Didattica emotiva
di Christian Raimo
Negli ultimi anni è venuta fuori da più parti l’idea che in Italia la scuola stia vivendo una profonda crisi. Se è vero che quella scolastica è una specie di crisi di sistema (se leggete la letteratura di un secolo e mezzo di scuola italiana, da Ada Negri a Leonardo Sciascia a Domenico Starnone, la maggior parte racconta di una scuola in crisi, spesso sull’orlo del crollo), è vero anche che negli ultimi dieci anni si sono verificati alcuni fenomeni concomitanti: un aumento consistente della presenza di agenti formativi esterni che non sono la famiglia (altra istituzione in presunta crisi), l’aprirsi di un fossato tra il periodo di formazione e quello lavorativo con la conseguenza di una continua e profonda messa in discussione di molte delle condizioni di base dei percorsi formativi (per cui, come reazione: lo sviluppo della formazione continua, le diverse e forse ridondanti riforme scolastiche…), la progressiva perdita di autorevolezza delle istituzioni pubbliche (dall’università ai partiti allo Stato tout-court).
Tutto questo ha creato una forma di interrogazione sul ruolo della scuola, che negli ultimi tempi ha assunto – anche nelle parole dei ministri dell’Istruzione, dei leader politici, dello stesso presidente della Repubblica – dei contorni emergenziali. Sarà l’andazzo, ma se si parla di scuola, si parla di “emergenza educativa”, utilizzando quest’espressione per significare un generale declino del ruolo della scuola nella vita sociale e nella vita individuale, e soprattutto un deficit di credibilità sempre maggiore. Questo richiamo ha avuto vari echi, da una parte una geremiade savonarolesca continua, per cui la scuola è allo sfascio: crollo strutturale, incapacità di fare fronte a un’altra emergenza di tipo generazionale (i ragazzi fuori controllo, bulli, sessuomani, drogati, addicted di internet); dall’altra una più condivisa presa di coscienza che la questione educativa non può essere lasciata confinata alla scuola stessa, ma fa parte di una più ampia comprensione della società.
Per cui lo stesso papa Benedetto XVI, per dire l’esempio più eclatante, in una sua recente lettera alla Diocesi di Roma fa suo, della Chiesa, l’impegno rispetto all’emergenza educativa»:
Dobbiamo dare la colpa agli adulti di oggi che non sarebbero più capaci di educare? È forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita.
Inoltre, accanto a forme di esposizione così evidente, non è poi difficile rintracciare tutta una serie di segnali che vanno nella stessa direzione. Dall’interesse mediatico per le baby-gang, ai filmati su youtube con le bravate in classe, alla riscoperta di figure come quella di Maria Montessori o di Don Milani – personaggio celebrato tanto da Veltroni come da Bondi come da Rifondazione. Fino alla notevole quantità di saggi pubblicati negli ultimi tempi che mettono al centro della riflessione sulla crisi della società la questione della scuola: L’assedio del presente di Claudio Giunta, Saper fare scuola: il triangolo che non c’è di Vittorio Campione e Silvano Tagliagambe, I buchi neri dell’educazione di Raffaele Mantegazza, L’educazione impensabile di Paolo Perticari, la riedizione della Scuola sospesa di Giulio Ferroni…- che si accompagnano anche a vari libri di tono appunto più emergenziale (Mal di scuola di Marco Imarisio, diversi titoli sul bullismo) e a vari best-seller di narrativa: Ehi prof! di Frank McCourt, Diario di scuola di Daniel Pennac, La scuola spiegata al mio cane di Paola Mastrocola… In un crescendo di interesse che alla fine forse fagocita se stesso, come per esempio sottolinea Vittorio Giacopini, uno dei coordinatori del progetto Educazione che ha deciso di portare avanti dalla rivista «Lo Straniero» proprio da un anno e mezzo a questa parte:
Parlare di scuola sta diventando di moda ma è quasi impossibile: è una maniera – patetica – di raschiare il barile di utopie scadute e impresentabili, un surrogato della politica, un genere letterario (e cinematografico, ovviamente). Professori scrittori – o sceneggiatori – che immancabilmente scrivono di scuola, scrittori frustrati che fanno i professori, zelanti maestrine con la penna rossa, “piccoli bidelli” (G. Fofi). Non se ne può più.
