Mobilità
di Marco Rovelli
Ci sono uomini che traversano deserti, e popolano terre di nessuno. Un viaggio necessario, inarrestabile. “Ma voi davvero pensate che è possibile fermare una marea umana di questo tipo? Pensate davvero che riuscirete a frenarci?” – così grida un senegalese appena rimpatriato dalla Spagna, e così inizia A sud di Lampedusa di Stefano Liberti (minimum fax, 14 euri), giornalista del manifesto, a cui quel grido era rivolto. Questo libro non è una raccolta di articoli ognuno dei quali parla di un luogo diverso dei tanti che costellano il cammino dei migranti africani. Certo, Liberti ci racconta nel dettaglio gli itinerari, le facce, le parole, le speranze, i paesaggi. Dà un corpo, insomma, a quel travaglio che precede l’apparizione degli uomini neri sulle nostre coste. Ed è questo il primo livello della lettura, quello che tocca: i volti e i contorni delle persone e dei luoghi incontrate lungo il viaggio, figure indimenticabili. Ma più a fondo A sud di Lampedusa è un percorso critico nei “luoghi comuni”. Il percorso di un giornalista che racconta trasgredendo le regole del giornalismo: raccontando in prima persona, raccontando il proprio viaggio e sé stesso, le questioni, le attese, i dubbi. Leggendo ci si interroga con l’autore, sulla natura dei luoghi attraversati, sulle ragioni dei migranti, sulla natura del rapporto tra soggetto-giornalista-bianco-osservatore e oggetto-migrante-nero-osservato (Liberti non cessa di interrogarsi sul rapporto tra la propria empatia umana e il proprio ruolo sociale di giornalista). Passo dopo passo, dunque, si mettono in crisi i luoghi comuni del discorso costruito sopra l’evento-migrazioni: ad esempio si scopre il meccanismo del gioco – i cui attori sono le agenzie istituzionali, europee e nazionali, e i mass media – dell’allarme invasione – un’invasione costruita sapientemente, un meccanismo che sovrasta, in ultima analisi, ogni singola soggettività (spesso ricorre l’idea di essere parte di un “teatrino” in cui ciascuno recita il proprio ruolo). E si scopre, per esempio, come la retorica della tratta degli esseri umani, la retorica degli scafisti – sia appunto solo una retorica costruita e finalizzata a un discorso pubblico del tutto finzionale: non si ha traccia, per gli africani, di grandi organizzazioni criminali che gestiscano il traffico degli esseri umani, ma le migrazioni si fanno passo dopo passo, per prove e tentativi, e ogni luogo attraversato ha le proprie modalità organizzative e di autogoverno (e allora, viene da pensare, insistere sui trafficanti degli esseri umani non sarà parte del medesimo meccanismo retorico di autoassoluzione che usa Maroni quando, per giustificare l’abominio delle impronte ai minori rom, dice che non vuole più che vivano in mezzo ai topi dei campi?). Si scoprono allora i meccanismi che regolano questi viaggi, le figure che si ripetono nei vari luoghi, a partire dai connection men, quegli intermediari essenziali ai tentativi, e dai villaggi ghetto dove i migranti si riuniscono per nazionalità e hanno i propri responsabili, che offrono servizi. E si scopre come del discorso allarmista di cui sopra sia parte pure la retorica (spesso anche di sinistra) miserabilista, che vede i migranti tutti come poveracci e straccioni, e come invece le cose siano assai più complesse: non “dannati”, ma “avventurieri”; non “viaggi della disperazione”, ma “spedizioni”; del resto per i congolesi quelli che migrano sono rallystes, termine che rovescia la prospettiva nord-sud, dove adesso è da sud che i territori vengono attraversati, ma con la medesima inclinazione all’avventura – solo non per diporto, ma per sete di un’altra vita – non turisti, per dirla con Bauman, ma appunto migranti.
Mobilità – è il termine che spaventa le identità precarie dei cittadini di un nord che subiscono la perdita di certezze, sicurezze e garanzie che consegue alla globalizzazione. E il libro “Mobilità umane – Introduzione alla sociologia delle migrazioni” di Salvatore Palidda (Raffaello Cortina, 19,50 euri) è una guida per comprendere il “fatto sociale totale” delle migrazioni contemporanee. Con richiami al passato – e sorvoli sulle stesse migrazioni italiane tra otto e novecento – il cuore del libro sta nei due capitoli: “La gestione neoliberale delle migrazioni” e “La criminalizzazione delle migrazioni”. Dove non si capisce il secondo fatto senza inscriverlo nel primo. E Palidda ragiona, dati alla mano, su come l’allarme criminalità sia essenzialmente una costruzione mediatica, una grande menzogna finalizzata alla minorizzazione dei migranti e al loro uso servile nel contesto delle economie europee.
