El boligrafo boliviano 18

di Silvio Mignano

20 gennaio e 4 maggio 2008

L’oscurità, di per sé tutt’altro che assoluta, è perforata da tremolanti luci aranciate, che si riflettono sulle pareti sporche come lingue d’acqua in una piscina asciutta. La folla si apre a ventaglio, in mezzo agli stridenti rumori delle seggiole trascinate sul pavimento di linoleum. Il rimbombo di una musica di chiesa, un basso stonato che dovrebbe richiamare Bach o il Requiem di Mozart e fatica invece a elevarsi al di sopra di un confuso agitarsi di crome e biscrome, un involontario rap per voci ed organo.
Ecco, si vede adesso un cappuccio nero appuntito, poi due. Una coppia di flagellanti spagnoli, o i boia dei nostri incubi, monatti infilati in tuniche scure e un po’ lacere. Reggono l’estremità di lunghi pali di pino, e una seconda coppia li segue, vestita allo stesso modo. In mezzo a loro, su un’improvvisata barella, una bara di legno lucido.
Avanzano a passo lento, con una solennità malriuscita, sporcata continuamente da impercettibili scivoloni, un’accelerazione fuori luogo, un sorriso di troppo nel pubblico, uno scossone al feretro. Salgono una corta scaletta e cercano goffamente di infilare il loro bagaglio tra le corde flosce del ring.
Il sarcofago è al centro del quadrato, i quattro tristi figuri si inchinano in direzione del pubblico e si allontanano, reggendo davanti a sé i ceri ancora accesi. Una musica bassa e ossessiva continua a risuonare in sottofondo, commentando il movimento del coperchio che si alza un po’ per volta e alla fine cade con un sordo rumore sul piancito grezzo.
Poi dalla bara esce una figura, snodandosi un segmento per volta, come un pupazzo gigante. E pupazzo è davvero, e gigante. Sarà alto uno e novanta, forse di più, ed è avvolto in stretti giri di fasce bianche, se può definirsi bianco questo grigiastro sporco.
«Ed ecco a voi, signore e signori, la mummia reale di Ramsete II», proclama lo speaker ufficiale.
Ma non è una cosa seria: la mummia, che dovrebbe essere spaventevole, espone un cuore rosso, disegnato proprio a cuore, all’altezza del cuore, e un paio di reni dello stesso colore, proprio con la sagoma a fagiolo, che gli pendono in basso sulla schiena. I suoi movimenti a scatti, le braccia tese in avanti, sono un’involontaria parodia di un B Movie degli anni trenta. Bela Lugosi, mi viene in mente.
Però El Cobarde trema vistosamente dinanzi allo spettacolo, anche se cerca di non darlo a vedere dietro lo schermo di battute da sbruffone. Del resto, che cosa ci si può attendere da uno che sceglie il nome d’arte del vigliacco?