Ce lo ripetono sempre: non bisognerebbe mai parlare di ciò che non si conosce bene dall’interno. È quasi sempre una formula rituale, una scorciatoia. Nel caso della scuola, quest’epistemologia spicciola del buon senso borghese si traduce subito in una scusa per non vedere e non giudicare. Diventa un alibi. È futile nascondersi dietro il velo dell’incompetenza. La scuola non è un argomento specialistico. Quando parliamo di scolarizzazione di massa, di democrazia, di istruzione obbligatoria, facciamo anche una confessione che ci impegna. Nella scuola prendono corpo per la prima volta troppe cose che con la scuola in senso stretto non hanno in fondo molto a che fare: modelli sociali, relazioni, modi di fare, che scavalcano sempre il perimetro scalcagnato di quelle quattro mura e quelle file di banchi tutti uguali, quelle cartine geografiche quasi sempre storte. [1]
Allora. Come risponde allora la scuola italiana a queste continue sollecitazioni, a questa richiesta lancinante di ammodernamento? Ci prova. Ci prova in diversi modi.
Dal punto di vista didattico, l’innovazione più evidente è quella della didattica modulare. Rispetto alla personalizzazione dei percorsi formativi affidati alla cura dell’insegnante singolo o alla fedeltà alla tradizione scolastica, la didattica a moduli ha sicuramente la caratteristica di impegnare un ripensamento, di stimolare una consapevolezza del modo di insegnare.
La didattica modulare si presenta come l’esito di un lungo percorso di ricerca didattica che ha attraversato dagli anni ’70 in poi e, soprattutto a partire dall’innovazione dell’autonomia scolastica, il dibattito sulla scuola; e cerca di essere insieme la risposta a una società in cui i saperi, le conoscenze e le competenze non apprese all’interno della scuola sono cresciute a dismisura e in cui è parallelamente diventata palese la perdita di centralità del ruolo formativo della scuola nell’immaginario collettivo. Questo scenario complessivo lo sintetizza in modo molto preciso Gaetano Domenici all’inizio del suo Manuale dell’orientamento e della didattica modulare:
È soprattutto in un quadro storico-sociale caratterizzato da una elevata complessità, da un ritmo crescenti di trasformazioni, da uno stato di incertezza circa le sue linee evolutive (o involutive), quindi di disorientamento generale, che la formazione scolastica può giocare un ruolo di grande rilievo. Principalmente essa può fornire infatti quella strumentazione cognitiva e affettivo-emozionale (che si esprime in requisiti concettuali, in atteggiamenti e disposizioni) ormai necessaria per garantire l’istaurarsi di, in ognuno, di progetti di auto-apprendimento e di auto-orientamento continui. […] La ragione è molto semplice. Nel quadro storico-sociale appena delineato, informazioni e conoscenze atomizzate, troppo spesso destrutturate e reciprocamente contraddittorie, saperi fortemente finalizzati a risolvere problemi estemporanei o, più esattamente, a rincorrere talune esigenze immediate imposte spesso da mode passeggere (che spesso si riducono a processi di formazione spacciati per moderni, ma a ben vedere quasi di banale addestramento), non garantiscono la costruzioni di quei reticoli di conoscenze fortemente strutturate in grado di facilitare tanto sul piano cognitivo che motivazionale l’ammodernamento continuo dei propri repertori conoscitivi. [2]
La didattica modulare sarà allora quello strumento di orientamento e strutturazione dei saperi in reticoli di conoscenze, che Domenici tiene a sottolineare dovranno essere 1) significativi, 2) sistematici, 3) stabili, 4) di base, 5) che producano un elevato grado di capitalizzazione.
È vero però che questa disamina che Domenici compie in modo esemplare risulta forse eccessivamente fosca, e non prende in considerazione la capacità sempre più efficace di auto-orientamento che i saperi informali, extra-scolastici attuano su se stessi, e in seconda battuta anche sui saperi scolastici. Si potrebbe allora contro-citare un brano da un intervento che Henry Jenkins, autore di Cultura convergente [3] professore di Media Learning al MIT di Boston, ha tenuto alla MacArthur Foundation, in cui mostra anche l’altra faccia del quadro analizzato da Domenici:
Secondo un recente studio del Pew Internet & American Life project (Lenhardt & Madden, 2005), più della metà di tutti i ragazzi tra i 10 e i 20 anni hanno creato dei contenuti-media, e circa un terzo dei ragazzi che usano internet ha condiviso i contenuti che ha prodotto. In molti casi, questi ragazzi sono coinvolti in quelle che noi definiamo culture partecipative. Una cultura partecipativa è una cultura con confini relativi bassi tra espressione artistica e impegno sociale, un forte supporto per creare e condividere le proprie creazioni, e qualche tipo di tutoraggio attraverso il quale le conoscenze vengono passate dai più esperti ai novizi. Una cultura partecipativa è anche una cultura nella quale i membri credono che i loro contributi contino, e sentono un qualche tipo di connessione sociale reciproca (per lo meno, si preoccupano di quello che gli altri pensano su ciò che loro hanno creato).
