El boligrafo boliviano 17

di Silvio Mignano

13 novembre 2007

Ovvero: io e le sciampiste.

Tutto è cominciato nel mio secondo viaggio a Potosí, quando abbiamo consegnato ai minatori del Cerro Rico l’ambulanza e l’apparecchiatura per i raggi X che avevamo promesso loro a marzo.
È stata una cerimonia toccante, come a quanto pare succede sempre, quassù. La brigata dei volontari di soccorso schierata nel cortile del piccolo ospedale a quattromilaseicento metri, tutti con le loro belle tute rosse fiammanti e i caschi nuovi di zecca, impettiti sull’attenti accanto allo stendardo, come se mi stessero presentando le armi, solo che questi uomini e queste donne non portano armi, per fortuna, se non un coraggio e una nobiltà d’animo in grado di commuovere l’orco delle favole.
Questi uomini e queste donne: perché ci sono anche tre volontarie, ed è una novità. Le donne non sono ben viste nei cunicoli allucinanti delle miniere, contro di loro vige una maledizione non dissimile da quella che valeva a bordo delle navi. Solo Azucena, la bella assistente sociale, è stata ammessa senza problemi nel ventre del Cerro Rico, in segno di rispetto per il lavoro che fa insieme alla nostra cooperazione. E Dania, quando è venuta con me.
Guardo le tre volontarie. Due sono molto vecchie, o forse la fatica e le condizioni disumane di questa montagna hanno accumulato sulla loro pelle rughe, ferite e un grigiore che non corrispondono alla loro vera età. La terza è una ragazzina, e mi chiedo che cosa ci faccia quassù, se non abbia alternative nella sua vita.
È proprio lei a inseguirmi mentre mi allontano, a cerimonia finita. Mi volto, penso che voglia ringraziarmi ancora una volta, tutte queste manifestazioni di gratitudine mi imbarazzano, vorrei far capire a queste persone che non sono io ad aiutarle, o almeno non io da solo, e che soprattutto sono loro gli eroi, loro le eroine, loro che danno a tutti noi qualcosa che non siamo nemmeno in grado di apprezzare e meritarci.
Il servizio di sicurezza però mi spinge letteralmente dentro la macchina, ricacciando indietro la ragazza. Le sorrido, le faccio un cenno di saluto, ma resto con l’impressione che volesse dirmi qualcosa.
Ci sono altri giri da fare in città, incontri con varie istituzioni, visite a diversi progetti. Ogni tanto intercetto Lorenzo, il più giovane dei miei collaboratori, che risponde a una chiamata sul cellulare, mal celando un certo imbarazzo. Alla quarta volta gli chiedo che cosa succeda e lui mi dice che è la ragazza della miniera. Vuole assolutamente parlarmi, ma non devo preoccuparmi, c’è lui a fare da filtro. È una magnifica persona, Lorenzo, un ragazzo in gamba e in più ha un cuore d’oro. Saprà quello fa, penso.

