Muta quies habitat
Ovidio
Metamorfosi
[ libro XI, vv. 592-649 ]
NIOBE di Benjamin Britten [1913-1976]
da Six Metamorphoses after Ovid Op 49
per Oboe solo
V’è presso i Cimmeri una spelonca dai fondi recessi,
un monte cavo e impenetrabile dimora del pigro Sonno,
in cui mai con i suoi raggi all’alba, né a mezzodì, né al tramonto
il Sole riesce a filtrare: nebbie miste a caligine
esalano dal suolo in un crepuscolo dalla luce incerta.
Qui nessun volatile dal capo crestato con i suoi canti
evoca l’Aurora, né con la loro voce rompono i silenzi
i cani da guardia, né l’oca dei cani ancor più scaltra;
non suoni di fiere, non di armenti, non di rami mossi dal vento
e schiamazzi di lingue umane vi eccheggiano.
Una muta quiete l’abita; solo sgorga alla base della roccia
un rivolo del fiume Lete e fluente il mormorio
dell’onda invita al sonno con crepitio di sassolini.
All’ingresso dell’antro una distesa fiorita di papaveri
ed un’infinità d’erbe, e dalla loro linfa il sopore
estrae l’umida Notte e lo sparge sulle terre oscure.
Una sola porta per cui stridio di cardini risuoni
in tutta la dimora non c’è, nessun guardiano sulla soglia;
al centro dell’antro sta un alto letto d’ebano,
con piume, d’ugual colore, coperto da un velario scuro,
in cui giace il dio stesso con le membra sciolte dal languore.
Attorno a lui alla rinfusa nelle molteplici forme che imitano
giacciono vaghi Sogni, tanti quanti le spighe delle messi,
le fronde delle selve, la sabbia sospinta sulla spiaggia.
Ed appena entrò la vergine [Iride] scostando con le mani i Sogni
che glielo impedivano, al fulgore della sua veste s’illuminò
la sacra dimora e il Dio socchiudendo gli occhi pesanti dal sonno
a stento e ancora e ancora ricadendo
con il mento ciondolante che gli sbatteva sul petto
si riscosse infine e sollevandosi sul gomito,
(la riconobbe dunque) le chiese perché fosse venuta, e lei:
“Sonno, quiete delle cose, placidissimo, Sonno, fra gli dei
pace dell’animo, che fughi gli affanni, che i corpi spossati
dai faticosi doveri accarezzi e recuperi alla fatica,
a quelli fra i Sogni, che sanno imitare le forme vere,
ordina che con l’aspetto del re Alcione
vadano a Trachine patria di Ercole
e simulino le sembianze di un naufrago.
Lo comanda Giunone.” Appena assolto il compito
Iride scappò via: che non poteva oltre sopportare
la forza del sopore, al sentire il sonno nelle membra,
fuggì risalendo sull’arcobaleno com’era giunta.
Allora il padre dalla marea dei suo mille figli
svegliò l’artefice ed imitatore di figure
Morfeo: nessun altro è più abile di lui
nel ricalcare l’incedere e il volto e il suono della voce;
ed anche le vesti e il modo di parlare;
ma imita solo gli uomini e un altro
si trasforma in fiere, uccelli o un serpente dal lungo corpo
questi gli dei chiamano Icelo, i comuni mortali Fobetoro;
c’è anche un terzo con diversa capacità
Fantaso: quello in terra e roccia e acqua e tronco,
in una qualsiasi cosa inanimata si muta con l’inganno;
questi a re e condottieri il volto sono soliti
mostrare la notte, altri si aggirano fra il popolo e la plebe.
Il vecchio Sonno li tralasciò e tra i tanti fratelli il solo
Morfeo prescelse per eseguire gli ordini della figlia di Taumanide,
poi sciogliendosi di nuovo in molle languore
reclinò il capo e sprofondò sotto le coltri.
Est prope Cimmerios longo spelunca recessu,
mons cavus, ignavi domus et penetralia Somni,
quo numquam radiis oriens mediusve cadensve
Phoebus adire potest: nebulae caligine mixtae
exhalantur humo dubiaeque crepuscula lucis.
