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L’amore a due

di Linnio Accorroni

 

Christoph Willibald Gluck, “Philémon & Baucis”
Ditte Andersen,  Aria Il Mio Pastor Tu Sei

 

Tra le tante storie raccontate nelle Metamorfosi ovidiane ce n’è una in particolare che stranisce e turba: sta nell’ottavo libro delle Metamorfosi dove si narra la vegetale trasformazione dei due anziani sposi Filemone e Bauci: “A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter fronde anch’esse. Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano parole di saluto, fino a quando fu loro possibile.”Addio, sposo mio” si dissero a un tempo. In quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia”. Così vedevano realizzarsi, in finale di vita, il loro desiderio: essere trasformati in una quercia ed in un tiglio, uniti per il tronco perché insieme avevano trascorso tutta la vita: “che io non debba vedere il sepolcro della mia sposa, né essere da lei sepolto”. Riletto oggi, nell’epoca in cui i rapporti di coppia si sciolgono con l’ineludibile obbligatorietà di un rito di passaggio, questo mito pare, più degli altri, come avvolto da un alone di follia e di insensatezza che esula da ogni logica corrente. Un affresco che magari suscita commozione, ma è comunque incastonato in un tempo remotissimo, non assimilabile al nostro, in cui tutto (anche i rapporti sentimentali) deve essere consumato in maniera convulsa e spasmodica. “Au suivant”- Avanti un altro, come in quella canzone di Brel . L’amore a due è, oggi, una moneta che suona falsa: nel recto le melensaggini infinite di Moccia & C, nel verso, quasi per contrappeso, la ferocia tranchant di giudizi cinici e sentenziosi. Molti ricorderanno, per esempio, quello spietato di Cioran che individua nella miseria della contabilità ragionieristica del do ut des la base di ogni rapporto duale: “il dubbio travaglia a tal punto gli esseri umani che per rimediarvi essi hanno inventato l’amore, patto tacito tra due infelici per sopravvalutarsi, per elogiarsi sfacciatamente”. “Mistificando”(?) Cioran, ho sempre ritenuto che in questo aforisma si celasse invece una specie di sotterranea empatia verso quella allegria di naufraghi che induce un uomo ed una donna (o due uomini o due donne) a mettere insieme, per un tempo più o meno lungo, i pezzi scomposti delle loro individuali solitudini, i frammenti della loro infelicità al singolare. Questa stessa ossimorica allegria di naufraghi agisce da basso continuo nelle pagine di due libri usciti recentemente e molto diversi fra loro, ognuno dei quali, a suo modo, esalta ciò che di più impermanente e caduco esista nel mondo, ovverosia l’amore a due. Il primo, edito da Sellerio, è ‘Lettera a D.’ dove D. sta per Dorine, compagna di Andrè Gorz (nom de plume di Gerhard Hirsch che, da giornalista, si faceva chiamare Michel Bosquet), filosofo esistenzialista, direttore di ‘Le temps modernes’ e fondatore di ‘Le Nouvelle Observateur’, allievo ed intimo di Sartre, ebreo austriaco, archetipo novecentesco della figura del ribelle. Questo suo libro (che, come dice il sottotitolo ‘Recit’, è, contemporaneamente, una narrazione ed un bilancio) si differenzia, per stile e contenuto, dalla fluviale retorica dei suoi ponderosi saggi filosofici. È infatti una lettera d’amore coniugale scritta alla sua compagna, colpita da una malattia degenerativa delle ossa. Un tragico calvario di dolori e sofferenze che solo la morte avrebbe placato: “Stai per compiere 82 anni. Sei rimpicciolita di 6 centimetri, non pesi che 45 chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono 58 anni che stiamo insieme e ti amo più che mai”. A tormentare Gorz c’era poi la ricorrenza di un sogno in cui lui vedeva un uomo dietro una carro funebre: “quell’uomo sono io. Sei tu che il carro funebre trasporta. Non voglio assistere alla cremazione, non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri”. Nella soffitta parigina dove vivevano però non c’erano né Zeus, né Eros a regalare per loro un’uscita di scena clamorosa quale quella riservata a Filemone e Bauci. Meglio allora il veleno per tutti e due, alcune lettere per gli amici, un cartello in cui si diceva alla domestica di avvisare la polizia. Era il 22 settembre 2007. Due giorni dopo su ‘Le Monde’ un annuncio non firmato, ma sicuramente redatto da loro, in cui si comunicava il decesso e l’appuntamento per coloro che avrebbero voluto assistere all’ incinerazione. Ma anche se vi fosse stato un altro finale, magari meno ultraromantico, magari meno eros/thanatos, questo ‘Lettera a D.’ colpisce perché è una lucida meditazione su come un’esistenza, irriducibilmente ‘singolare’, si possa trasformare in ‘duale’. L’altro libro è ‘Tempi supplementari’ di Grytzko Mascioni (Bompiani), poeta, narratore e saggista di razza. I ‘tempi supplementari’ del titolo consistono in pochi mesi di vita, quelli che l’autore è riuscito a strappare dopo un trapianto di fegato, atto terminale di una dolorosa odissea ospedaliera di speranze, attese, delusioni. Il carcinoma maligno epatocellulare che gli era stato diagnosticato non consentiva altre soluzioni. Il 22 settembre 2002 l’intervento: l’esito positivo gli permette di sbrigare alcuni ‘impicci’ prima della morte: un libro, un matrimonio, qualche conferenza,… Un anno dopo, il 13 settembre 2003, appare sul ‘Corriere della sera’ questo necrologio in cui eleganza, stile, cultura, riserbo e stoicismo sembrano darsi convegno tutt’assieme: “A cose fatte Grytzko Mascioni avverte amici e conoscenti di non esserci più. A chi gli ha voluto bene assicura che la vita che si è lasciato alle spalle è stata così ricca ed avventurosa che a dispetto di ogni guaio, ostilità e noncuranza, non vale la pena compiangerla”. Anche in questo libro che, a modo suo, è come ‘Lettera a D.” un’elegia del rapporto di coppia, c’è una figura femminile che, nonostante appaia quasi sempre di sguincio, domina la scena in virtù della grazia, del pudore, del decoro con cui questa donna ha saputo accompagnare il suo amato in quello scorcio d’esistenza che gli era stato concesso. Per lei Mascioni scrisse questa poesia testamento di cui val la pena citare almeno la parte finale: “[…] : tu che vai nel sole,/ ricorderai le bizze dei delfini, / l’orso polare, i passeri d’Apollo, / Delfi e il castello nerofumo a Praga,/ ogni tratto di strada. Ancora a lungo/ sarò con te come il foulard che svola/ dal collo nella brezza che il profilo/ ti carezza gentile: e tu, polena,/ frangi altro mare, vai, / non ti voltare.”. Per D., invece, Gorz aveva scritto nelle ultime righe di “Lettera a D.”: “Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo un seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme”.

