Il nuovo giocattolo dei Titani
di Guido Vitiello
[ L’estratto è da: La commedia dell’innocenza. Una congettura sulla detective story, Luca Sossella Editore 2008. ]
La detective story è una varietà di gioco intellettuale; di piú, è una gara sportiva. La definizione figurava come preambolo alle Twenty Rules for Writing Detective Stories, “una sorta di Credo” vergato da S.S. Van Dine e promulgato nel settembre del 1928 dalle colonne dell'”American Magazine”.
Almeno tre generazioni di critici, quand’anche scettici sull’una o l’altra delle venti regole enumerate dal padre del detective Philo Vance, ne avrebbero accolto senza indugi il presupposto generale, tutt’al piú stemperandone un poco il rigore. Cosí potremmo riassumere la loro tesi, a tutt’oggi dominante, che alcuni hanno voluto battezzare puzzle theory: il romanzo poliziesco genus britannicum, il giallo classico “a enigma” – quello di Ellery Queen, John Dickson Carr o Agatha Christie – si fonda su una duplice sfida intellettuale. Tra il detective e il criminale, anzitutto, ciascuno intento a escogitare tranelli per sviare l’altro; ma è anche una gara d’astuzia tra l’autore e il lettore, il fair play del primo consistendo nell’esibire al secondo tutti gli indizi necessari, sicché questi possa indovinare d’anticipo sull’investigatore l’identità dell’assassino e la meccanica del crimine. Nella classica tassonomia dei giochi proposta da Roger Caillois in Les jeux et les hommes (1958), il romanzo poliziesco ricadrebbe dunque nella famiglia dell’agon, contesa disciplinata in cui si crea per artificio una condizione ideale di parità tra i rivali.
La posta in gioco del cimento è di natura intellettuale: è lo scioglimento di un enigma, quello racchiuso nella classica domanda che non per caso dà il nome all’intera famiglia dei romanzi polizieschi all’inglese: whodunit? Chi è stato? Ovvero, come recitava l’elegante divisa del circolo Mystery Writers of America, contraltare d’oltreoceano del Detection Club londinese: Qui fecit? (…)
Critici e letterati, cultori del genere e filosofi: non c’è chi manchi di ribadire la lettura ludico-illuministica del romanzo poliziesco. Sarà nostra cura, nel libro che il lettore ha tra le mani, ignorare a bella posta il loro coro; non già, beninteso, perché la puzzle theory sia sprovvista d’interesse o di valore. Al contrario: essa illumina in modo impeccabilmente persuasivo, e cioè economico ed elegante, molti aspetti del romanzo poliziesco; altrettanti, tuttavia, ne lascia in ombra. Ecco perché sarà bene praticare su di essa una cautelosa epoché, metterla tra parentesi per tentare di battere con miglior libertà un sentiero assai meno frequentato.
Il punto archimedico per ribaltare le teorie dominanti sulla detective story, o quanto meno per svellerle e accomodarle su un terreno piú vasto e profondo, si trova, per una singolare astuzia della ragione, proprio nelle venti regole di Van Dine. (…)
Le Twenty Rules for Writing Detective Stories di Van Dine offrono ancor oggi un magnifico ritratto di quel che era, o piuttosto avrebbe voluto essere, il giallo a enigma di scuola anglosassone, immortalato nella stagione della sua piena fioritura e maturità, la cosiddetta Golden Age tra le due guerre. Ambiscono ad essere regole di un gioco o di uno sport, non già canoni formali di un genere letterario in senso proprio, come il sonetto o il dramma tragico: “Il romanzo poliziesco non ricade sotto la categoria della narrativa nel senso ordinario”, scriveva Wright l’anno prima nella sua concisa storia del genere comparsa come introduzione all’antologia The Great Detective Stories; “appartiene piuttosto a quella degli enigmi: è un puzzle ingarbugliato e protratto, disposto in forma narrativa”. Sulla stessa falsariga, monsignor Ronald A. Knox – autore di un altro celebre decalogo, presentato da Anthony Berkeley a una riunione del Detection Club e poi pubblicato come prefazione a The Best Detective Stories of 1928 – paragonava le regole del giallo a quelle del gioco del cricket piú che ai princípi della composizione poetica.