Non vigil ales ibi cristati cantibus oris
evocat Auroram, nec voce silentia rumpunt
sollicitive canes canibusve sagacior anser;
non fera, non pecudes, non moti flamine rami
humanaeve sonum reddunt convicia linguae.
Muta quies habitat; saxo tamen exit ab imo
rivus aquae Lethes, per quem cum murmure labens
invitat somnos crepitantibus unda lapillis.
Ante fores antri fecunda papavera florent
innumeraeque herbae, quarum de lacte soporem
Nox legit et spargit per opacas umida terras.
Ianua, ne verso stridores cardine reddat,
nulla domo tota est, custos in limine nullus;
at medio torus est ebeno sublimis in antro,
plumeus, atricolor, pullo velamine tectus,
quo cubat ipse deus membris languore solutis.
Hunc circa passim varias imitantia formas
Somnia vana iacent totidem, quot messis aristas,
silva gerit frondes, eiectas litus harenas.
Quo simul intravit manibusque obstantia virgo
Somnia dimovit, vestis fulgore reluxit
sacra domus, tardaque deus gravitate iacentes
vix oculos tollens iterumque iterumque relabens
summaque percutiens nutanti pectora mento
excussit tandem sibi se cubitoque levatus,
quid veniat, (cognovit enim) scitatur, at illa:
Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces reparasque labori,
Somnia, quae veras aequent imitamine formas,
Herculea Trachine iube sub imagine regis
Alcyonen adeant simulacraque naufraga fingant.
Imperat hoc Iuno. Postquam mandata peregit,
Iris abit: neque enim ulterius tolerare soporis
vim poterat, labique ut somnum sensit in artus,
effugit et remeat per quos modo venerat arcus.
At pater e populo natorum mille suorum
excitat artificem simulatoremque figurae
Morphea: non illo quisquam sollertius alter
exprimit incessus vultumque sonumque loquendi;
adicit et vestes et consuetissima cuique
verba; sed hic solos homines imitatur, at alter
fit fera, fit volucris, fit longo corpore serpens:
hunc Icelon superi, mortale Phobetora vulgus
nominat; est etiam diversae tertius artis
Phantasos: ille in humum saxumque undamque trabemque,
quaeque vacant anima, fallaciter omnia transit;
regibus hi ducibusque suos ostendere vultus
nocte solent, populos alii plebemque pererrant.
Praeterit hos senior cunctisque e fratribus unum
Morphea, qui peragat Thaumantidos edita, Somnus
eligit et rursus molli languore solutus
deposuitque caput stratoque recondidit alto.
[ traduzione di Orsola Puecher ]
[ immagine Gustave Courbet, Ruscello boscoso del Puits-Noir (1860-1865), olio su tela, Cone Collection, Baltimore Museum of Art, Baltimora ]
[ musica da Britten – Chamber Works, track 2, (6) Metamorphoses after Ovid, oboe Eric Speller, Ambroisie, 18 Aug 2002 ]
I commenti a questo post sono chiusi
Grazie Orsy! Hai reso stupendamente il ritmo e la musica di Ovidio. E poi, vivaddio, era ora che qualcuno si ricordasse del povero esule nel Ponto.
I classici.
Non ho mai creduto, come sostengono alcuni, che tutto sia stato detto, nell’antichità classica. Negheremmo, in questo modo, la nozione stessa di progresso.
Credo alla ricerca, alla sperimentazione. Al nuovo. Che sia tale e non puro riciclaggio furbesco di cose già fatte.
Ma è pur vero che chi ricorda quel che di grande è già stato detto, merita la mia più sincera ed affettuosa approvazione.
Ad maiora!
[sergio falcone
Fuggir lontano da dove
Le Nubi edizioni
Roma, novembre 2006
http://www.lenubi.it]
Un grazie a Orsola per questa proposta, un bel lavoro.
E cosi bello che mi sono incantata con l’immagine che si mostra e svanisce come il sogno, specchio del silenzio acquatico.
Amo i classici, perché evoca la memoria della poesia, colora la mente di magico, fa entrare in un mondo di rifugio.