C’è una fila enorme, all’ingresso del palazzetto polifunzionale di El Alto, a quattromila e cento metri. Uno striscione giallo recita: Los Titanes del Ring, come se si trattasse di uno spettacolo del WWF, inteso come World Wrestling Federation e non World Wildlife Fund. La gente però è qui per una cosa sola: assistere al combattimento delle cholitas. In attesa, qualsiasi antipasto o aperitivo va bene.
Dentro c’è la folla delle grandi occasioni. Chi ha pagato cinquanta boliviani ha potuto occupare le tre file di sedioline di plastica bianca attorno al ring, con il diritto a un pacchetto di pop corn e a una lattina di birra o coca cola, gli altri sono assiepati sugli spalti, assi di legno incastrate su impalcature di tubi di metallo. Un gruppo di donne di El Alto, gonne ampie e mantiglie di lana, forma una claque rumorosa ed entusiasta. Vogliono azione e colpi proibiti e lo lasciano intendere a suon di cori e insulti irripetibili.
Entrano i due speaker, improbabile coppia in giacca e cravatta, caricatura ben riuscita dei giornalisti a bordo del quadrato negli innumerevoli Rocky cinematografici. Tocca a loro introdurre il primo combattimento: in scena El Picudo, un tipo alto e magro che inalbera uno strano becco di carta argentata e un costume da che cosa? condor?, picchio?, piccione spiumato? Accanto a lui un tipo grande e grosso, nientemeno che El Rayo Azteca, reduce – come ci spiega infervorato uno dei presentatori – da mesi di trionfale tournée nel suo Messico natale.
Ora fa il suo ingresso da dietro le tende che conducono agli spogliatoi l’arbitro dell’incontro, subissato di fischi non appena viene presentato: si chiama Ramiro, è un ciccione tutto stretto nella sua divisa a righe bianche e nere più adatta a un referee da baseball, il faccione olivastro quasi deserto, a stento abitato da un piccolo naso a patata, da una boccuccia molle e da due occhietti insabbiati nello spessore delle palpebre.
Si capisce subito perché la folla non lo ami: appena monta sul ring, Ramiro va dritto dal Picudo e lo abbraccia calorosamente. Poi si avvicina al Rayo Azteca e ignora la sua mano tesa, controllandogli invece minuziosamente la suola delle scarpe, sincerandosi che non porti anelli né braccialetti e facendogli una misteriosa ramanzina. A partire da quel momento lo scontro sarà impari, con l’arbitro che impedirà qualsiasi mossa del Rayo e permetterà palesi scorrettezze al Picudo.
Il pubblico ulula, echeggiano i fischi. Le donne sono le più incarognite, soprattutto quelle vestite da cholita, con tanto di borsalino in testa. Sembrano prenderla molto sul serio, senza il minimo dubbio che possa trattarsi di una recita. Protestano, insultano Ramiro, mimano le ingiustizie che stanno accadendo sul quadrato, esprimendo con una mimica facciale esasperata il disgusto e la disperazione per le sorti avverse del nobile azteca. L’arbitro allora si arrampica sulle corde e mostra al pubblico il medio di entrambe le mani, con un ghigno di grassa soddisfazione.
E fa di peggio: in un momento in cui il Rayo Azteca è finalmente riuscito a stendere l’avversario al suolo, ecco che Ramiro scatta e salta con tutto il suo peso sul malcapitato lottatore, liberando El Picudo e invitandolo a dare il colpo di grazia al buon messicano. L’indignazione sugli spalti sale d’intensità: due contro uno, con l’arbitro che tradisce nel modo più sfacciato la sua imparzialità: è troppo, piovono lattine e buste di pop corn sul ring.
«No podemos comprender su actitud», intervengono i cronisti, che in teoria dovrebbero essere qui per spiegarcelo.
El Rayo lotta generosamente, si libera una, due, tre volte dalla doppia morsa, torna alla carica a testa bassa, cercando di far prevalere la propria tecnica superiore, ma il rozzo Picudo usa tutti i colpi bassi che il giudice di gara gli concede, e quando non basta lo convoca accanto a sé per ricomporre l’oscena coppia. Ramiro si accanisce preferibilmente sul basso ventre, ricavando un sadico piacere da calci e strizzate. Poi si gira ed ecco, di nuovo il doppio dito medio alla volta degli spalti.
Liquidato il primo incontro, sfilano il Ninja Boliviano contro Atlas, la Fiera contro Jade Lee, la Araña Atómica contro El Muñeco Diabólico, e ogni volta da dietro le cortine rispunta Ramiro, sommerso dalle urla del pubblico, e sempre più mette in mostra la sua slealtà, immergendosi nel pieno della lotta, prendendo partito sempre per il meno tecnico e più odiato dal pubblico. E puntualmente vincono i cattivi, per i buoni non sembra esserci scampo.
Finché il troppo stroppia ed entra in campo un quartetto. El Halcón de Plata e il Caballero Tigre, si capisce subito, sono nobili ed eleganti, a cominciare dai loro costumi, scintillante di piume argentate il primo, inguainato in una pelliccia maculata il secondo, con tanto di coda pelosa. La seconda coppia è quanto di peggio possa immaginarsi: Damián el Guerrero, maliziosamente chiamato Lulú dai due cronisti a bordo ring, era l’assistente dell’arbitro nei match precedenti, e si era distinto per le sue malefatte e per una insopprimibile tendenza a darsela a gambe quando il gioco si faceva duro. Il suo compare è Comando Zavala, un ridicolo marine con gli occhiali a specchio, la tuta mimetica, un chewingum tra i denti, che si rivolge subito sprezzantemente al pubblico gridando «¡Sarnas, sarnas!», l’equivalente di «spine», «rospi», «zanzare», il peggior repertorio del nonnismo da caserma.
I tre, arbitro compreso, provano a ripetere il copione, e per un po’ ci riescono. Ramiro permette la permanenza dei due compari contemporaneamente sul ring e impedisce l’ingresso del giaguaro anche quando il falcone, stremato, chiede il cambio. Ogni tanto si intromette anche lui e ci si trova spesso in tre contro uno. Le cholitas sugli spalti impazziscono di furia, lanciano di tutto, il coraggioso Damián si scaglia un paio di volte contro le prime file, raggiunte anche da qualche sputo del militare, che a un certo punto sale di corsa i gradini della tribuna e va a picchiare un’inerme signora (sarà tutta scena? Anche il sangue che le esce dal naso, e che probabilmente era contenuto in una fialetta da teatranti?).
Lulú alias El Guerrero, favorito dall’arbitro, recupera ogni sorta di strumento da sotto il quadrato, manco si trattasse del suo ripostiglio. Tira fuori un fascio di tubi al neon e li fracassa sulla testa del malcapitato Halcón (questi sono veri, non c’è dubbio: nell’intervallo gli inservienti impiegheranno un quarto d’ora a spazzare le pericolose schegge). Comando invece afferra la pala di un fico d’India e la spiattella con tutte le spine (saranno vere?) sulla guancia del Caballero Tigre.
Poi qualcosa si rompe, i due buoni riescono a rovesciare le sorti dell’incontro, prendono letteralmente a calci Ramiro, dopo che questi aveva cercato di dichiarare la dubbia vittoria dei suoi complici, impedito dalle urla del pubblico e dall’intervento dei due cronisti. Adesso Zavala e Damián sentono di non avere scampo, Lulú viene umiliato e inseguito attorno al quadrato, fin quasi sulle tribune, mentre il soldato, steso sulla pancia, subisce un’irridente sculacciata con lo stesso cactus di prima. È il trionfo, la folla è in delirio.

