Letteratura e cinquantenni, la parola a Canetti
di Antonio Sparzani
«Poiché lo stile non è certo qualcosa di limitato all’archi- tettura o all’arte plastica, lo stile è qualcosa che penetra in ugual misura tutte le espressioni vitali di un’epoca. Sa- rebbe assurdo considerare l’artista un essere d’eccezione, uno che conduce quasi una vita appartata, nell’ambito dello stile ch’egli crea, mentre gli altri ne restano esclusi».
[Hermann Broch, I sonnambuli, III: Huguenau o il realismo, trad. it. di Clara Bovero]
Come preannunciato qui, vi offro la parte iniziale del discorso tenuto a Vienna nel dicembre 1936 da Elias Canetti, allora trentunenne, per celebrare i cinquant’anni di Hermann Broch. Questi all’epoca aveva pubblicato i tre volumi Die Schlafwandler [I sonnambuli] e poche altre prose. Anche qui l’interesse mi sembra risieda nei criteri di valutazione che Canetti propone per il valore di uno scrittore. Nella premessa al volume che ora contiene questo discorso (das Gewissen der Worte, C. Hanser Verlag, München – Wien 1976, trad. it. di Renata Colorni e Furio Jesi, La coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1984/2007) Canetti ribadisce che a distanza di tanti anni non troverebbe nulla da cambiare in quel discorso di allora.
«È bello e significativo che si usi il cinquantesimo compleanno di un uomo per rivolgergli un discorso davanti a tutti, e quasi strappandolo con violenza alle fitte trame della sua vita si eriga per lui un piedistallo, a tutti visibile da ogni parte, come se egli fosse completamente solo, condannato a una solitudine di pietra e immutabile, benché certamente la solitudine intima e segreta della sua umile vita che ispira tenerezza, sia già causa per lui di notevoli pene. È come se rivolgendogli questo discorso gli si dicesse: non ti angosciare, ti sei angosciato abbastanza per noi. Tutti noi dobbiamo morire, ma non è ancora sicuro che debba morire anche tu. Non è escluso che proprio le tue parole ci rappresentino presso i posteri. Tu ci hai servito con fedeltà e lealtà. Il nostro tempo non ti mette in congedo.
[… … …]
[… l’epoca che festeggia i suoi cinquantenni va incontro a mezza strada a questo desiderio dell’uomo. Alle generazioni più giovani essa addita nel cinquantenne un uomo degno di essere preservato e protetto. Forse contro il volere dell’interessato, gli attribuisce una posizione di spicco nel tremante drappello di quei pochi che sono vissuti più per il loro tempo che per se stessi. Si rallegra del rotondo piedistallo sul quale lo ha innalzato e a ciò collega una lieve speranza: forse quest’uomo, che non può mentire, ha visto una terra promessa, forse di essa può ancora parlare; a lui la sua epoca presterebbe fede.
A questa altezza è stato oggi innalzato Hermann Broch, e dunque osiamo dire senz’altro che in lui dobbiamo onorare uno dei pochissimi scrittori rappresentativi del nostro tempo; affermazione, questa, che acquisterebbe tutto il suo peso solo se potessimo anche presentare l’elenco dei molti individui che passano per scrittori pur non essendolo affatto. Ma ritengo che anziché dedicarsi a questa attività di giustizieri implacabili, importi assai di più riuscire a individuare le qualità estremamente contraddittorie che lo scrittore deve possedere affinché lo si possa considerare rappresentativo per la sua epoca. Se ci accingiamo con scrupolo a una simile ricerca, ne risulterà un’immagine dello scrittore che non è certo rassicurante, e men che meno armoniosa.
La violenta e spaventosa tensione in cui viviamo e che nessuna delle burrasche da noi tanto sospirate ha potuto scaricare si è impadronita di tutte le sfere, anche di quelle, più libere e pure, della meraviglia. Addirittura, se dovessimo definire in due parole la nostra epoca, potremmo dire che è l’epoca nella quale ci si può meravigliare contemporaneamente di cose tra loro del tutto opposte: del fatto che l’efficacia di un libro può durare millenni, per esempio, e nello stesso tempo che i libri in generale non durino di più nel tempo. Della fede degli uomini negli dèi e nello stesso tempo del fatto che non cadiamo a ogni ora in ginocchio di fronte a una nuova divinità. Della sessualità che decide la nostra vita e nello stesso tempo del fatto che la divisione tra i sessi non vada più in profondità. Della morte che non vogliamo mai e nello stesso tempo del fatto che già non moriamo nel grembo materno per l’angoscia di ciò che ci aspetta. Una volta la meraviglia era davvero lo specchio, se ne parla volentieri ancora oggi, che riproduceva i fenomeni su di una superficie più tranquilla e levigata. Oggi questo specchio si è infranto e la nostra meraviglia si è divisa in piccoli frammenti. Ma anche nel più minuscolo di questi frammenti non si rispecchia più un solo fenomeno; inesorabilmente esso si trascina con sé il proprio opposto; quale che sia e per piccolo che sia il fenomeno che vedi, mentre lo stai guardando esso si abroga da sé.
