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Non è un giallo

di Gianni Biondillo

[mi è stata chiesta, questa estate, una opinione sul delitto di Garlasco, quasi io fossi una “persona informata dei fatti”. Questa è stata la mia risposta. G.B.]

Non è un giallo. Finiamola di usare le parole a sproposito. Vorrei più deontologia dai media che si nascondono dietro l’esile paravento del diritto di cronaca. Non è un giallo, non è intrattenimento, non è una cosa divertente, piena di colpi di scena, dove poi arriva l’eroe che risolve il caso e poi tutti “vissero felici e contenti”. Non è fiction, non è letteratura. Non è una puntata di CSI o della sua emulazione fallita, i RIS.

Non siamo in un racconto di Camilleri, Montalbano può restare a casa sua. Non serva a niente chiedere l’opinione di Faletti o di Lucarelli: non sanno nulla. Sono scrittori, governano i loro incubi, le loro ossessioni, le inventano, le sviluppano, gli danno una logica, una trama. Ma non sono poliziotti, non lo fanno di mestiere, probabilmente non hanno mai visto un morto ammazzato in vita loro. È ora di finirla di infierire con speciali pomeridiani, con interventi di zelanti psicologi o sociologi del caso. Non sanno niente della verità, nulla di più di quello che i giornali, ossessivi e morbosi, continuano a raccontare, perché hanno bisogno dell’ennesimo caso estivo insoluto. Quasi che i morti ammazzati nel resto dell’anno non facciano audience, perché c’è la politica di mezzo, c’è miss Italia, la finanziaria, il calendario delle veline, San Remo, il campionato di calcio, le elezioni amministrative e chissà quale altro “evento televisivo”.

Faccio un appello accorato, ad alta voce, disperato, quasi: basta! Finitela di dire che è un giallo. Cogne, Novi Ligure, Perugia, Garlasco, non sono gialli. E se lo fossero sarebbero davvero pessimi gialli, con trame così banali così noiose, così poco spettacolari, tenute in vita da un giornalismo malato, alla ricerca degli istinti basilari – il sangue, il sesso -, sarebbero gialli così stupidi che nessun editore serio li pubblicherebbe davvero. Mi rendo conto che ai media nazionali manca il morto dell’estate, che gli serve tirare fuori dal cassetto quello dello scorso anno, per accontentare la bavosa abitudine populista alla diceria, al bisbiglio, alla forca, mi rendo conto che persino i conduttori televisivi non possono riciclare ab aeterno i plastici delle ville alpestri dove si sono svolti efferati delitti, ma che la finiscano di atteggiarsi ad accigliati moralizzatori della patria. Lo dicano che tutto questo è intimamente immorale, che lo fanno per alzare lo share, lo dicano. E la smettano di usare a ogni pie’ sospinto quella parola – giallo – in modo quasi lussurioso.

Non è un giallo. Non depotenziamo la realtà e non banalizziamo la letteratura. Qui ci sono veri morti ammazzati, poliziotti veri che indagano, famiglie vere che soffrono, che piangono i loro morti, e che patiscono insieme ai loro cari accusati di delitti orribili. È per questo che neppure li nomino, è per questo che, qualunque sia la mia opinione, anche se avessi certezze granitiche su ognuno dei casi sopracitati, non la dico e non la dirò mai, per quanto venga continuamente interrogato dai suddetti giornalisti, convinti che uno scrittore di gialli passi la giornata a rimestare nel torbido del quotidiano. Non è così. Per il pudore che provo nei confronti del dolore altrui, quando chiudo il computer, quando smetto di scrivere di assassini o di investigatori, prendo per mano le mie bambine, le porto a mangiare un gelato, a fare una passeggiata in un parco o in un museo. Cerco di trasmettere loro l’amore per la vita, non l’ossessione morbosa per il sangue. Oppure insegno loro, quasi fosse una preghiera laica, il silenzioso rispetto che occorre di fronte all’assurdità di queste morti. Fin troppo spiegabili, forse. Ma non da me, non da noi. Ci sono i magistrati per questo.

[pubblicato su Grazia n.33 del 18-08.2008]

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13 Commenti

  1. Giustissimo, Gianni. Morale e serio e persino semplice come sempre si dovrebbe. Vorrei osservare che il tuo ragionamento è valido comunque per qualsiasi dimensione sparata a sproposito dal bombardamento mediatico: quanto a te dà fastidio quella del “giallo”, a me per esempio dà fastidio quella del “divertimento”. Dire che con un computer il divertimento è assicurato, che un’automobile è divertente, che la gioventù distrutta cerca il divertimento, ecc., anche questo è uno spudorato depotenziamento della realtà. E questo modo di procedere causa confusione e stupidità, così non si capisce più cos’è la morte, cos’è la gioia, cos’è un libro, cos’è una minchiata. (E poi la gente vota quello che vota!)

  2. No, la colpa è anche degli scrittori. Vedi Corrado Augias ad esempio.

    E poi le ridicole fiction televisive su poliziotti e carabinieri dove le mettiamo?

  3. Le fiction sono fiction (lo dice la parola stessa!). Poi si può discutere che sono ridicole, orribili, inguardabili, etc. Ma non c’entrano nulla.

    In Augias scorre sangue di giornalista, prima che di scrittore. Ma dico questo senza salvare, necessariamente, la categoria, sia ben inteso.

  4. Il problema è anche il fatto di spettacolarizzare e di rendere fiction qualsiasi notizia, con il risultato di fare sembrare la realtà irreale e di perdere di vista la dignità delle persone. Il parere dei giallisti sugli omicidi fa il pari (ma è più grave) con quello delle soubrettes su fatti politici, dei bagnini (con rispetto) sul global warming o dei calciatori sulla borsa.
    Grazie per questo opportuno intervento e per la tua “obiezione di coscienza”.

  5. Non so, Gianni. E’ vero o non è vero che giallisti e noiristi sulla libidine del lettore medio per il crimine ci mangiano? E’ vero o non è vero che il successo dei romanzi di genere pesca nello stesso torbido della spettacolarizzazione del delitto, a cui la cattiva stampa dà il La?

  6. Infondo (nel senso letterale del termine) una trasmissione televisiva con -morto vero- da il senso d’appartenenza alla comunità. Si ha “bisogno” di questi meccanismi e mi permetto, non liquiderei la cosa in modo così “banale”. La psicosi è nel rimuovere l’evento e chiedere meno spettacolo. Da notare che i “casi” non hanno alcun movente “meccanico” di tipo malavitoso. L’omicidio efferato, banalità in forma spettacolare, cinematografica o come telefilm o in forma letteraria è appunto genere perchè non vi è un alcunchè di collegato all’uomo nella sua essenza, sono luoghi comuni vuoti di unità. Quando ci troviamo invece nell’autore-autorevole scopriamo che il “genere” è pretesto non viceversa. Nel vuoto della verità, ossesione di questa, nella mania, c’è un di “più” di umano e il non dare o avere risposta -al caso- è rimozione “religiosa”. Bene è comprendere ed averne coscienza.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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