Pessimi combattenti, guitti di avanspettacolo, los Titanes del Ring sono tuttavia magnifici atleti: si vede lontano un miglio che i pugni e i calci non arrivano a bersaglio (è così in tutti gli spettacoli di wrestling, ma ai professionisti americani va riconosciuta la capacità di avvicinarsi alla perfezione della veridicità), ma tuffi carpiati, salti, capriole dalla sommità delle corde, giravolte e piroette sono autentici e durano decine di minuti, a quattromilacento metri di quota.
Il resto è kitsch, o cursi, o chojcho, come si dice a La Paz: ma quel kitsch tutto speciale che sfiora il sublime.

Il piatto forte, che tutti attendono, è la lotta delle cholitas. Questa volta a dire il vero ce n’è una sola, la celebre e amatissima Claudina, una bella signora giovane intabarrata nei suoi tanti strati di gonne plissettate gialle. Oggi a sfidarla c’è la versione femminile di Comando Zavala, Jennifer la Loca, Jennifer Doble Cara: una specie di joker di Batman in gonnella, o meglio in calzamaglia tutta buchi, stretta attorno alle forme generose, con la faccia dipinta in due metà longitudinali, bianco farinoso a destra, viola a sinistra, un rossetto nero, i capelli tinti di verde, arancio, giallo fosforescente.
Accanto a lei torna in campo El Picudo, mentre Claudina è aiutata da una seconda cholita, che però è una nana, alta forse un metro, la testa e il busto pressoché normali, le gambette due bastoncini corti e grassottelli.
Jennifer è odiosa – oltre che pazza – ma è una splendida atleta, salta come una cavalletta, si avventa sul pubblico, esplode in risate oscene e vomita volgarità da trivio, afferra la nanetta per le caviglie e la fa roteare come una clava sulla testa di Claudina. La crudeltà della scena riscatta in qualche modo la banalità della serata, è quasi una metafora della vita sull’altopiano, arida, a volte spietata, dura nella sua sottile gentilezza.
Claudina, anche lei, monta sulle corde, si lancia, effettua capriole impeccabili e atterra sul dorso degli avversari, per niente ostacolata dall’ingombro delle gonne, che si aprono invece come mongolfiere, membrane di scoiattoli volanti, ali di una fata rotonda.
E vince, alla fine, sbaragliando da sola, mentre la nana resa immobile al centro del ring, la triplice alleanza di Ramiro, Jennifer e Picudo. Le sue compagne sugli spalti intonano canti di esultanza, lei fa il giro d’onore e il suo volto indio è bellissimo, illuminato dalla mezzaluna di un sorriso.

Resta ancora la sfida del Cobarde, che una settimana fa aveva dichiarato al pubblico di voler riscattare il suo vergognoso nomignolo combattendo contro la spaventosa mummia di Ramsete II.
Eccolo, tutto tremante, nel buio che è sceso sul quadrato, paralizzato dinanzi alla sagoma imponente avvolta nelle bende. All’improvviso uno degli inservienti gli porge una torcia accesa e il codardo, incredibile dictu, dà fuoco alla mummia, che per un attimo si trasforma in una pira (anche questo non può non essere vero: il tizio sotto le fasce deve indossare una tuta ignifuga, non c’è altra spiegazione), prima che un getto d’acqua spenga le fiamme.
Resta l’incendio del sole, oltre le vetrate del decrepito palazzetto dello sport, l’incendio di questo pianeta perso a quattromila e rotti, tra le bande di musicisti che all’esterno soffiano nelle tube e nei tromboni, le venditrici di torrone accoccolate sui talloni, i ragazzi con i pantaloni enormi e il rap che esplode nei radioloni anni Settanta, i vagabondi che strascinano le scarpe ciabattanti, arrivano all’orlo della valle, guardano nella vertigine in basso e si chiedono perché e per chi sia stata creata la dolorosa bellezza che si accende luccicante tutt’intorno.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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