La distorsione operata dalle rappresentazioni dominanti, dunque – ancora una volta si torna lì. Come ci torna anche il libretto di Hervé Le Bras “Addio alle masse – Critica della ragion demografica” (elèuthera, 9 euri), che nell’ultima parte smonta gli allarmismi indotti dalle fosche previsioni di demografi disinvolti che fanno intravedere flussi oceanici a sommergere le civiltà dei paesi del nord. Le Bras riflette sugli errori delle previsioni della Banca Mondiale, e mostra come, al contrario, le migrazioni “tendono verso flussi modesti, articolati, specializzati, in un contesto di generale radicamento”. E – mettendo in crisi ogni nostro luogo comune – osserva che “un secolo fa le migrazioni internazionali erano decisamente più frequenti”. Ma allora, c’è o no questo evento epocale, oggi? Sì e no, risponde Le Bras. E per farlo ci invita a riconsiderare la parola “mobilità” – aggiungendo un elemento rispetto al percorso fatto nei due libri di cui sopra. Nella sua prospettiva occorre distinguere la migrazione dalla mobilità – dove la seconda si riferisce a qualsiasi cambiamento di luogo, mentre nella migrazione c’è sempre un aspetto definitivo. Oggi, grazie a riduzione di costi e tempi di spostamento, rispetto al passato aumenta sempre la mobilità, ma diminuisce la migrazione. Si pensi agli “immigrati” dell’Europa orientale.
Converrebbe prenderli in mano questi libri, approfondirli, ragionarci sopra per costruire prospettive politiche che contrastino la deriva razzista – una deriva di pancia, la cui forza è proprio quella di non saper articolare un discorso complessivo. Ragionare è più faticoso, ma è l’unica possibilità per tirarci fuori da questo immondezzaio in cui stiamo sprofondando.
(pubblicato su Liberazione il 31-7-2008)
mio padre è stato un emigrante: 15 anni in Germania. Molti anni dopo mi misi a riflettere sul perchè avesse deciso di andare a lavorare in Germania. Scrissi questa cosa qui “Intervista al proprio padre
E’ passato tanto di quel tempo, adesso tu sei in pensione, vai e torni dalla campagna, zappi, poti, innesti, semini, raccogli. Mai fermo come se volessi recuperare il tempo perduto. Tutto il tempo che sei stato in Germania. Da piccola pensavo fosse normale che i padri fossero altrove per lavoro. Erano via gli zii, i vicini, gli zii degli zii; per le strade, per le campagne s’incontravano perlopiù donne, bambini e anziani.
Adesso che sono adulta e madre vorrei capire le ragioni della tua scelta. Cosa ti ha spinto a partire per la Germania?
– La miseria. –
Solo la miseria, sei sicuro?
– Dovevo farlo, per te, per tuo fratello … per farvi studiare –
Questa è la motivazione evidente ma quella nascosta, l’altra, qual è?
– Non esiste “l’altra” –
Non sono qui per criticare o condannare. Sono qui per capire le ragioni di una scelta. La tua.
– E’ difficile. Sono passati tanti anni … ricordo la casa senza acqua, senza bagno, senza stufa solo un piccolo camino che non tirava, faceva fumo e basta. Quell’anno l’inverno fu particolarmente rigido. L’estate era stata arida e come se non bastasse anche la grandine aveva fatto la sua parte e il granaio era quasi vuoto. Questa terra argillosa è piena solo di sassi e crepacci, per far crescere anche solo un filo d’erba la devi bagnare di sudore. Allora non c’era la motozappa, la mietitrebbia, la pompa che tira l’acqua dal pozzo … solo queste mani (mostra le mani piene di calli, l’indice sinistro ha una falange in meno). Avevamo solo l’asino e queste mani e non bastavano, non bastava lavorare dalla mattina alla sera per essere sicuri di avere un piatto pieno.
Partì per primo zio Francesco, poi zio Peppino, il mio amico Vincenzo… Lo accompagnai alla stazione. Nel porgergli la valigia di cartone dal finestrino vidi nel suo sguardo preoccupazione ma anche speranza. Mi disse soltanto “Ti aspetto”.
Certo è che a vedere tutti partire in un certo senso si acquista coraggio. Da quando avevo salutato Vincenzo sapevo che, prima o poi, anch’io avrei riempito una valigia di cartone.