Alle sei rientriamo in albergo. Ci vediamo alle sette nella hall per andare a cena, dico a Lorenzo, poi salgo su in camera.
Quando scendo, dopo un’ora, è tutto troppo veloce. Attraverso il bellissimo cortile coloniale, sfiorando la fontana, infilandomi nelle arcate bianche, e faccio appena in tempo a scorgere Lorenzo che mi fa segni disperati, come a dirmi di tornare indietro, che io non ci sono, non ci sono per nessuno. Poi, una frazione di secondo più tardi, il campo visivo si apre e lo vedo attorniato da una decina di ragazze, sedute a raggiera sui divanetti della minuscola reception. Sorrido, chissà che cosa sta combinando il ragazzo, ma ormai mi hanno visto, una delle sconosciute si alza ed esclama: eccolo, ma allora c’è, non è mica vero che era uscito.
È lei, la volontaria di stamattina.
Lorenzo mi guarda sconsolato, allarga le braccia, ho fatto tutto quello che potevo, sembra voler dire.
D’accordo, adesso mi spiegate con calma che cosa sta succedendo. Forza, tirate fuori tutto quello che c’è da dire, non vi mangio mica.
Lei tentenna, improvvisamente imbarazzata, poi racconta: non è una minatrice, sua madre è una palliri, una delle donne autorizzate a raccogliere i resti dei minerali all’esterno delle miniere, ed è anche una delle due volontarie più anziane che ho visto sul Cerro Rico. Lei, la figlia, studia in un istituto tecnico e solo di tanto in tanto va su ad aiutare la madre. Visto che è giovane e sveglia, ha pensato anche di dare una mano al servizio di pronto soccorso.
Loro sono tutte mie compagne di scuola, aggiunge, abbracciando con un gesto della mano le altre ragazze. Ci sono anche due bimbi piccoli, avranno si è no quattro anni, si rotolano tra le poltrone e i tavolini giocando a rimpiattino. E un ragazzo, che guarda a terra, sopraffatto dall’esuberanza delle coetanee, nonostante i suoi piercing al naso e al sopracciglio e il taglio da reggaeton che dovrebbe conferirgli un’aria aggressiva di cui è invece desolatamente privo.
Molto bene, e che cosa studiate?
Siamo allieve di un corso superiore per parrucchiere, interviene una delle nostre ospiti. Cominciano a parlare di loro, a turno, sopraffacendosi a vicenda, interrompendosi, togliendosi la parola, sovrapponendo le frasi fino a renderle incomprensibili. La scuola, il lavoro, le famiglie, la vita da adolescenti a Potosí. I bimbi sono figli della volontaria e di una sua amica. Ma a quanti anni li avete avuti, benedette ragazze? A quindici, forse quattordici. E i padri? Il padre del mio bambino è lui, dice una bella ragazza ricciuta, indicando lo sperduto ballerino di reggaeton. Il mio invece, sospira la figlia della palliri, si è dato alla fuga appena ha saputo che ero incinta. Che razza di storie, mi viene da dire, ma voglio capire che cosa c’entro io con tutto questo.
Ecco, adesso interviene una terza studentessa, abbiamo quasi finito gli studi e tra un mese ci sarà la cerimonia della consegna dei diplomi. Faremo una grande festa di fine corso e abbiamo bisogno di un padrino.
Il padrino, da questa parte del mondo, è colui che adotta un intero corso di laurea o di diploma, offre la cerimonia e viene immortalato nella foto ufficiale, quella che ogni studente porterà con sé per il resto della sua vita, come ricordo del momento in cui le sue speranze e le sue ambizioni avevano toccato il punto più alto (per precipitare, il più delle volte, in un futuro grigio, alla ricerca della sopravvivenza o poco più).
Insomma, riprende la parola la nostra amica, per noi sarebbe un grande onore averla come nostro padrino. Anzi, l’abbiamo già nominato, e srotolano sotto i miei occhi un cartiglio che mi dichiara con parole pompose padrino della promozione dell’Instituto de Belleza Poly, riportando il mio nome in belle lettere calligrafate. Lorenzo svia lo sguardo, temendo occhiatacce che non arrivano: travolto dalle telefonate di questo pomeriggio non è riuscito a nascondere il mio nome e la sua sillabazione tutt’altro che scontata, per le ispanofone. Penso al fastidio che si sono date, per tutta la giornata, e alla cura che hanno messo nel preparare la mia designazione, e mi intenerisco.
«E che cosa possiamo fare?», dico rivolto al mio collaboratore, «Mi sembra che in fondo se lo siano meritato, con tutta la fatica che hanno fatto».
«Vuol dire che lo farà?».
«Ma certo, avete vinto».
Esultano, si abbracciano. Qualcuna ride.
È così che sono diventato padrino di un gruppo di sciampiste.
No, dico, potrebbe mai capitarmi una cosa normale, che so, offrire la festa per un liceo o per un corso di laurea in ingegneria? Niente affatto, mi tocca un istituto di parrucchiere.
Ci mettiamo d’accordo su come fargli arrivare il mio contributo. E la foto, non dimentichi una sua bella foto da inserire nel nostro quadro ricordo.
Alla fine mi invitano a visitare la loro scuola. Lorenzo prova a dissuaderle, adesso basta, ragazze, avete già avuto quello che volevate, non insistete oltre. Loro però non si danno per vinte, mi lasciano l’indirizzo. Non posso promettervelo, farò il possibile, le congedo.

