Nati per correre

di Luca Ricci

1
Il corridoio è proprio bello. Somiglia a una di quelle corsie lunghe e strette in cui vengono ripartite le piste da corsa. Non sono un esperto corridore, questo no. Trovo perfino noiose le Olimpiadi in televisione, figurarsi.
– Quant’è?
– Cinque metri e venti.
Segno il numero su un blocchetto. Mia moglie è all’altro capo del nastro. Preme un bottone e le ritorna in mano. Cioè si arrotola e finisce dentro una scatolina. Così è comodo procedere. L’ho comprato apposta. Prima di oggi non avevo mai dovuto misurare niente, a quanto pare. In ferramenta mi hanno detto che mi serviva una rotella metrica. Io ero andato con l’idea di chiedere un semplice metro. Mi ricordavo di quelli pieghevoli, in legno. Quando ero piccolo ce n’era uno simile, in casa. Ma quello era lungo al massimo un paio di metri. Adesso ho potuto scegliere tra cinque e otto. Ho comprato quello da otto.
Io e mia moglie svoltiamo l’angolo e siamo pronti per la misurazione del secondo segmento di corridoio. Per come la vedo io, se superiamo i cinque metri siamo a cavallo. Dieci metri e passa di corridoio bastano e avanzano. Sarebbe proprio una pacchia. Mia moglie arriva fino alla soglia della porta d’ingresso. Si accuccia. Scruta il nastro.
– Cinque e quaranta.
– Sei sicura?
– Sicurissima. Cinque e quaranta e un pezzettino.
Segno il numero sul blocchetto esultando. I numeri sono incolonnati per l’addizione finale. Sono molto ottimista. Mi sento già catapultato in quella canzone del Boss veloce veloce, accelerazioni di batteria e sassofono. E’ una delle mie preferite, anche se non ricordo mai il titolo. Mia moglie preme il bottone e si rimpossessa di tutto quanto il nastro. Adesso manca la terrazza del condominio, poi saremo pronti per stabilire con esattezza la distanza del tracciato.
– Saliamo?
Mia moglie esita. Per un istante si poggia la mano sul fianco come se stesse per sbuffare.
– Che ti prende?
– Niente. Solo che è da stamattina che misuriamo.
– Sai benissimo che per completare l’opera dobbiamo salire.
– Sì lo so.
Non pare convinta. A volte ho come l’impressione che non mi capisca più. Nessuno la obbliga, comunque. Ogni tanto esce. Va fuori per la spesa, o per il parrucchiere, frequenta qualche amica.
– Che hai?
– Ma niente.
Continua ad avere una postura interrogativa. La guardo insistentemente. La mano le ricade lungo il fianco.
– Quand’è iniziato tutto?
– Tutto cosa?
Alza le mani e allarga le braccia a semicerchio, come se volesse indicare qualcosa che non si vede.
– Tutto questo.

2
Era l’ultimo dell’anno. La giornata l’avevamo passata nel tentativo di battere un record a un videogame. Una partita io, una partita mia moglie. Alla fine di ogni partita sullo schermo del televisore compariva la scritta: salvare i progressi?
Non c’eravamo neanche accorti che fosse così tardi. I giorni precedenti non avevamo voluto organizzare niente. O meglio, era un periodo che niente sembrava andarci a genio. Delle solite proposte, che pure ci erano arrivate, non ne volevamo proprio sapere: il cenone a casa di amici o la festa in discoteca. Le case durante le feste natalizie cominciano a puzzare degli imballaggi dei regali e dei canditi scartati. La nostra non faceva eccezione, ma sempre meglio che niente. Sempre meglio che fuori. Alle otto di sera ciondolavamo ancora per il salotto con le pantofole. Guardai mia moglie riporre nella confezione il dischetto del videogame.
– Se facessimo la doccia saremmo ancora in tempo.
– Falla tu.
– No, prima tu.
Per un po’ giocammo a scaricare il barile. La doccia era un’incombenza al di sopra delle nostre forze. Fuori scoppiavano i botti dei ragazzini impazienti. C’era sempre questa voglia, l’ultimo dell’anno, di festeggiare a tutti i costi, anche a sproposito, anche prima del tempo. I forzati del divertimento, li chiamavamo io e mia moglie. L’avevamo letto su un giornale, e la definizione ci era subito piaciuta.
– Questo è senza dubbio il giorno peggiore dell’anno.
– Peggio di Natale?
– Perfino peggio di Santo Stefano.
– Peggiore di ferragosto?
– Il peggio del peggio.
Squillò il telefono. Un amico si fece avanti con la sua proposta dell’ultimo minuto. Un classico, anche questo. C’era sempre qualcuno che non si era organizzato e tentava di coinvolgerci in una serata catastrofica. Declinammo con gentilezza l’invito e ci rendemmo conto che si era fatto tardi sul serio. Le prime coppie uscivano in ghingheri, e gli schiamazzi di alcuni gruppi più numerosi davano il benvenuto alla sera. Mi misi ad ascoltare il discorso del presidente della Repubblica a reti unificate. Più che altro, mi divertiva passare da una rete all’altra. Mia moglie andò a controllare in frigorifero.
– Lo spumante ce l’abbiamo.
– E allora che altro ci serve?
– Dici davvero?
Paura?
Ci rimettemmo a giocare al videogame. E a un certo punto mia moglie ce la fece, riuscì a battere il record. Squillò ancora una volta il telefono. Dicemmo di no. In un certo senso, quella fu l’ultima telefonata. Passata la mezzanotte, accesi lo stereo.
– Possiamo alzare il volume, se ci va.
– Che hai in mente?
– Festeggiare l’ultimo dell’anno, né più né meno.
Mia moglie mi si gettò al collo. Rimanemmo in salotto a ballare, rimanemmo a casa.