Non dovremo dunque aspettarci, se proviamo a cogliere in questo specchio l’immagine dello scrittore; che le cose per lui vadano diversamente che per le misere quisquilie della vita di ogni giorno. A tutta prima ci scontriamo con un errore assai diffuso, e cioè con l’idea che il grande scrittore deve porsi al di sopra del proprio tempo. Non c’è nessuno che di per sé si ponga al di sopra del suo tempo. Gli uomini sublimi non esistono. Se ne può forse trovare qualcuno che si è rifugiato o nell’antica Grecia o in qualche paese barbarico. Questo glielo possiamo concedere: certo bisogna essere ciechi per appartarsi in mondi cosi lontani, ma non si può contestare a nessuno il diritto di chiudersi a ogni sollecitazione dei sensi. Così facendo, tuttavia, uno non si pone al di sopra del nostro mondo, ma semplicemente prescinde dall’insieme dei nostri ricordi, quelli, per esempio, dell’antica Grecia: costui è per così dire uno storico sperimentale della civiltà che verifica ingegnosamente sulla propria persona gli elementi che sa di dover far coincidere con le sue più sicure percezioni. L’uomo sublime è ancora più impotente del fisico sperimentale, che certo si occupa di un limitato settore della fisica, ma almeno in quel settore conserva una possibilità di controllo. Le pretese di chi si presenta come un uomo sublime sono più che scientifiche, sono addirittura rituali; costui, perlopiù, non agisce nemmeno come il fondatore di una setta, bensì come un sacerdote che basta a se stesso; celebra un culto destinato a lui solo, di quel culto egli è l’unico seguace.
Il vero scrittore, invece, come noi lo intendiamo, è soggetto al suo tempo in tutto e per tutto, ne è l’umile e devotissimo schiavo. Ad esso è legato da un vincolo strettissimo, una breve catena impossibile da strappare. Cosi grande ha da essere la sua servitù che non dovrebbe essere possibile trapiantarlo altrove. Addirittura, se l’espressione non suonasse un po’ ridicola, direi semplicemente: lo scrittore è il segugio del suo tempo. Egli ne percorre i terreni fermandosi di continuo ora qua ora là; sembra che vada dove lo porta il suo capriccio, e invece, sensibile com’è, benché non sempre, al fischio del suo padrone, facile da aizzare e più difficile da richiamare indietro, egli è sospinto ininterrottamente da una inspiegabile propensione al vizio; ficca dappertutto il suo umido muso, non tralascia nulla, qualche volta ritorna sui suoi passi e ricomincia da capo, è insaziabile; mangia e dorme, del resto, ma non in questo si differenzia dalle altre creature, si differenzia invece per la tenacia inquietante con cui persevera nel suo vizio, per quel suo intenso e profondo godimento interrotto da continue scorribande; non gode mai abbastanza, e il tempo che ci mette gli pare sempre troppo; sembra addirittura che abbia imparato a correre solo per soddisfare quel suo vizioso muso.
Vi prego di scusarmi per questa immagine che certo vi apparirà quanto mai indegna dell’oggetto di cui stiamo parlando. Ma ciò che mi preme è porre in cima ai tre attributi che lo scrittore rappresentativo di questa nostra epoca deve possedere proprio quell’unico elemento di cui non si parla mai e dal quale gli altri prendono le mosse, quel vizio peculiare e concreto che pretendo da lui, senza il quale, come un povero bambino prematuro, egli verrebbe allevato con fatica a forza di pappine per diventare qualcuno che poi comunque non sarebbe mai.
Questo vizio crea un legame molto stretto tra lo scrittore e il mondo che lo circonda, simile a quello che il muso crea tra il cane che corre e la riserva di caccia dove può scorrazzare. Si tratta ogni volta, e per ogni scrittore, di un vizio diverso e speciale, un nuovo vizio nella nuova situazione. E non bisogna confonderlo con la normale integrazione e cooperazione delle attività sensoriali che ciascuno possiede in ogni caso; anzi, proprio un disturbo nell’equilibrio di questa cooperazione, per esempio il venir meno di un senso, o lo sviluppo smodato di un altro senso, può rappresentare un buon pretesto per lo sviluppo del giusto vizio, che è sempre inconfondibile, violento e primitivo. Esso si esprime con chiarezza nella figura e nei tratti del volto. Lo scrittore che si lascia possedere dal suo vizio è ad esso debitore delle sue esperienze essenziali.
