Una trentina di Gabriele Frasca
di Gilda Policastro
All’interno del genere antologico, che in Italia stando anche solo all’ultimo quinquennio ha fatto registrare, particolarmente per la poesia, una reviviscenza pressoché incontrollata, la specie dell’auto-antologia non ha avuto similare debordante fortuna: è stato l’editore Sossella a rilanciarla all’interno della collana di “arte poetica”, a partire dal volume d’esordio, lo scorso anno, di Michel Deguy. Stavolta tocca a un autore nostrano ripercorrersi e risistemarsi in volume unitario: per il Gabriele Frasca di Prime. Poesie scelte 1977-2007 si tratta, tra l’altro, di un bilancio che viene quanto mai solidale con la ricorrenza del cinquantesimo genetliaco, e a oltre vent’anni anni dall’esordio poetico (con Rame, dell’84). Rileggere Frasca-poeta scelto da se stesso è come rovistare in un armadio di abiti mai smessi (se l’autore rimescola sovente le carte coi recuperi, nelle diverse raccolte, di testi cronologicamente spuri), e, di più, è farlo pienamente legittimati, se per il Frasca-teorico sta al lettore «il compito di ritrovare […] gli anelli di congiunzione tra il mondo di partenza (quello in cui era immerso l’autore nell’atto di scrivere […] e quello d’arrivo (il mondo […] in cui si agitano nel loro consueto immalinconire domestico, le larve dei personaggi». Scrive così in un libro uscito pressoché in contemporanea all’auto-antologia: L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (Meltemi 2007), dedicato all’analisi di alcune opere dello scrittore americano, tra cui naturalmente la eponima, sottratte all’etichetta onnicomprensiva di “fantascienza”, per sondarne le ben altre implicazioni filosofiche, politiche. L’accostamento del saggio con l’antologia trova dunque un puntello in quell’immalinconire domestico che ben si attaglia alle poesie di Frasca e ai loro quasi sempre anonimi protagonisti. Il tono, dunque: aprendo a caso, dalle prime come dalle ultime scelte (del resto, si è detto, i componimenti si raccolgono già in origine con criterio non puntigliosamente diacronico), l’autore è immediatamente riconoscibile. Sarà che, come ha scritto Andrea Inglese (in Semantica e sintassi beckettiana in Gabriele Frasca e Giuliano Mesa, nel volume miscellaneo Tegole dal cielo. L'”effetto Beckett” nella cultura italiana, a c. di Giancarlo Alfano e Andrea Cortellessa), la sua poesia è segnata dalla volontaria adesione ai codici tradizionali, con la peculiarità dei virtuosismi sulle quartine e sulle sestine (basti ricordare la vertigine arnautiana del pezzo da Poesie da tavola). Eppure, cambiano i registri: dal beckettismo della “serie” degli orologi, all’affondo borgataro di Sette (un pezzo di più insistito pathos drammatico, in cui una sorta di Pasolini che sente di Pagliarani – o viceversa – ci trascina, letteralmente, con una prosa di endecasillabi ritmatissimi, in una vicenda di amore e morte casereccia), all’epigrammatica concisione delle imitazioni di Ramaglie. Ma, intanto, quello che seguiamo è un flusso. Un flusso in cui, per citare di nuovo Inglese, laddove la metrica costringe agli «automatismi», le frequenti «trasgressioni» liberano la materia poetica dal suo peso «tecnologico» attuale, e il verso ricerca quel senso nella modernità così inattingibile, e quasi lo raggiunge, poi, col suo martellante corso. Si può rileggere Frasca, autorizzati da lui stesso, ripercorrendolo da una poesia all’altra, marcandone gli sviluppi e i ritorni, il romanzo e la sua negazione: per niente incongruo, in un traduttore, tra l’altro, di Beckett. E proprio da Beckett, ad esempio da Fin de partie, transita l’ossessione del tempo, mischiata magari con la “rapina” già classica, e poi vera ossessione barocca, fino alla declinazione funebre di Foscolo. Non solo gli “orologi”, allora, ma quasi tutti i componimenti e i singoli versi, nell’atto stesso di scandirsi, di precipitare verso la clausola metrica (con forza ancora più dirompente nelle sequenza di prose poetiche, come ad esempio in Sette: «il punto esatto in cui fuggì la fuga, o piuttosto la piccola fessura da dove poi si dipartì la crepa»; e, a maggior ragione: «il deserto di luce su cui tutti, tutti si corre e trotta, noi bersagli»), si lasciano tentare da questo agone ininterrotto, questa battaglia persa, che è la consapevolezza dell’hora ruit (oraziana, virgiliana, ovidiana), in Frasca tradotta nel punto «dove gli anni si sfanno» (in Rivolte).