Les métamorphoses sono un dei libri che amo rileggere: trovo il il riposo, la saggezza, una contemplazione che manca un po’ nella nostra epoca.
La mia preferita è Orphée e Eurydice.
Ci sono momenti sublimi di poesia come la descrizione dei luoghi segreti, come il lento sogno di Narcisse. Un miracolo di contemplazione che cattura anche il lettore, che resta all’orlo del riflesso.
E mi rammento come la pena d’amore è analisata in una sensibilità universale.
Con gli alunni quest’anno, ho studiato brani e posso dire che i testi dell’Antichità hanno un magnifico successo.
Grazie a te Orsola, per il momento di grazia.
“il mormorio
dell’onda invita al sonno con crepitio di sassolini.”
meraviglioso, grazie!
domanda: ma non c’era nessuno per il mondo vegetale? Il tronco è equiparato al regno minerale…
Leggere questo brano è stato un pò come trovarsi nel quadro di Courbet, la sensazione di quiete, di benessere, l’assenza di elementi di disturbo, l’atmosfera di pigra quiete è stata per me come una piccola oasi in una torrida giornata già vissuta. Le parole, per fortuna, non hanno scadenza come un qualunque bene di consumo, e questo le rende preziose e immortali. Leggerle e rileggerle aiuta a capire meglio i loro significati, anche i più nascosti o quelli che sfuggono ad una lettura superficiale. Grazie a Orsola Puecher, il verde, l’acqua, la frescura del corpo e dello spirito di queste immagini li porterò con me per l’intera giornata.
bellissimo
nessuno più di me favorevole alla muta quies, all’otium e a tutto quanto favorisce e circonda questi insuperabili atteggiamenti dello spirito. Ovvero, Le virtù dell’inerzia!
ezzezionale
[ grazie a tutti… questo post ha intenti che travalicano gli ambiti razionali, confinando segretamente con quella speciale capacità propiziatoria delle parole di influenzare le cose trasformandole, anche a distanza.
Cara Fembis la suddivisione dei compiti fra Morfeo, Fobetoro e Fantaso è un’idea di Ovidio, prima c’era solo un indeterminato Oneiros factotum che si occupava di tutto, andandosene in giro con un mazzo di papaveri a sfiorare le palpebre dei dormienti. Va da se che nelle Metamorfosi la suddivisione fra cose animate ed inanimate è sempre molto aleatoria.
Con un tronco potrebbe capitare facilmente anche questo:
“Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lí per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentí una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
— Non mi picchiar tanto forte! —
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia! ” ]
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In tanto la dea Poltronaria, commossa da la rabbiosa querela di Momo (dio de’ non piú volgari ch’abbia il cielo), se mise il suo marito in braccio; e presto, avendolo indi tolto, lo menò verso la cavità d’un monte vicino a gli Cimmerii; e con questi si partiro li suoi tre figli Morfeo, Icilone e Fantaso; che tutti tosto si ritrovorno là dove da la terra perpetue nebbie
exalano, caggionando eterno crepuscolo a l’aria: dove vento non soffia, e la muta Quiete tiene un suo palaggio ancora vicino a la regia del Sonno; avanti il cui atrio è un giardino di tassi, faghi, cipressi, bussi e lauri; nel cui mezzo è una fontana, che deriva da un picciol rio, che dal rapido varco del fiume leteo, divertendo dal tenebroso inferno alla superficie de la terra, ivi viene a discuoprirsi al cielo aperto. Qua il dormiglioso dio rimesero nel suo letto, di cui d’ebano le tavole, di piume i strami ed il pa-
diglion di seta di color pardiglio.