Ma anche il problema dell’originalità, su cui si è più spesso litigato che parlato, viene posto da ciò in una nuova luce. L’originalità, com’è noto, non è cosa che si possa pretendere. Non succede mai che chi vuol essere originale lo sia. Noi tutti ricordiamo con un senso di imbarazzo le ridicole e vane acrobazie escogitate ad arte da tanta gente che vuol essere per forza originale. Comunque è enorme il passo tra il rifiuto della caccia spasmodica all’originalità e la balorda affermazione secondo cui uno scrittore non ha bisogno affatto di essere originale. Uno scrittore è originale o non è uno scrittore. Lo è in una maniera semplice e profonda grazie a ciò che abbiamo chiamato il suo ‘vizio’. Lo è così tanto che neanche lo sa. Il suo vizio lo spinge a dar fondo all’universo, cosa di cui normalmente nessuno lo avrebbe ritenuto capace. Immediatezza e inesauribilità, le due caratteristiche che da sempre sono state chieste all’uomo di genio, il quale in effetti le possiede sempre, derivano direttamente da questo vizio; avremo in seguito occasione di provare questa tesi con degli esempi e di riconoscere di che tipo di vizio si tratti nel caso di Broch.
La seconda caratteristica che oggi dobbiamo pretendere da uno scrittore rappresentativo è la ferma volontà di dare una visione d’insieme del suo tempo, una spinta all’universalità che non arretra spaventata di fronte a nessuna incombenza singola, che non elude, non dimentica, non trascura nulla, e che in nessun caso cerca facili scorciatoie. Broch stesso si è occupato più volte e in modo approfondito di questa universalità. Si può dire di più: la sua volontà letteraria si è accesa veramente proprio anelando all’universalità. Dedito in origine e per lunghi anni alla filosofia in senso stretto, Broch non si permetteva di prendere particolarmente sul serio le opere letterarie. Gli sembrava che in esse convivessero troppi elementi concreti da una parte e astratti dall’altra, erano opere frammentarie e contorte in cui mai si trovava là totalità. All’epoca in cui egli cominciò a filosofare, ogni tanto la filosofia si compiaceva ancora della sua antica pretesa di universalità, sia pure con cautela, dal momento che ormai quella pretesa aveva fatto il suo tempo; Broch, tuttavia, che aveva uno spirito magnanimo e attratto da tutto ciò che è infinito, si lasciò di buon grado allettare da questa pretesa. A ciò si aggiungeva l’impressione profonda suscitata in lui dall’universale armonia e compiutezza dello spirito del Medioevo, impressione che egli non superò mai del tutto. Broch è dell’avviso che a quell’epoca, nel Medioevo, esistesse un sistema di valori armonico e compiuto in se stesso, e per un lungo periodo della sua vita si è occupato di una ricerca sulla «disgregazione dei valori», che avrebbe inizio nel Rinascimento e che, con la guerra mondiale, giungerebbe soltanto al suo catastrofico epilogo.
Nel corso di questo lavoro, a poco a poco gli elementi letterari hanno preso in lui il sopravvento. La sua prima grande opera, la trilogia narrativa I sonnambuli, rappresenta a ben guardare la realizzazione poetica della sua filosofia della storia, sia pure circoscritta alla propria epoca, ossia agli anni tra il 1888 e il 1918. La «disgregazione dei valori» vi è raffigurata in personaggi vividi e altamente poetici. Non riusciamo a liberarci dalla sensazione che la pienezza, il valore, e talvolta l’ambiguità di questi personaggi si siano affermati nonostante la volontà contraria o comunque con la pudica riluttanza del loro autore. Non cesseremo di stupirei del fatto che in quest’opera lo scrittore abbia tentato in ogni modo di seppellire la propria essenza più vera sotto una montagna di concettose riflessioni.
Attraverso I sonnambuli Broch ha trovato una possibilità di attingere all’universale dove meno se lo sarebbe aspettato, cioè nella forma frammentaria e contorta del romanzo; e di questo parla infatti nei luoghi più svariati: «Il romanzo ha da essere lo specchio di ogni altra immagine del mondo». E ancora: «L’opera poetica nella sua unità deve cogliere tutto quanto il mondo» oppure «Il romanzo moderno è diventato erudito» e infine «L’opera letteraria è sempre una manifestazione di impazienza gnoseologica».
