasciandomi guidare dall’istinto, non esitando a deviare verso vie più raccolte, quartieri non segnati nella mappa. E sono entrata in un mondo dentro il mondo, fatto di case di cemento con le finestre chiuse da inferriate sporgenti simili a gabbiette per grilli, di vicoli contorti, di ristoranti improvvisati con i tavolini che dilagano disordinatamente oltre il marciapiede, di fili di lanterne e risate che sfidano il buio di vie senza lampioni, di baracche di lamiera coperte di vecchie ramazze di saggina dove uomini riparano i telai di scalcinate biciclette, di assorti filosofi viandanti che seduti a terra, con una scacchiera precariamente disegnata su un foglio di cartone da imballaggio, riflettono, la mano sotto il mento, osservando le pedine, meditando e scartando strategie per loro certo non più futili di quelle dell’Arte della guerra di Sun Tzu.
Mi sono avvicinata a quello che credevo essere un piccolo parco giochi per bambini. Si trattava in realtà di un assemblaggio di veri e propri strumenti da palestra: un cartello raccomandava a malati di cuore e ipertesi di non cimentarsi nella ginnastica senza il permesso del medico e agli osservatori di stare a giusta distanza dai ginnasti. In realtà nel parco c’erano solo tre donne sulla sessantina con quegli abiti a fiori che Anna Magnani indossava nei film del dopoguerra. Una di loro si è messa a provare dei passi di una danza folkloristica, canticchiando a bassa voce, poi mi ha visto, mi ha indicato alle amiche e il saggio di danza è finito in una risata collettiva. Io ho applaudito loro. Loro hanno applaudito me. Mi sono allontanata tra le piccole rivendite di bibite e sigarette con le porte a perline e i negozi di parrucchiera con gli asciugamani messi ad asciugare fuori su stenditoi ripiegabili e arrugginiti. È stato allora che credo di avere cominciato a capire.
Una megalopoli asiatica in espansione non è semplicemente una riproduzione smisuratamente dilatata delle metropoli occidentali. Toronto è uno spazio quadrettato, organizzato dentro stabili confini. Nulla in esso è nascosto, se non il privato delle vite individuali. Pechino si incava, si ramifica dentro se stessa, riproducendosi in misure sempre più piccole e più intricate. Non è uno spazio: è un unico bordo, una linea che continua a gemmare nicchie interiori. Pechino è un frattale, come l’insieme di Mandelbrot, come i fiocchi di neve e i profili delle coste sabbiose, come la forma delle nubi. Non ti ci devi collocare con un adeguato contratto d’affitto tracciando intorno a te i confini invalicabili di ciò che ti è proprio: ci nasci dentro, ci accadi dentro e la città continua a germogliartisi intorno, a crescere, a incurvarsi.
Anche la Città Proibita è così, con la sua struttura è quasi l’Idea di ciò che Pechino è stata ed è destinata ad essere.
Da una parte la Città maschile, i padiglioni rossi dai tetti scanalati d’oro, i troni inaccessibili, le scalinate di marmo da cui i messaggeri, portando dispacci dai confini dell’Impero, dovevano tenersi lontani dieci passi, gli sterminati cortili che sembrano allargare lo spazio per far obliare l’orizzonte e arrestare il tempo. Incutere timore e stupefazione, portare sulla terra il vasto silenzio sovrumano della volta del cielo. Lo spazio del potere, dei palazzi dai nomi altisonanti, purezza celeste e perfetta armonia, dove l’imperatore officiava l’unione e il muto rispecchiamento della terra e del cielo, luogo trasmutato in simbolo. Il suo emblema? La lastra di pietra scolpita con figure di draghi e onde posta obliquamente al centro della scalinata del padiglione principale: lunga 17 metri, larga tre e spessa un metro e mezzo, è stata ricavata da un unico blocco di pietra estratto da una cava nel nord della Cina. Non vi erano i mezzi all’epoca per trasportare le sue 200 tonnellate. Così sono stati scavati e riempiti pozzi ogni 800 metri lungo tutto il percorso. D’inverno ne sono stati estratti i cilindri di ghiaccio ed è stata creata una pista di ghiaccio su cui far scivolare la lastra fino al Palazzo dell’Imperatore. O la montagna di giada conservata nel Museo dei Palazzi Orientali: un cristallo di giada screziata alto due metri e mezzo per cinque tonnellate. Partendo da una provincia lontana, fu trasportato a Pechino su un carro trainato da cento cavalli e spinto da un migliaio di uomini. Lungo il percorso si dovettero affrontare passi montani, e furono costruite strade, e attraversare fiumi, e furono gettati ponti. La Montagna di giada impiegò tre anni ad arrivare nella Città Proibita e da lì fu spedita a sud per ordine dell’Imperatore, affinché esperti intagliatori la scolpissero riproducendo un dipinto caro al sovrano che raffigurava la leggenda di Dao Yu che addomestica le acque. Servirono sei anni perchè il capolavoro smisurato potesse varcare le porte della Città Proibita.
Poi c’è la Città delle donne: il quartiere occidentale dell’imperatrice e delle concubine. Qui lo spazio si ripiega come i petali di un crisantemo: stradine, muri rossi con draghi e fiori in maiolica verde, paraventi e finestre di carta di riso, piccoli cortili con sofore dai tronchi contorti come artigli. Ogni cosa qui era segno distintivo: ogni concubina aveva un posto preciso nella gerarchia e le spettavano mobili, oggetti e monili che fossero indizio del suo rango: le corone potevano portare da tre a nove fenici di lapislazzuli, i bassi tavolini su cui scrivere poesie o giocare a dama essere orlati di oro, argento o semplice ferro, gli scettri gemmati sostituirsi alle borsette di seta ricamata, i piatti essere di porcellana gialla con draghi verdi, o bianchi con draghi rossi e infinite altre variazioni di colore scendendo nelle diramazioni senza chiaro confine della gerarchia. Su un libro di pannelli di bronzo era riportata la storia della dama, le sue gestazioni, la sua ascesa o caduta in disgrazia, le mille minute variazioni di stato, i gradienti sottili per cui si poteva dare o togliere con tattica e sotterfugi la vita.
Il simbolo di questa città che voleva farsi sempre più minuscola e di complessità infinita sono forse le pietre lacustri accumulate nel Giardino Imperiale a formare vere e proprie montagne artificiali con belvederi. Di consistenza simile al tufo, perforate ed erose, permettevano all’immaginazione di ravvisare nelle sue incavature e protrusioni le figure dei dodici animali zodiacali o di mille altri impredicibili volti. O forse anche i cipressi profumatissimi, con i loro tronchi attorti a spirale, spesso intrecciati tra loro a simulare accoppiamenti nuziali, o gli alvei tortuosi scavati nei pavimenti dei padiglioni perché l’acqua, scendendo, dalle rocce vi scorresse portando con sé per gioco le coppe di vino mentre concubine e funzionari ascoltavano musica di cetre o componevano poesie. Uno spazio claustrale, un dentro senza nessun fuori, un labirinto di gloria o perdizione che non promette vie di fuga, che fa lentamente dimenticare, per ipnosi sottile, l’esistenza di un mondo fuori. Vi ho restituito piccoli frammenti di questa esperienza per me indicibile da una Pechino liquefatta, con i suoi grattacieli avveniristici avvolti nella nebbia che divora margini e parole.
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Per entrare più facilmente in sintonia Pechino o Shangai credo che sia utile visitare/vivere un metroplex frattale come Tokyo…