Il comandamento con cui Van Dine inaugurava le sue tavole della legge è quello che prescrive il fair play dell’autore: “Il lettore deve avere le stesse possibilità del detective di risolvere il mistero. Tutti gli indizi devono essere chiaramente esposti e descritti”, e l’autore (regola seconda) non deve esercitare tranelli e sotterfugi oltre a quelli che il criminale stesso, nel suo pieno diritto, mette in opera per sviare il detective. (…) Il duello che ingaggiano tra le pagine il criminale e il detective, cosí come la sfida che il lettore raccoglie dall’autore sul limitare dell’opera, deve dunque svolgersi sul terreno della pura ragione.
Su questo punto, il wishful thinking di Van Dine e degli altri autori dell’epoca d’oro è di un candore che disarma. Quanti lettori – se lo chiedeva già François Fosca nel 1937 – perfino nella cerchia piú ristretta dei cultori, avranno mai tentato seriamente di gareggiare con il detective? Quanti, tra gli amanti del primo Ellery Queen, hanno davvero raccolto la rituale challenge to the reader che cadeva a tre quarti del romanzo, prima dell’annuncio della soluzione? Chi, tra le centinaia di milioni di lettori di Agatha Christie, si è mai curato troppo dell’accusa che sovente le si è rivolta, quella di “barare” al gioco? (…)
Il lettore, sembra di poterne concludere, non ha il tempo o l’intenzione di cimentarsi con il detective, né gli autori si sono mai granché curati di fornirgliene lealmente i mezzi. Persino Leonardo Sciascia, non certo un lettore di manchevole ingegno, confessava di amare nei gialli l'”assoluto riposo intellettuale” che largiscono: ci si rimette docilmente ai superiori poteri deduttivi del detective, portatore della Grazia illuminante, e tanto basta.
Le regole di Van Dine tratteggiano un giallo iperuranio e idealtipico: per la latitanza dei lettori a ingaggiarsi nel gioco intellettuale, certo, ma anche per la felice noncuranza degli autori. Nemmeno il Van Dine romanziere si può dire che abbia mai rispettato le regole del Van Dine legislatore – libri come La canarina assassinata (1927) ne violano piú d’una – e per lo piú gli autori dell’epoca d’oro si limitarono a quel che in inglese si chiama lip service, un’osservanza confinata alle pie intenzioni. (…)
Se il puro puzzle ha trovato spesso autori pasticcioni e lettori svogliati o frettolosi, che cosa nel romanzo poliziesco è parso cosí attraente a generazioni di cultori? Che cosa ne ha fatto il genere forse piú popolare del secolo passato? In altre parole: accantonata l’idea compiacente del gioco intellettuale – che senz’altro racchiude una parte di verità, ma non piú di una parte – a che gioco hanno davvero giocato, autori e lettori?
La questione si chiarisce un poco accostandosi alle regole di Van Dine come se fossero un altro dei suoi enigmi polizieschi. Se ci armiamo di quella destrezza che si richiede al lettore ideale di gialli, abile nel notare l’indizio decisivo senza farsi distogliere dagli illusionismi dell’autore, noteremo nel Codice di Van Dine, in bella mostra come la lettera rubata di Poe, due regole alquanto incongruenti e misteriose, che sembrano additare a una lettura di tutt’altro tipo, e a tutt’altro gioco.
“Ci dev’essere almeno un cadavere in un romanzo poliziesco, e piú il cadavere è morto, meglio è”. Cosí recita la regola settima, dalla cui ingannevole evidenza è bene non lasciarsi abbagliare. Se la detective story è una varietà di gioco intellettuale, e se il suo interesse risiede nel mero enigma da sgrovigliare, perché è cosí irrinunciabile che scorra il sangue? Come mai un giallo finisce per deludere i lettori se la detection, come pur di rado accade, ha per oggetto un furto di diamanti, una truffa borsistica, un rapimento? Che cosa, nella logica profonda che anima il romanzo poliziesco, richiede a gran voce un cadavere, e piú morto è meglio è?