Ma soprattutto egli formula con chiarezza la sua nuova concezione nel discorso James Joyce e i tempi attuali : [… già citati qui …]
La terza esigenza che dovremmo porre allo scrittore è che egli si metta contro il suo tempo. Contro tutto il suo tempo, non solamente contro uno o più aspetti particolari di esso, contro l’immagine comprensiva e unitaria che lui solo è riuscito a farsene, contro il suo specifico odore, contro il suo aspetto, contro la sua legge. La sua opposizione deve prendere forma ed esprimersi a voce alta; non basta che egli si irrigidisca e taccia rassegnato. Deve strillare e sgambettare come un bambino piccolo; ma nessun latte al mondo offerto dal più amorevole dei seni deve poter placare la sua opposizione e ninnarlo nel sonno. Pur anelando al sonno, mai deve poter dormire. Se dimentica la sua opposizione diventa un rinnegato, come nei tempi antichi dominati dalla fede accadeva che un popolo intero rinnegasse il suo dio.
È una pretesa crudele e radicale, crudele perché in forte contrasto con ciò che ho detto prima. Lo scrittore o il poeta non è infatti un eroe che doma il suo tempo e lo assoggetta a sé. Al contrario, abbiamo visto che è in sua balìa, che ne è il servo umilissimo, il cane fedele; e questo stesso cane, che insegue il proprio muso per tutta la vita, gaudente e abulica vittima, libertino lui stesso oltre che preda dell’altrui sensualità, questo povero essere dovrebbe ad un tratto mettersi contro tutto ciò, contro se stesso e contro il proprio vizio, del quale però non può mai liberarsi, e così andare avanti ed essere sdegnato, e per di più consapevole del proprio dissidio! È davvero una pretesa crudele, e anche una pretesa radicale; crudele e radicale come la morte stessa.
Giacché è proprio dalla morte come realtà che si diparte questa pretesa. La morte è la prima e più antica realtà, anzi saremmo tentati di dire: è l’unica realtà. È di una mostruosa vecchiezza e nuova ogni momento. Ha un grado di durezza dieci ed è tagliente come un diamante. Ha la massima freddezza che esiste nel cosmo, duecentosettantatré gradi sotto zero. Il suo vento è il più forte di tutti, è il vento dell’uragano. La morte è il superlativo più reale che ci sia; soltanto non è interminabile, perché la si raggiunge da ogni strada. Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei. Fintanto che esiste la morte, ogni luce è un fuoco fatuo, poiché porta ad essa. Fintanto che esiste la morte, il bello non è bello, il buono non è buono.
I tentativi di venirne a capo – e cos’altro mai sono le religioni? – sono falliti. La consapevolezza che dopo la morte non esiste nulla, ed è una consapevolezza tremenda che mai potrà essere assoluta, ha conferito alla vita una nuova disperata sacralità. Lo scrittore, che in forza di quello che abbiamo sommariamente chiamato il suo ‘vizio’ ha la possibilità di essere partecipe di numerose vite, partecipa altresì di tutte le morti da cui quelle vite vengono minacciate. La sua personale angoscia di fronte alla morte, e chi potrebbe non averla?, deve diventare l’angoscia di morte di tutti gli uomini. Il suo personale odio, e chi potrebbe non odiare la morte?, deve diventare l’odio di tutti gli uomini. In questo e in nient’altro consiste la sua opposizione al tempo in cui vive, che è pieno e strapieno di miriadi di morti.
In questo modo ricade in parte sullo scrittore l’eredità dello spirito religioso, e si tratta certamente della sua parte migliore. Lo scrittore porta il peso di più di un’eredità: come abbiamo visto, la filosofia gli ha lasciato in testamento la sua pretesa di universalità; la religione la problematica della morte nella sua purezza. E la vita in quanto tale, la vita così com’era prima di tutte le filosofie e di tutte le religioni, la vita animale inconsapevole di sé e della propria fine, ha trasmesso allo scrittore, nella forma concentrata e ben canalizzata della passione, la sua inesauribile voracità.
Il nostro compito consiste ora nell’indagare come queste diverse eredità si connettano insieme nella singola personalità di Hermann Broch. Esse acquistano rilievo, infatti, solo integrandosi a vicenda. La rappresentatività della persona di Broch è data dalla loro unità.»
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Antonio, ho letto con estremo piacere quello che hai proposto ne Letteratura e cinquantenni (parte 1 e 2)
grazie.
francesco
Grande prosa e grande idea della letteratura.
Grazie, Antonio.