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10 Commenti

  1. E’ un testo che mi ha toccata. Nella mia modesta esperienza, penso che l’amore, che sia lungo cammino o fugitivo canto di anima e di carne,è la più sublime parte dell’umanità, perché porta la grazia del riconoscimento dell’altro, il desiderio di dare, di offrire tutto di sé in sincerità e grande vulnerabilità.

  2. Questo pezzo mi sembra davvero molto interessante, prima ancora che bello. E conferma parzialmente anche la sentenza di Cioran. E’ vero, il dubbio ci travaglia a tal punto che, per rimediarvi, noi umani abbiamo inventato ANCHE l’amore, il quale è ANCHE un patto tacito per sopravvalutarsi e/o elogiarsi sfacciatamente. Ma io in questo, a differenza dell’illustre citato, non trovo nulla di male, anzi.

  3. Penso che è un’ illusione, perché l’amore nutrisce il dubbio.
    Uno spirito innamorato è lavorato dal dubbio, dalla paura.
    Solo nel momento di tenerezza nell’ abbraccio si tace l’angoscia: si vive la felicità di essere pienamente amato.
    L’amore è inventato per dare l’impressione di essere vivente.

  4. Segnalo, a proposito di amore a due, L’amore è sopravvalutato, ed. Guanda, di una semisconosciuta Brigitte Giraud, francese di Algeri. Anche per ella, e la sua scrittura, è azzeccato il termine “spietato”.
    Undici racconti brevi e brevissimi, spesso composti da soggetto-predicato-complemento, in cui disseziona e descrive chirugicamente, impudicamente, direi, alcuni dei molti modi in cui può finire, o sta per finire, una storia d’amore.
    Efficace, schiacciante e inesorabile come gli altri, e in più, curioso, il racconto di lei che “non avevo più voglia di apparire come la moglie del grande scrittore, quella che sei riluttante a mostrare perchè non ha nulla da mostrare. Nulla che potrebbe esserti utile. Ne ho abbastanza delle serate in cui cala il silenzio non appena dichiaro che lavoro faccio. Assistente sociale, ah sì, mi dicono, dev’essere difficile, ne vedrà di tutti i colori. Alle parole cortesi segue un sorriso imbarazzato; poi, dopo un attimo di mutismo, gli sguardi tornano a posarsi su di te. Su di te, che sei l’origine di ogni cosa”.
    Molto interessante il post, e il punto di partenza dell’argomento.
    Grazie.

  5. bello lo scritto, preziosa, credo, la segnalazione dei testi: il cinismo rassegnativo d’inizio trattatura viene risolto e smezzolato dai finali accenni alle due finali vite. Solo una domanda: dalla ovidiana citazione allo Cioran antipatico (che è necessario per essere lamella fredda), compare (cito) >una lucida meditazione su come un’esistenza, irriducibilmente ‘singolare’, si possa trasformare in ‘duale’<…eppure…non dovrebb’essere il discorso non tra singolare e duale, ma tra duale (che contiene la separatezza) e non duale (dove le singolari infinitudini vengono attraversate, non accantonate)? Non sarebbe in questo Amore? (Amore: che è senza tempo e non sta sulle monete mocciosamente ciniche e mortalmente rassegnantesi).
    In ogni caso, essendo forse fuori tema, mi dileguo come sempre ringraziando per l’indiana accoglienza e per gl’indiani lavorii. un saluto

  6. Scusate la banalità del commento, ma l’aria di Gluck non trovate sia strepitosa? La Andersen pare abbia un violino in gola!

  7. Non è affatto banale, caro Gianni: è raro sentire il repertorio barocco lirico proprio per la difficoltà di trovare un simile livello di esecuzione.
    Ho scelto quest’aria, oltre che per il riferimento nel teso al mito di Filemone e Bauci, perchè seguendo la follia lucida dei gorgheggi e delle variazioni apparentemente senza logica realistica, si raggiunge il senso delle bellissime parole “questo mito pare, più degli altri, come avvolto da un alone di follia e di insensatezza che esula da ogni logica corrente” che potrebbe essere una perfetta definizione dell’amore e delle sue leggi: un’azzardo di note impossibili nell’aria.

    ,\\’

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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