[Giordano Bruno, Spaccio della Bestia trionfante (1584)]
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cara Orsola
ti regalo questo pezzetto tratto dal capitolo “Il tiglio” di “Arboreto salvatico” di Mario Rigoni Stern:
“Qualche volta persino le api, quando con insistenza raccolgono nettare da certi tigli, vengono come assopite e si adagiano sull’erba all’ombra dell’albero”
Io a volte quando mi addormento in certi modi mi sveglio con i piedi bruciati… :-) Ciao Orsola e grazie!
cara Orsola, oggi, 13 luglio, approssimativamente intorno alle 13, leggo di certi tronchi che rievocano vecchi studi abbandonati…dal mito di Driope in Ovidio al Polidoro di Virgilio, finiti e superati nel XIII dell’Inferno, uno dei miei più cari, uno dei pochi, ormai, che ancora ricordo a memoria, e che le coincidenze vollero mio concittadino…
“IO sentìa d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ‘l facesse
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse ‘l maestro: Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante
li pensier ch’hai si faran tutti monchi.
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno
e ‘l tronco suo gridò: Perché mi schiante?
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi,
ben dovrebb’essere la tua man più pia
se state fossimo anime di serpi”
ah, altra “coincidenza”: XIII commento!
[ questa si configura ormai come una catena di bellezza ]
grazie fem, i tigli del viale qui accanto, se pur potati a sangue da un qualche demone giardiniere, hanno da poco terminato la fioritura dei loro racemi e il loro profumo assopente per me è quello degli esami, della fine della scuola, della fine di qualcosa. Della malinconia.
Anna, allora vuol dire che hai fuoco nel tuo camino, meglio che la pentola dipinta sul muro:
“Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro.”
Maria cara io circa adesso ascoltavo Dafne, prima certo di diventare alloro essa stessa sfuggendo ad Apollo, in veste di messaggera di sventura portare il triste annuncio ad Orfeo della morte di Euridice
DAFNE
Per quel vago boschetto
ove rigando i fiori
lento trascorre il fonte degl’allori,
prendea dolce diletto
con le compagne sue la bella sposa,
chi violetta, o rosa
per far ghirlande al crine
togliea dal prato, e dall’acute spine,
e qual posando il fianco
su la fiorita sponda
dolce cantava al mormorar dell’onda.
Ma la bella Euridice
movea danzando il piè su ‘l verde prato,
quando ria sorte acerba
angue crudo, e spietato,
che celato giacea tra fiori, e l’erba
punsele il piè con sì maligno dente,
ch’impallidì repente
come raggio di sol che nube adombri,
e dal profondo core
con un sospir mortale,
sì spaventoso ohimè, sospinse fore
che quasi avesse l’ale
giunse ogni ninfa al doloroso suono,
ed ella in abbandono
tutta lasciossi allor nell’altrui braccia,
spargea il bel volto, e le dorate chiome
un sudor vie più freddo assai che ghiaccio.
Indi s’udio il suo nome
tra le labbra sonar fredde e tremanti
e volti gl’occhi al cielo
scolorito il bel viso, e i bei sembianti
restò tanta bellezza immobil gelo.
da L’Euridice
(6 Ottobre 1600)
libretto di Ottavio RINUCCINI
musica di Jacopo PERI
La prima vera scena drammatica di tutto il teatro d’opera
Da notare circa da “punsele il piè con sì maligno dente” la dissonanza come espressione di angoscia e di dolore, di brivido freddo fra la risolta carezza dell’assonanza. L’entrarvi ed uscirvi dei suoni sulle parole.
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dalle metamorfosi al principio di conservazione dell’energia e viceversa, ecco Galileo nel “Dialogo dei massimi sistemi” Giornata Prima:
“io non son mai restato ben capace di questa trasmutazione sustanziale (restando sempre dentro a i puri termini naturali), per la quale una materia venga talmente trasformata, che si deva per necessità dire, quella essersi del tutto destrutta, sí che nulla del suo primo essere vi rimanga e ch’un altro corpo, diversissimo da quella, se ne sia prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto e di lí a poco sotto un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una semplice trasposizione di parti, senza corrompere o generar nulla di nuovo, perché di simili metamorfosi ne vediamo noi tutto il giorno.”
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– E credi ai mostri, credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
– Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo.
CESARE PAVESE, Dialoghi con Leucò, Einaudi, 1973, pag. 171.
*
Grazie Orsola,
hai fatto bene alla nostre anime.
Ricordandoci a cosa dobbiamo restare fedeli
La fede che porta, al suo centro, la Vita.