Quale fu l’elemento che ti indusse poi a concretizzare questa tua
consapevolezza?
– Non so se ti ricordi la vecchia casa, quella in cui siete nati tu e tuo fratello
… forse eri troppo piccola per ricordare … ma non ha importanza. Quella casa aveva un portone di legno pieno di buchi, le tarme lo stavano divorando, la serratura, sebbene avesse un maniglione di ferro (arrugginito), cedeva facilmente sotto una spinta violenta. Ebbene qualcuno era entrato in casa e aveva rubato quel poco grano che ancora c’era nel granaio. Ricordo ancora tua madre ferma vicino al granaio, dallo sportello aperto non scendeva neanche un chicco. Non disse una parola, non versò una lacrima, tolse soltanto i piatti dalla tavola e se ne andò a letto. Non saprei dire per quanto tempo restai fermo vicino al camino e neanche quello che pensai, so che ad un certo punto mi alzai presi il grosso mantello appeso al chiodo dietro le porta e uscii nella sera. Nevicava. Ricordo le orme che lasciavo dietro di me.. C’era silenzio per le strade, la neve brillava alla luce della luna, rotonda, bianca che mi accompagnava. Adesso mi rendo conto che ogni passo sulla neve era come distaccarsi; mi sembrava quasi di sentire, nel poggiare lo sguardo sulla strada, sulle case, il rumore di una forbice mentre taglia il grappolo dalla vite.Quando arrivai davanti alla porta di zio Renato, restai un attimo fermo prima di bussare. Entrai. Il lumino ad olio illuminava la tavola ancora apparecchiata. Zia Antonietta mi offrì la sedia e un bicchiere di vino. Non avevo ancora detto una parola riguardo alla mia visita ma zio Renato si alzò, si diresse verso il letto e sollevando il materasso tirò fuori i soldi di carta grossi come fazzoletti. “In bocca al lupo. Quando parti? “Te li rendo appena possibile”. Non era ricco zio Renato quell’anno era stato solo un po’ più fortunato di noi. La grandine aveva risparmiato i suoi raccolti e sua moglie aveva ricevuto una piccola eredità da un lontano parente. Finii il bicchiere di vino e ritornai nella neve. Nella tasca i soldi di carta pesavano.
Ma adesso a distanza di tanti anni forse riesci a vedere anche un’altra motivazione che va al di là di quella del granaio vuoto e che comunque non la sminuisce né la rende secondaria ma, in un certo senso, l’accompagna. Mi spiego. Eravate più o meno tutti nelle stesse condizioni ma non tutti gli uomini della tua età, padri (o non) partirono perciò suppongo che ci sia “l’altra”.
Una pausa di silenzio segue le mie parole. Il suo sguardo più che lontano sembra accartocciarsi dentro le orbite.
– Forse hai ragione. Non avevo mai riflettuto su questa cosa. Non tutti partirono. E un motivo ci deve essere. C’è. Forse lo avevo già visto negli occhi di Vincenzo.
Quando il treno partì dal finestrino guardai voi tre, tu dormivi in braccio a tua madre, tuo fratello attaccato alla sottana con la manina alzata, due occhi sgranati .. ma non ricordo il viso della mamma, anche sforzandomi non ci riesco, ricordo soltanto il movimento della gonna mossa dal vento e fu l’ultima cosa che vidi poi mi girai e guardai davanti a me e una specie di allegria, non allegria, no, ma neanche contentezza …. Non saprei dirti … ma un qualcosa alleggerì il mio dolore, sì, lo alleggerì, e nello stesso tempo mi provocò un vuoto, qui, proprio in mezzo al petto …
Fascino per l’avventura e paura dell’ignoto.
– Paura …. Ma … direi preoccupazione … non sapevo leggere, non sapevo scrivere …. Andare in Germania …. Era lontana la Germania … Era una parola … Era la notte ….
Un sogno?
– Forse –”
questo per dire che Migrare è anche un sogno. Ciao Lucia
tutti questi discorsi sembrano riportare ad un bellissimo capitolo di “Viaggio al termine della notte”. Lo ricordate? Quando Ferdinand si imbarca dall’Africa senza nemmeno conoscere la destinazione, per poi trovarsi a New York. E’ vero, lui fuggiva da qualcosa, ma nello stesso tempo fuggiva anche verso qualcosa di nuovo, e tutte le motivazioni che ha messo in quel libro non mi sembrano molto differenti da quelle che potrebbe avere un migrante odierno: sogno, speranza, desiderio d’avventura, ma anche il non credere più nel proprio paese.
