La prima è venuta così in sonno, poi l’ho sistemata da sveglio. La terza e la quinta erano fatte così. La quarta era così. Sì, era così.

di Adelelmo Ruggieri

Scala

Ormai quasi cieco la mia visione si fece crepuscolare, inevitabilmente.
Stacchi di scuro dividevano i momenti della mia vita, ma l’ascoltavo
meglio così la vita. Ero un carpentiere. Avevo costruito una scala,
e mentre la costruivo la salivo. Ora stavo in cima mezzo cieco,
ma un po’ ancora ci vedevo. Fu allora che iniziai a capire le cose
tutte quante su di uno sfondo azzurro, e l’azzurrità proteggeva
l’innocenza del bianco, elideva lo scuro e l’oscuro. La scala era fatta
per scendere fra i bagliori di tutti i balconi. Ero stato prudente a non
gettarla via da me. Mi aspettava una barca dove non stare più straniero

Azzurro

 

La scala
 

Quasi cieco la visione si fece crepuscolare
Stacchi di scuro dividevano
i momenti della vita ma l’ascoltava meglio
così la vita
 

Era stato un carpentiere
Aveva costruito una buona scala
e mentre la costruiva la saliva

 

Ora stava in cima, mezzo cieco, ma un po’
ci vedeva e non aveva gettato via la scala da sé
Ora iniziava a scenderla

 

 

Rotella
 

Ai piedi del Monte, è lì che sorge Rotella
L’attraversano un piccolo fiume e un torrente
Sta da secoli lì con il nome di ora
Tutt’intorno ci sono i calanchi
Ci sono i vulcanelli
 

A sud il Monte si spezzetta, si dirupa
Vi nascono ginestre

 

Stiamo distesi sotto una roverella
Penso ai vulcanelli di Rotella
Alle ginestre

 

 

Spartiacque
 

Sono dieci anni – anno più anno meno che conta –
che giro senza sosta in questa stanza,
che sposto il suo confine.
 

Ma quando si prova a dire di un sé non è mai lineare
lo spartiacque, con le ombre di ieri in conflitto
continuo, e accanto le cose quotidiane in secondo piano,
in terzo, in quarto. Così via. E in tutta questa apparenza
traballante i giorni a venire.

 

Sono dieci anni che cammino per questa strada impervia,
ed eccomi in un’ombra di porto a guardare i tuoi capelli,
ad ascoltare le tue parole.

 

 

Dipendenza cellulare
 

Ieri ho faticato forte a non chiamarti
Me ne stavo lì come un adolescente compulsivo
a digitare messaggi lasciati a metà
 

Tenevo in tasca il cellulare. Lo tenevo
presente a me stesso come la mano come le dita
quando da diverso tempo non stanno in azione
La chiamano “dipendenza da cellulare”

 

Poi mi sono detto, più forte che potevo
che bisogna ammettere a se stessi sempre e per intero
come stanno le cose per capirle per schiarirle
e ho guardato in quella mia tribolazione
a non chiamarti, l’ho chiamata “dipendenza cellulare”

 

Ti chiamerò per scambiare due parole semplici allora
quando i giorni a venire saranno meno incerti di ora

 

maggio giugno 2008

 

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16 Commenti

  1. Molto bello il grafismo e la poesia. Il lettore aspettava un grafismo verticale per creare la scale, invece il testo fa pensare à una vela che naviga sull’onda, con la linea del serpente azzuro. Amo l’idea del testo che si scopre nella lentezza del mare. Il lettore vede formarsi il sogno del carpentiere.

  2. quando i giorni a venire saranno meno incerti di ora
    giorni a venire saranno meno incerti di ora
    venire saranno meno incerti di ora
    meno incerti di ora
    incerti…

    bellissimo, grazie.

  3. Grazie per aver lasciato traccia del passaggio del materiale grezzo alla sua forma definitiva(?). E qual’è il monte e quale Rotella? Se non fossero i vulcanelli avrei pensato al borgo in provincia picena.

    @ veronique: pensare alla vela e all’onda, vero!