Le forme di cultura partecipativa includono:
– Affiliazioni – formali e informali, in comunità on-line centrate su varie forme di media (per es.: Friendster, Facebook, programmi di messaging, giochi on-line, MySpace)
– Espressioni – produzione di nuove forme creative, come campionamenti digitali, video, fan fiction, fanzine.
– Problem-solving collaborativi – lavorare insieme in gruppi, formali e informali, per risolvere problemi e per sviluppare nuova conoscenza (Wikipedia, reality gaming alternativo, spoiling).
– Circolazioni – Dare forma al flusso mediatico (podcasting, blogging). L’idea che Jenkins sostiene è che molte delle forme di reticolazione di saperi che vengono acquisite in contesti extra-scolastici, spesso informali, come per esempio comunità di fandom, servono poi sempre più per strutturare direttamente l’acquisizione e la rielaborazione dei saperi anche in contesti scolastici, o in generali di studio disciplinare: una dialettica quindi che si muove a doppio senso.
D’altra parte non può essere forse vero che la strutturazione della didattica modulare inserisca un eccesso di schematizzazione, riecheggiando alle volte terminologie aziendalistiche da «qualità totale», quasi a compensazione dell’arbitrarietà spesso improvvisata (soprattutto per quanto riguarda obiettivi formativi e criteri di valutazione) dei metodi degli insegnanti italiani?
La questione allora si sposta, e non va pensata soltanto in termini così astrattamente didattici. Lo sa bene chi a scuola ci sta. Accanto alla formazione disciplinare, c’è tutta una preparazione emotiva che soltanto l’esperienza in classe fornisce. La comunicazione emotiva, una didattica che si serva della comunicazione emotiva, è probabilmente la sfida più interessante in un rapporto insegnante-studenti nell’interrelazione tra scuola e società. Se è pur vero che le invettive apocalittiche sui disastri educativi della società attuale vanno contrastati e ribaltati, e i libri di Jenkins o di Steven Johnson [4] sono un ottimo antidoto contro i luoghi comuni del disastro dei mala tempora currunt, è pur vero che la loro impostazione tiene poco conto dell’aspetto emotivo della formazione. E invece forse proprio da questo contesto, da questa complessità che è al tempo stesso fragilità, occorre partire.
Come prova a fare, in un recente intervento, Franco Bifo Berardi, che riprendendo alcune riflessioni di Geert Lovink, prova a bilanciare l’ottimismi dei media-fili, dando dei contorni più definiti a quella che forse è oggi la «questione educativa». Non un’emergenza dunque, ma sicuramente una sfida imprescindibile. Urgente sì, ma solo se sentita.
Nel gennaio 2007 gli studenti e le studentesse del liceo bolognese Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola. Interessanti le motivazioni che sono venute fuori. In una indagine svolta prima e durante l’occupazione stessa una larghissima maggioranza di studentesse (molto meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e lo stress, e il panico. La causa più immediata che hanno indicato le ragazze intervistate è il carico di lavoro scolastico, il sentimento di essere sovrastate dai ritmi che la scuola impone loro.
Sta diventando adulta una generazione che fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a un flusso ininterrotto di stimoli informativi, molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione competitiva. Un vero e proprio assedio dell’attenzione da parte del sistema mediatico. La pubblicità lavora sulla percezione di sé, sull’identità in competizione. La televisione e i media virtuali mobilitano costantemente il sistema nervoso sottraendo spazio per la socializzazione, per lo scambio affettivo, per la corporeità. Linguaggio e affettività sono scissi in maniera patogena.