Il giorno dopo, terminati gli incontri e le riunioni, mi concedo una passeggiata da solo per le vie del centro storico. Dov’è la calle Bolívar, chiedo a un uomo. Me la indica. Quasi quasi. In fondo, che ho da perdere? Ho già promesso di finanziare la loro festa di fine corso, fammi almeno vedere com’è.
Sotto un’arcata buia un cartello disegnato a mano, molto colorato, invita a passare alla bottega di taglio e pettinatura per signore, nonché istituto superiore per parrucchiere. Ci sono due nomi, uno lo conosco già, è l’Instituto de Belleza Poly, l’altro mi strappa un involontario sorriso: Peluquería Pussycat.
All’interno, un cortile distante anni luce dall’idea peccaminosa suggerita da quel nome – e non escludo nemmeno che ne ignorino il significato. Una scala diroccata sale a un ballatoio che occupa metà del piano alto. La ringhiera è arrugginita e si stacca in più punti dai supporti di cemento, minacciando di crollare. Dove vai, mi dice un bambino (forse è uno di quelli di ieri sera). Vieni da noi, vero?
Su una porta a vetri incorniciata da infissi di legno stinto hanno incollato un foglio di carta con il nome dell’istituto. All’interno un corridoio buio, ingombro di scaffalature e mobiletti a vetro ricolmi di fogli e fascicoli. Del resto è una scuola. Tre stanze si aprono lungo la parete. Apro la porta della seconda ed entro in un vasto salone occupato da cinque poltrone da barbiere. Non ce n’è una uguale all’altra, i caschi da parrucchiere sembrano residui prebellici, i lavandini sono sbreccati, per quanto puliti, almeno a prima vista. Mobiletti di fornica ospitano pettini, forbici e strumenti spaiati. Vecchie foto di attrici e modelle, dalle pettinature ormai scolorite, sono incollate alle pareti che perdono l’intonaco. Un calendario della birra Paceña rimanda al 1997 e in un panorama dell’Illimani metà del cielo è diventato verde.
Un coro di urli mi riscuote. È venuto, è venuto davvero, gridano le ragazzine, applaudendo.
«Ragazze, comportatevi», le richiama una signora che sembra uscita dal ritaglio di una rivista americana degli anni sessanta.
Ha i capelli cotonati, di un bianco che vira insistentemente all’azzurro, un ceruleo violetto, direi. Avrà settant’anni e cerca di mantenere una posa di austera dignità, infilata in un tailleur liso ma ordinato. Muove le mani dalle dita lunghe e nodose con severità, o almeno questo sarebbe il suo obiettivo, ma il risultato è che le sue studentesse la sopraffanno scavalcandola e accerchiandomi.
«Le nostre allieve ci hanno parlato di lei, la ringraziamo per il suo gesto», dice adesso con pomposità il direttore della scuola, un altro figurino scappato dalle pagine di un vecchio numero di Life: alto e magro, i baffetti grigi molto curati, le rughe ordinate orizzontalmente sulla fronte come fascicoli su uno scaffale, i capelli – va da sé –impeccabili, il blazer blu con i bottoni dorati sui pantaloni di flanella grigia. Il tutto dev’essere stato lavato e stirato mille volte, negli ultimi lustri, ma regge ancora bene.
«Qui alle nostre alunne impartiamo non solo le nozioni tecniche di cui avranno bisogno per la loro professione, ma anche i lineamenti di cultura generale e soprattutto lezioni di stile e di moralità», riprende l’insegnante cotonata, con una voce sottile ma scandita.
«Resti, resti, le facciamo i capelli, anzi, no, la barba», insistono le ragazze.
«Su, per favore, non disturbate il signore», cerca di imporsi il direttore.

Quando riesco ad andarmene si è fatto quasi buio. Sul pianerottolo della casona coloniale, prima di scendere la scala diroccata, guardo oltre i tetti di Potosí. Il triangolo rossastro del Cerro Rico splende stagliandosi sul cielo trasparente, troppo leggero a queste altitudini. C’è un silenzio assoluto, come se ogni rumore fosse stato pompato via da un sifone idraulico. Pallide luci verdastre brillano sui fianchi della montagna, tradendo di certo le casette dei minatori.
Sorrido. Che cos’altro potrei fare?

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4 Commenti

  1. Prosa elegante e equilibrata. Mignano si conferma uno dei migliori narratori italiani contemporanei. C’è a mio avviso troppo equilibrio nelle vicende e nelle immagini. Sicuramente fanno parte del suo vissuto, delle sue esperienze di viaggio, però alla fine mi è sembrato di aver letto un racconto di un De Amicis redivivo. Cioè: penso che il suo grande talento narrativo potrebbe azzardare di più, e forse provare a darci quegli scossoni e quegli affreschi di cui per ora sono capaci solo scrittori come DeLillo e altri.

  2. Sono capitato qui per caso, fuori il cielo è grigio e cupo, e una bella lettura come questa mi ha portato lontano con la fantasia, le atmosfere sono coinvolgenti, lo sguardo è acuto ma tenero al tempo stesso…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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