[ non si sa come – ma oggi è così – pensavo a questo di Leucò… visto che poi la spelonca del Sonno confina con l’Ade e il sonno stesso è fratello di Tanatos – quell’altro sonno – cose così – di luci – barlumi per far paura a quelle oscure che ti vogliono prendere alla spalle ]
Orfeo: “È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. Si intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avrei attraversato, e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi: ‘Sia finita’ e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.”
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, L’inconsolabile [1947]
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Orsola: anche se la cosa mi turba un po’.
Sono stato tentato, inizialmente, di inserire nei commenti proprio questo passo dell'”Inconsolabile”.
Ho deciso altrimenti perché – se anche potevo collegarmi con l'”Euridice”
di Rinuccini, citata precedentente – mi pareva una scelta troppo personale, impegnativa, che sfiora profondità difficilmente confessabili. Pericolose.
“Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono sempre il mondo sotterraneo e promisero a più d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio Orfeo, cantore, viandante nell’Ade e vittima lacerata come lo stesso Dioniso, valse di più”.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, L’inconsolabile.
Io so che di questo amore si può morire.
et rursus molli languore solutus
deposuitque caput stratoque recondidit alto.
Grazie per questo dolce accompagnamento, per il quale Britten è quel che Dio fece.
Ho letto i commenti con una curiosità bella, perché fanno paragoni che invitano alla riflessione, o meglio alla contemplazione.
Les métamorphoses svelano anche come l’amore è irraggiungibile nel corpo stesso. Nella metamorfosi, il corpo diventa vegetale, legno, ramo,corteccia, e solo il cuore vivo dell’amore batte: c’è un dolore a non potere accarezzare il corpo amato nell’assenza o la morte, o forse lo slancio amoroso è un miraggio, un momento luminoso destinato a scomparire. Il luogo participa all’ambiente di sogno, perché simbolisa la verginità. L’acqua è il megliore degli elementi per toccare il fuggivole miraggio: l’altro corpo se ne va come un fantasma acquatico o rimane chiuso nel vegetale vergine.
Se mi beccano addormentato in ufficio, gli leggo ‘sto passo e forse me la cavo… :-)
Scherzi che continuano, credo sia un sogno riuscire a compiere una vera metamorfosi rigenerativa del corpo e dello spirito durante il sonno. Ci si alza sempre in credito di qualcosa. Si va a letto troppo tardi e troppo stanchi, e le vergini – rimaste oltretutto tali dopo l’incontro – che si arrampicano sull’arcobaleno non si vedono più neanche dopo essersi fatti due tromboni e una mezza nobile di montepulciano.
Scherzi a parte, grazie Orsola di aver proposto questo brano.
Lascia davvero in estasi.
Meravigliosa l’immagine di Iride che si fa largo tra i sogni e si presenta al cospetto del dio illuminando la sacra dimora con il fulgore della sua veste.
Sono felice di questa trasmissione Morse di incanto.
Nei classci c’è una radice comune talmente profonda della nostra civiltà che agisce, quasi prima che a livello cosciente, a livello pischico ed inconscio. Come ritrovare delle matrici profonde oltre tempi, eventi, fatti, ed, è vero, oltre il nostro sonno inquieto che non riposa poi molto.
Il testo latino nella sintesi tipica della sua lingua perfetta, nella precisione realistica eppur sognante delle immagini, nella musicalità non esibita della poesia quantitativa, che non affida alla rima e neppure solo all’assonanza questa sua musicalità, ma al suo battito di cuore interno, piano e poi tachicardico e poi ancora piano, si fa tradurre con una particolare meraviglia.
C’è una specie di riposo parola dopo parola.
La descrizione di questo luogo nebbioso ed in controluce è tutta per negazioni, l’evocazione di quel che lì non c’è, dei suoi suoni, del movimento aggiunge ed aumenta per sottrazione la suggestione di silenzio ed immobilità.
Poi il lampo e luce di Iride e poi di nuovo il silenzio.
La scrittura che con il suo poco di segnetti arriva al molto, al sublime.
La scrittura.
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