3
La terrazza è una specie di U che mette in collegamento i due palazzi del condominio. Qualcuno viene a stenderci i panni, ma per lo più è deserta. La suddividiamo in tre blocchi e cominciamo le misurazioni. Siamo molto professionali, ormai. Potrebbero scambiarci per due geometri, o architetti, o ingegneri, che ogni tanto confabulano tra di loro su qualche complicatissimo dato tecnico. Dodici metri e ventotto, sedici metri e trentasei, tredici metri e cinquantadue. La somma della terrazza è più che confortante: quarantadue metri e sedici. Mia moglie è una maschera di sudore. Questa giornata è stata un ottimo esercizio preliminare contro la sedentarietà.
– Adesso non rimane che fare due conti.
– Pensi sia una cosa fattibile?
– Penso proprio di sì.
Prima di tornare a casa ci affacciamo a guardare il panorama. Non è un granché, più che altro ci serve per tirare il fiato. Da quassù il mondo somiglia a una specie di gigantesco cassonetto, e non ho proprio nessun tipo di pentimento. S’alza un filo di vento. Mi viene da pensare che il vento sia il modo che Dio ha scelto per accarezzarci. Lo dico a mia moglie.
– Dovremmo prenderne di più.
– Più vento?
– Più aria.
Scendiamo le scale. Per le scale è stato semplice. E’ bastato misurare una rampa e poi fare qualche moltiplicazione. Ogni rampa sono dodici metri e cinquanta. Il che vuol dire che per le scale di ogni palazzo posso contare su cinquanta metri, per un totale di cento metri. E’ tutto riportato sul taccuino. Faccio gli ultimi conti mentre mia moglie si stende sul divano e fissa qualcosa davanti a sé. Forse è solo stanchezza. Forse non fissa proprio un bel niente. Ci sono da mettere in conto anche gli undici metri e settanta della corte, naturalmente. Il tracciato è facile: parto dal mio corridoio, faccio due rampe di scale, passo dal terrazzo e scendo per le quattro rampe dell’altro palazzo, attraverso la corte e risalgo per altre quattro rampe fino al terrazzo.
– Sono centocinquantatre metri e ottantasei, escluso il corridoio.
– Il corridoio non lo conti?
– I dieci metri e sessanta del corridoio li faccio una volta sola.
Mia moglie si stringe nelle spalle. Come se si chiedesse a cosa sia servito misurarlo. E’ che avevo bisogno di una rampa di lancio. Una specie di tappeto rosso.
– Devo ripetere il tracciato diciotto volte, e sarà un buon allenamento.
– Quanti chilometri?
– Quasi tre, ma devi considerare le scale in salita, il ritmo diverso della corsa, lo sforzo maggiore.
Credo di essere raggiante, adesso. Potrei partire anche subito. Ho le scarpette giuste e la mia musica preferita da mettere nelle orecchie. Mia moglie dovrebbe ricordarselo.
– Come si chiama la mia preferita del Boss?
– La canzone?
– Sì, il titolo della canzone.
Born to run, tesoro.

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5 Commenti

  1. Racconto interessante, lieve ed ironico, con il suo distendersi in tre movimenti.
    Mi piace anche segnalare che Luca Ricci ha pubblicato di recente per Einaudi un piccolo romanzo davvero bello “La persecuzione del rigorista”.

  2. Someday Wendy
    I dont know when
    We’re gonna get to that place
    Where we really wanna go
    And we’ll walk in the sun
    But till then
    Tramps like us
    Baby we were born to run

  3. Finalmente un racconto privo di forza dirompente, lontano da strombazzamenti provocatori, dall’altra parte della barricata degli esibizionisti.
    Lieve, ironico e interessante. Condivido.
    Un rapporto all’insegna della mestizia, dai dialoghi stringati di chi si è già detto tutto, o di chi si dice molto con poche, essenziali parole. Una fuga di coppia dentro la coppia da un mondo che “somiglia a una specie di gigantesco cassonetto”, visto dal loro attichetto-rifugio. Ove bisogni e superfluo si mescolano fra loro imprigionati nella sfera dell’essenziale autocostruito, bastevole a sè stessi.
    Una spesa che assomiglia al mangime, un parrucchiere per un personaggio senza aspetto, aria come se fosse una cosa strana e qualche amica come per sentito dire.
    Per lui, anonimo malinconico anch’egli, un percorso podistico da criceto dentro la loro gabbia argentata.
    Docili coniugi, la fuga è finita. Campate in pace.
    Saluti e salute

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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