Non per caso, un’altra costante tematica è quella del fermo-immagine, della foto, in «de-evoluzione» (prendendo a prestito nuovamente una categoria dal libro su Dick) rispetto all’orizzonte mediatico e ipertecnologico, pure aleggiante attraverso il motivo, comunque sobriamente impiegato, dello schermo (che, ad ogni modo, lo apparenta al coetaneo Tommaso Ottonieri). È proprio dal campo fotografico che Giancarlo Alfano, nel profilo introduttivo a una scelta in quel caso antologica (per la monumentale Parola plurale, ancora di Sossella, del 2005), muoveva per descrivere la dialettica, così tipica in Frasca, di «movimento» e «fissità», «unicità» e «replica», della quale ancora una volta i prodromi ipotizzabili sarebbero beckettiani. Così nel Mal tardato remo, ad esempio, traduzione quanto mai fedele di questa stasi dinamica: «di chi trattenne/ un istante la porta, e poi finisce,/ e poi finisce che non apri più,/ non chiudi più/, e poi finisce che tu/ stai lì, fermo, alla porta, e poi finisce». In ultimo è ancora Alfano a rilevare un’altra possibile ascendenza, e però quasi scusandosene: la «palus» sanguinetiana, parrebbe, in effetti, una frequente immagine di riferimento. Non c’è motivo, perciò, di scusarsene: Frasca, se non ha ereditato, ha comunque condiviso un tratto caratteristico, da un certo momento in poi, soprattutto dell’ «emissione live» sanguinetiana (come Sanguineti stesso definisce i travestimenti teatrali nell’autocommento al Gozzi rivisitato del 2001): ossia la contaminazione dei linguaggi, che qui però rimane entro un registro classico in modo più esibito, dove Sanguineti, di più, soprattutto negli anni recenti, sfigura e si diverte (insuperati esempi ne offriva proprio la riproposta «televisivante» del canovaccio gozziano). A differenziare Frasca, è, allora, quello che dicevamo in principio il tono, o, leopardianamente, il tuono. E a definirlo occorre rileggere da capo l’antologia, o magari, ripercorrerla random, vedendo stagliarsi frammenti come: «piuttosto il mondo, spento abbaglio/, detto com’è, solo carcasse e carne» (in Non i versi di Limine). Ironico, mesto, leggero, grave, angoscioso, penoso, pensoso, domestico, malinconico. È il suo tono, tono specifico, tono proprio di Gabriele Frasca: poetico.
Questa recensione è apparsa, nell’uscita di luglio/agosto, sulle pagine de L’Indice.
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Ho avuto la fortuna di seguire una lezione di Frasca sul Don Chisciotte, di ascoltarlo alla presentazione del libro di Andrea Raos ‘Le api migratori’ (occasione in cui pure lesse, per mia e dei miei compagni fortuna, Andra Inglese alcuni prati), di ascoltarlo leggere un brano alla prsentazione del romanzo Santa Mira: fortuna vera, fortuna vera: ecco, questo per dire che ascoltare Gabriele è un’esperienza che vuoi ripetere ogni volta che ti si propone l’occasione e, leggendo questa bella recensione, i versi di Frasca riportati mi sembrava di sentirli recitare dalla sua voce ipnotica e dal suo ciuffo ricciuto, proprio con quell’andare mesto e pensoso così bene richiamato.
Grazie per la segnalazione, saluti a tutti gli indiani vicini e lontani.
cb