Su questo punto critici e autori – citeremo solo i massimi – si mostrano sospettamente elusivi. “Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente”, scriveva Van Dine a commento della sua stessa regola. “Trecento pagine son troppe per una colpa minore. Dopo tutto, l’incomodo e il dispendio di energie del lettore devono essere ricompensati”. L’argomento suona ragionevole, e non per caso lo ripescò trent’anni dopo il piú arcigno sostenitore del giallo a enigma, Jacques Barzun: e tuttavia non spiega nulla. Se il “dispendio di energie” del lettore riguarda l’esercizio dell’osservazione e del raziocinio, non si vede perché un ingegnoso e machiavellico furto di marmellata dovrebbe meritare meno pagine di un assassinio commesso alla carlona: la complessità del crimine, non la sua natura, dovrebbe soddisfare le esigenze dell’intelletto. (…)
Il mistero, a ben vedere, permane intatto: se il giallo è una sorta di “macchina illuministica”, perché il sangue è il solo carburante in grado di metterla in moto? Se è un gioco intellettuale o “di piú, una gara sportiva”, perché lo si può praticare solo su un terreno insanguinato? Alla notazione di monsignor Knox, che paragonava le regole del giallo a quelle del cricket, forse la migliore risposta si trova in una pietra miliare del giallo classico, Il mistero dello scheletro (1948) di Carter Dickson (altro nome di John Dickson Carr), dove una mazza da cricket è per l’appunto l’insolita arma del delitto. Sul campo di gara del romanzo poliziesco è il fallo, il fallo sanguinoso, l’unica azione che conta; e il detective non è propriamente un giocatore: è se mai l’arbitro che espelle, secondo il rito, il giocatore violento.
Tra le Twenty Rules di Van Dine, ce n’è un’altra che suona alquanto misteriosa. È la dodicesima: “Ci dev’essere un colpevole e uno soltanto, qualunque sia il numero dei delitti commessi”, giacché “l’intero onere deve gravare su un solo paio di spalle: l’intera indignazione del lettore deve potersi concentrare su una singola anima nera”. È dunque necessario che la colpa sia addossata a un solo personaggio, e che questi si carichi il fardello non solo dell’esecrazione generale e del patibolo, ma anche della malevolenza del lettore. La regola è ribadita, in termini leggermente variati, da John Dickson Carr nel saggio The Grandest Game in the World (1946): “Il delitto dev’essere opera di una sola persona (…). L’essenza di un romanzo poliziesco è che l’unico colpevole deve imbrogliare i sette innocenti, non che l’unico innocente venga imbrogliato da sette colpevoli”. Un terzetto di assassini non giova ugualmente alla bisogna, men che mai un’improvvisata associazione a delinquere o l’Assassination Bureau di Jack London. Di nuovo siamo indotti a chiedere: perché? L’abilità deduttiva del lettore non è forse magnificata dal riuscire a indovinare l’intreccio di due o piú menti criminali? L’aumento del numero delle incognite non è forse garanzia, come nei problemi matematici o nelle equazioni, di una maggiore complessità intellettuale del gioco? Come mai, dunque, un solo colpevole?
A ben vedere, se interpellata da sola la norma resta sdegnosamente muta, al pari di quella che prescrive la presenza di un cadavere. Se però ricorriamo a quello che i giuristi chiamano combinato disposto, cioè la risultante dell’intersezione di due norme, ecco che qualche lume appare. Accoppiando la settima e la dodicesima regola del Codice di Van Dine – la necessità della colpa di sangue e la necessità di un capro espiatorio che se la addossi – vediamo profilarsi una possibile lettura alternativa della detective story. Niente di troppo serioso, non c’è dubbio che si tratti di un gioco.
Ma di quale gioco?
Un suggerimento illuminante lo si può scovare nei taccuini di Northrop Frye, che per tutta la vita ragionò sul romanzo poliziesco, al punto da confessarsene ossessionato, ma che mai vi dedicò una trattazione estensiva, se si eccettua qualche denso paragrafo della sua opera maggiore, Anatomy of Criticism (1957).