Fino a un paio di decenni fa la sindrome del panico era praticamente sconosciuta. La parola panico aveva un significato indefinito, romantico, aveva a che fare con il sentimento di essere sopraffatti dall’immensità della natura. Ma negli ultimi anni il termine è entrato a far parte del lessico psicopatologico, perché un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori (soprattutto quelli che lavorano nei settori in cui si impiega tecnologia informatica) denunciano alcuni fra i sintomi che possono definire una crisi di panico: palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento e di asfissia, dolore al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggere o di svenimento, derealizzazione, paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazioni di torpore o di formicolio.
Gli psichiatri non sono in grado di indicare le cause di questo fenomeno, probabilmente perché sfugge al loro campo. Il panico si può definire come una reazione dell’organismo posto in condizioni di sovraccarico informativo. L’organismo riceve troppe informazioni per poterle elaborare affettivamente, e per poter costruire strategie di comportamento razionale.
Per completare il quadro patologico occorre ricordare che un numero crescente di bambini e di ragazzi nella prima adolescenza soffrono di quella sindrome che gli psichiatri americani hanno definito Attention deficit disorder: una incapacità di concentrare l’attenzione su un oggetto mentale per un tempo superiore ai pochi secondi. Non è forse del tutto comprensibile, se teniamo conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel quale queste persone sono cresciute è un flusso psicostimolante che sposta continuamente l’oggetto dell’attenzione, come accade nelle pratiche del multitask o dello zapping?
Non è forse del tutto comprensibile, visto che l’ambiente di formazione videoelettronico tende a scindere l’esperienza cognitiva e linguistica dal contatto corporeo e dalla socialità affettuosa?
Nel loro libro L’epoca delle passioni tristi, Benasayag e Schmit giungono alla conclusione che la percezione stessa del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione.
“La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che sentendosi braccato incorre in un autentico stallo esistenziale. Il tempo scorre a gran velocità e non c’è posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio che le consenta di sfuggire alla trappola della depressione. Ora, questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente alla vita quotidiana di decine di milioni i persone che non si considerano affatto depresse, ma vivono in un mondo in cui sembra che il tempo acceleri perché l’economia le minaccia, la competizione non permette di prendere tempo. E simultaneamente lo spazio si riduce: tutti i posti del mondo tendono ad assomigliarsi”.
Mi pare che proprio questo sia il problema posto dalle studentesse del liceo Minghetti. [5]
note:
[1] Da “Una falsa partenza. Critica sociale e critica della scuola”, reperibile su http://www.lostraniero.net/Educazione/teoria.html
[2] Gaetano Domenici, Manuale dell’orientamento e della didattica modulare, Laterza 1998, pag. 8.
[3] Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo 2007.
[4] Tutto quello che ti fa male ti fa bene, Mondadori 2006.
[5] Su http://article.gmane.org/gmane.culture.internet.rekombinant/1859
(Pubblicato su deriveapprodi.org)
Mi ha molto interassato l’articolo, perché affronta l’argomento della didattica e dell’ adattamento della scuola al mondo. In Francia le IUFM (scuola di didattica sono in via di scomparsa). Penso che il mestiere si impara sul terreno e che ogni insegnante ha la sua manera di fare crescere, pensare. Il problema è conciliare la tradizione al mondo odierno.
Per esempio nel nostro mondo quale posto alla letteratura? Vedo che l’insegnamento del latino va in concorrenza con insegnamento complementare con un modullo professionale.
Ho una volunta nel mio modesto insegnamente: trasmettere la tradizione , fare capire che la letteratura è un garante della libertà, una consolazione, un sogno. Ma in nostro mondo, i bambini hanno il tempo di sognare?
So che i ragazzi amano il teatro, la poesia, l’avventura, ma spesso vedono nella lettura un obbligo. Dico sempre: “c’è sempre un libro per te che ti aspetta, anche se non ami leggere”
Ho notato che i ragazzi amano scrivere su computer, e adesso quando do un tema, faccio lavorare in grupo o con il computer.
Dare il piacere di scrivere e forse dare importanza all’illustrazione, alla creatività, ma è molto difficile.
Per la didattica, devo dire che ho conosciuto disillusione, e che ho molto imparato sul terreno, con la mia esperienza.
Mah. Non ho capito cosa Raimo volesse dire. Mi sembra che faccia parlare troppe persone al posto suo. sembra un articolo scritto per forza, su commissione. Certo, molto interessante, come dice Veronique. Ma dire che quest’articolo “affronta l’argomento”!
Raimo qual è la sua tesi?????