  4. è una specie di inaspettata, quasi pungente, intimità – come quando una persona di famiglia, qualcuno che hai visto in ciabatte, a inzuppare biscotti nel latte, con la maglia della salute a guardare la TV, ti dice qualcosa di semplicissimo, sì, direi normale, eppure *violento* perché è lei a dirtelo, ti dice, magari davanti a tutti, ti dice “mi sei mancato” o “ho voglia di parlare con te” e squarcia una famigliarità posata e garantita da anni di ciabatte.

    sono bellissime come mi aspettavo (e inaspettatamente fanno un po’ male, forse perché smuovono cose a lungo intorpidite)

    r

  5. e leggi cose (così) che avrei voluto scritte
    da me e solo per lei lette
    ma si sa – almeno così dicono-
    che dette così (le cose) a tutti sono

    effeffe

  6. Cose così belle si prestano ad essere svaligiate, da barbari, che barbaramente le fraintendono, le lacerano, per appropriarsene,
    in un ritorno alla propria terra:

    *

    Ero stato prudente a non
    gettarla via da me. Mi aspettava una barca dove non stare più straniero

    *

  7. ipnotizzata dall’ andare non ho visto che della prima poesia vi era riportata anche la versione terraferma.
    dopo esserci riuscita a metterci gli occhi sopra, non l’ ho amata più così come quando tentavo di leggerla muovendomi con lei.
    la leggevo come capitava correndo in coda dietro alle code.
    mi piaceva indovinarne un po’ ironicamente l’ insita avanguardia (?)
    va a sapere. belli anche per me i versi di – spartiacque -.
    magari ferma su un foglio fisso e letta ad alta voce modulandosi sotto le scavature e gobbe
    che resta l’ unico modo per – ascoltare – e – vedere – la poesia, a mio parere-
    un saluto
    paola

  8. di adelelmo ruggieri segnalo anche, per chi fosse interessato, le belle pagine introduttive di “porta marina” (PEQUOD EDIZIONI), un cui estratto può leggersi in un post recente del blog “la poesia e lo spirito”

  9. Vi ringrazio davvero molto.
    Rotella è proprio il borgo piceno, la roverella quella davanti il Santuario di Montemisio; e’ alta 23 metri, ha attualmente un po’ di problemi di salute all’apparato radicale. I vulcanelli – che non ho visto – dovrebbero stare un po’ sparsi nella zona. Di sicuro ci tornerò a cercali. Quel giorno li pensai soltanto. I calanchi di Rotella li si vede subito invece, è come formassero un ampio perimetro.
    “La scala” è proprio quella che ricorda Viola Amerelli. Amo molto il pensiero di Wittgenstein, però a un certo punto mi sono detto: si può gettarla, è vero, ma la si può anche ridiscendere. E questa scala risponde almeno in parte a Veronique. Sulla parte restante più difficile dire.
    Il libro che ricorda Luigi Socci è stato scritto a quattro mani con Massimo Gezzi, e ne sono apparsi degli stralci anche su “Nazione Indiana” un po’ di settimane fa.
    Grazie infinite a Orsola Puecher per aver pubblicato questi testi, e per l’animazione del primo.
    Un saluto caro
    Adelelmo

  10. mi fa molto piacere che una poesia delicata, discreta e esatta ( i 3 aggettivi sono più apparentati di quanto possa sembrare) come quella di adelelmo ruggieri sia passata con questi bei commneti al vaglio, e a volte alla gogna di NI, dove in genere dominano altre tonalità. mi piacciono anche i commneti, come quelli renata morresi. personalmente trovo sorprendente la versione grezza del sogno, lì le parole hanno proprio il loro peso pieno, prima di essere inevitabilmente alleggerite dai metri. e la questione che pone così delicatamenete e esattamente è proprio cruciale e urgente, quella dello “stare stranieri”.

  11. Che dire? Di fronte a una poesia che si muove creando lo spazio della sua efficacia senza sforzare terra e cielo per ottenerlo; con questo suo partire dal più minuscolo movimento per giungere al lettore in una forma di pura speculazione sulla finalità delle nostre azioni e della parola poetica; di fronte agli interrogativi che pone e alla quiete che dà, una quiete terribile ed affabile; che cosa dire? Niente. Non bisogna dire niente. Bisogna dire che non è persa la speranza in chi crea qualcosa, in chi lo crea mostrando nei fatti, con evidenza adamantina, che questo qualcosa PRIMA NON C’ERA. Ripetendo a tutti questa elementare lezione. L’esistenza può far male, ma nei versi di Adelelmo non è questo male a trionfare. E’ piuttosto un male di là da venire, presentito ma non declamato, quindi non consolatorio né avvertibile in senso pieno. Il gesto non completa, esplode. Stelvio Di Spigno.

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orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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