In uno dei quaderni raccolti sotto il titolo Notebooks on Romance, Frye annotava che il giallo è sí un gioco, ma solo in minima parte lo si può accostare a giochi di destrezza e intelligenza come gli scacchi. È ben vero, concedeva, che l’assassino e il detective si fronteggiano come il re nero e il re bianco sulla scacchiera, e che questo affrontamento strategico a colpi di finezze d’ingegno è il movente conclamato che spinge gli scrittori a scrivere e i lettori a leggere.
Tuttavia l’interesse profondo del romanzo poliziesco risiede altrove, in un gioco che autori e lettori hanno giocato in modo per cosí dire ignaro, sonnambolico, o tutt’al piú con una consapevolezza umbratile e appena barlumeggiante: il bambino sa bene cosa aspettarsi dalle fiabe, il narratore sa altrettanto bene cosa offrirgli, e tuttavia né l’uno né l’altro saprebbero portare in piena luce il perché. La logica profonda che anima la detective story si apparenta non già agli scacchi ma al gioco d’azzardo: da una cerchia di personaggi il lettore pesca il suo, la roulette gira e se il suo numero viene chiamato ecco che può gloriarsi di aver sconfitto l’autore in virtú di una logica impeccabile. “L’istinto del gioco d’azzardo”, prosegue Frye, “è strettamente connesso con quello sacrificale, dove la vittima è estratta a sorte, e per tutto il corso della storia il lettore vede una mano esitante che si aggira tra un gruppo di personaggi finché non si ferma e ne indica uno”.
Tornando alla tassonomia di Caillois, il romanzo poliziesco ricadrebbe non già sotto il dominio di agon ma di alea, il principio che regge i giochi d’azzardo; e questo principio presiede anche alla logica del sacrificio umano, all’estrazione casuale della vittima espiatoria da immolare per la salvezza della comunità. Val la pena notare che lo stesso René Girard, se non il piú grande certo il piú noto teorico del sacrificio, rivisitando Les jeux et les hommes identificò l’alea di Caillois con la scelta della vittima e la risoluzione sacrificale.
Non una partita a scacchi dunque, non il paziente fronteggiarsi di due strategie e di due strateghi, non il torneare di due intelletti puntuti come lance sull’arengo della pura ragione: piuttosto, l’estrazione quasi casuale di un capro espiatorio da un mazzo di sospetti, un arbitrio compiuto sotto le vesti ingannevoli di un’indagine razionale. Venite et mittamus sortes: come i marinai del libro di Giona – quasi presago dei tanti gialli ambientati su navi in crociera – il gioco sacrificale del romanzo poliziesco invita a gettare le sorti per assegnare a qualcuno, non importa chi, la colpa di aver scatenato la tempesta, cosí da scagliarlo in pasto alle onde e salvare l’equipaggio.
Se, come pretendeva Gilbert K. Chesterton, creatore del detective in cotta e stola Padre Brown, il romanzo poliziesco è “un giocattolo bello e buono” (How to Write a Detective Story, 1925), forte è il sospetto che vada annoverato, ultimo, tra i ninnoli e i balocchi agitati dai Titani per adescare Dioniso fanciullo nel cerchio del sacrificio, secondo quanto racconta il mito orfico. Perché nella detective story non giochiamo a sgarbugliare matasse intellettuali né a risolvere equazioni; giochiamo piuttosto a espellere da una comunità colui che macchiandosi di una colpa di sangue ha avvelenato la pace di tutti e disseminato la discordia.
In altre parole, giochiamo al sacrificio umano.
Guido Vitiello collabora con le pagine culturali di Internazionale e del Riformista. Ha scritto, tra le altre cose, Dall’Lsd alla Realtà Virtuale. L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Lavieri 2007) e Una stagione all’inferno. Hans-Jürgen Syberberg e la questione della colpa nel cinema tedesco (Ipermedium libri 2007). Cura il sito UnPopperUno.
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Interessante, ma anche seguendo Frye e Caillois non si capisce perché ci dev’essere un morto e non una vittima magari morale. Il capro espiatorio ha smesso da tempo di essere solo squartato.
Però, da amante sia della detective story che dell’azzardo, è vero, ci vuole il morto.
E il morto ci vuole però anche per il giallo, il noir, la spy story.
In questo tipo di libri bisogna che qualcuno muoia, prima o poi.