Pare evidente solo che sono criticabili le critiche tuoni e fulmini contro il degrado della scuola. Bene, ma PERChè?
“Emergenza educativa” cosa vuol dire? Perchè sarebbe un’emergenza dell’educazione e non dell’istruzione? Perchè della scuola e non di tutti gli altri fattori in campo?
Era proprio necessario citare il papa? Le sue parole sono da autobus, è palese. E Giacopini, così lontano dal pontefice? Dice che non se ne può più dei discorsi sulla scuola (ancora l’autobus…) e tu lo usi per parlare di scuola…
Ok, che schifo la “geremiade savonarolesca continua”. Che si fa?
1 didattica modulare
2 media learning
Ho le traveggole! Ancora questa minestra? E presentata in questo modo, cioè solo citata? Giacopini serviva a far sopportare questi banali accenni a queste due tematiche?
Poi, di passata: non sei uno scrittore? Come si può sopportare un tale italiano : ” Nel quadro storico-sociale appena delineato, informazioni e conoscenze atomizzate, troppo spesso destrutturate e reciprocamente contraddittorie, saperi fortemente finalizzati a risolvere problemi estemporanei o, più esattamente, a rincorrere talune esigenze immediate imposte spesso da mode passeggere (che spesso si riducono a processi di formazione spacciati per moderni, ma a ben vedere quasi di banale addestramento), non garantiscono la costruzioni di quei reticoli di conoscenze fortemente strutturate in grado di facilitare tanto sul piano cognitivo che motivazionale l’ammodernamento continuo dei propri repertori conoscitivi.” Conoscenze strutturate che rendono moderne le nostre conoscenze: che ridere!!!!!
Ma no, non c’è solo questo. Ecco la formazione emotiva. Questa “complessità che è al contempo fragilità” sarebbe espressa bene da Bifo. Il tema della formazione emotiva è molto dibattuto da Blandino-Granieri “Le risorse emotive nella scuola”. Ma importa poco. Bifo cita un tema fondamentale: la sovrastimolazione emotiva e il declino dell’esperienza affettiva e corporea. L’ ADD è sempre più diffuso, come una peste si propaga continuamente nelle mie classi. Ma… detto che ci troviamo sempre più di fronte all’emergere del panico, della depressione e del deficit attentivo che si fa? Socialità affettuosa e mammismo dalla cattedra? Boh. Raimo, la presa di distanza conta poco; conosco l’acutezza di altri suoi pezzi e so che può soddisfare la mia curiosità.
rispondo a tedoldi.
cercavo di separare la troppa carne messa al fuoco e forse ne ho aggiunta altra.
ma provo a spiegarmi. si fa un gran parlare di scuola e lo si fa in modi sciatti e a volte riduttivi. il papa e giacopini hanno l’onestà di dire: parlare di scuola vuol dire avere un progetto sulla società a lungo termine. merce molto rara, qui, luglio 2008 italia.
intanto però a scuola cosa accade? l’ammodernamento scolastico sembra un kit d’emergenza già scaduto. la scuola italiana è oltre che una struttura cadente, un modello obsoleto. la didattica modulare cerca di mettere una pezza e non si rende conto che le dinamiche cognitive dei ragazzi hanno altre caratteristiche.
lato opposto: jenkins, che è uno sconosciuto a qualsiasi insegnante italiano ed è un inguaribile ottimista. che sembra sempre parlare di situazioni virtuose, felici, economicamente e socialmente più fortunate, ma comunque è più realista.
bifo: un sano pessimista. e introduce un problema che lei mi dice è una piaga. quello che mi piaceva di bifo è la sua lucidità nel relazionare il problema non soltanto agli studenti, ma a trasformazioni socio-cognitive generali.
non conosco il libro di blandino-granieri, e me lo leggerò, grazie, vero.
la mia tesi è minima, è un tentativo di contestualizzare meglio, di richiarificare il tema, cercando di mostrare come la posizione di dominici o di jenkins abbraccino soluzioni parziali.
non identifico la didattica emotiva con una socialità affettuosa o con un mammismo ex-cathedra. ma provo a pensare queste due cose: la socialità scolastica è stata per anni un modello e potrebbe esserlo ancora, investendo sull’informalità della processo di conoscenza da una parte, e su un valore egualitario forte dall’altra.
soprattutto invertendo quel brutto passaggio che oggi avviene: non dalla società alla scuola, ma dalla scuola alla società.
proverò a ritornarci.