http://www.sign69.com/medialounge/space364.html
marco questa è per te
anzi per noi
effeffe
Molto interessante. Io tristemente penso che purtroppo non ci sia più speranza, neppure un’ultimissima speranza affidata alla ragione, perché la maggioranza della gente la bufala del “pericolo invasione” l’ha proprio assimilata: è entrata nel’inconscio senza passare dal cervello. Comunque si potrebbe accettarlo: succederà quello che deve succedere, i migranti continueranno ad arrivare, la massa ignorante e cattiva continuerà a non capire niente e a dire stronzate – esattamente lo stesso tipo di niente e la stessa dose di stronzate che capirebbero e direbbero anche in assenza di immigrazione – e l’Italia si assesterà a modo suo, secondo equilibri brutti e naturali risultanti da macrodinamiche che studiosi vari cercheranno di analizzare.
grazie a marco, effeffe e andrea garbin, lucia…(bei commenti)
un ricordo personale: quando marco venne a napoli per promuovere il libro e tenere una conferenza sulle morti bianche, tra i numerosi ospiti, la corposità degli interventi e le testimonianze più toccanti, ciò che più mi commosse furono le parole di un anziano professore, di cui purtroppo mi sfugge il nome, che ampliando il discorso lo dirottò verso questo dell’immigrazione.
non dimenticherò mai, quando con voce tremolante, arrossendo per lo sforzo, tutto infervorato e con gli occhi lucidi disse: “come possiamo rimanere indifferenti? come possiamo ripiegarci su noi stessi, rinchiuderci, arginare gli sbarchi…? quando tutto ciò che dovremmo fare sarebbe disseminarci su quelle lunghe tratte in mezzo al mare, come piazzole di sosta e metterci a distribuire viveri e danaro e prestare soccorso e dire: ecco, prendete. voi siete ovunque i benvenuti, ovunque vi dirigiate in cerca di cibo e pace e acqua. perché tutti hanno il diritto di vivere e di desiderare una vita migliore. voi siete i benvenuti, ovunque desideriate!”
si tratta sempre di confini più o meno aleatori da mantenere, con l’illusione che all’interno tutto sia “migliore”. mi viene in mente il film The Village, dove una non tanto fantomatica comunità vive isolata dal resto del mondo, separata dai boschi (che poi scopriremo sorvegliati dalla polizia perché nessuno scopra il segreto). Lì non si deve uscire. Qua è drammatico entrare. Ma comunque è il luogo salvo verso cui ci ostiniamo ad andare, da sempre. La storia è tutto un ripetersi di invasioni (fisiche, spirituali) e tentativi di difendersi. Non è una cosa nuova: il problema è nella miopia di cui soffriamo nei confronti dell’altro e del passato.
Mi interessa molto la differenza tra il concetto di migrazione e quello di mobilità. Sono d’accordo sulla necessità di ragionare di cui parla Marco, il problema però resta sempre come far arrivare un sapere (vedi anche il bel discorso del professore riportato da Maria) alla massa. Sempre più chi vuole capire sembra relegato in una sfera autistica a cui spesso si rassegna…
[…] in via di sviluppo, come la Cina e l’India. Gia’ oggi sono piu’ le persone che vivono in citta’ rispetto alle persone che vivono in aree rurali. Tale massiccia urbanizzazione avra’ effetti […]
[…] questo, lo spopolamento delle campagne, non solo continuo’, ma accelero’, particolarmente fra il 1945 ed il […]
[…] Napizaro e’ diventato un villaggio prospero, come lo sono diventati altri villaggi nella zona. I milleduecento abitanti del villaggio vivono per la maggior parte in comode casette in mattoni con graziosi giardini e antenne per la televisione. Le strade del paese hanno illuminazione elettrica, una piccola infermeria, un centro comunale ed una piccola arena per i tori chiamata il North Hollywood in onore dell’area industriale di Los Angeles che si trova a piu’ di mille miglia di distanza e da cui dipende il benessere di Napizaro. […]
Soprattutto, grazie a Lucia, la tua intervista è molto bella, in questo incalzare il padre, e fargli scoprire quella differenza.
Poi, anch’io ho poche speranze. Come fare ad arrivare alle “masse” (posto che le masse non ci son più). Solo una rete di circolazione e diffusione dei saperi potrebbe essere utile alla bisogna. Ma questo è a dire – politica. Ciò che oggi, non si dà più. Ci sarebbe da ricominciare dal basso, umilmente. Ma chi lo fa? Non certo rifondazione, ad esempio, a litigarsi le sedie delle sedi. Ma nemmeno noi, in fin dei conti, imprigionati qui dentro.