La città che sale

[lo so dico sempre le stesse cose, ma in certi casi è proprio vero che repetita juvant. G.B.]

di Gianni Biondillo

Poi all’improvviso Milano scomparve. Nell’immaginario collettivo nazionale continuava a vivere solo nei suoi luoghi comuni: la nebbia, le fabbriche, il panettone. Qualcuno la immaginava ancora una città rampante, da bere. Si smise di rappresentarla, nel cinema, nella fiction televisiva, divenne un buco nero della memoria. Menomale che alcuni scrittori, spesso quelli più artigianali, di “genere”, continuavano a raccontare le sue trasformazioni antropologiche, i suoi panorami mutevoli. La classe operaia che non andava in paradiso ma in pensione, la romantica ligera che diventava criminalità internazionale… era da farsi: la Milano di Scerbanenco finiva a Piazzale Loreto, da lì, ai suoi tempi, iniziava ancora, e per davvero, l’aperta campagna. In fondo Peck, all’inizio del secolo scorso, stagionava i suoi salumi nell’aria salubre della Brianza. A Precotto. Oggi invece Milano è una città rete, una città territorio, che più che portare la sua nobile tradizione edile nella territorio extraurbano ha visto tracimare dentro di sé la Brianza velenosa di battistiana memoria. Milano s’è pastrufaziata, per dirla con l’ingegnere, che oggi non saprebbe più riconoscerlo il territorio. E forse anche la sua borghesia.
Quanto è in fondo provinciale questo cercare il placet della firma prestigiosa, dell’archistar, per giustificare le peggio speculazioni edilizie del ventre cittadino? Da lì, a cascata, tutta la nuova proliferazione di gru che ha ridisegnato il cielo di Milano -che è bello quando è bello- più che governata da professionisti che amano e conoscono a menadito il territorio, così come si faceva quando era bello progettare a Milano, è dato in affido ad estranei, che intasano la città di volumi pensati per la stazione di Tokio, poi bocciati e riciclati qui, manco fossimo una città del terzo mondo a cui rifilare gli scarti di produzione. Io poi, lo dico di continuo, il trittico di CityLife lo paragono ai tri ciucc di via Lazzaro Papi. Due amici che reggono il terzo, che vomita.
Chi ha gestito Milano negli ultimi vent’anni lo ha fatto col cipiglio dell’amministratore di condominio, non del politico lungimirante. Abbiamo stracciato il Piano Regolatore e fattone coriandoli per il carnevale ambrosiano. Perché pianificare? A che serve? Perché questi lacci e lacciuoli? A Milano il mercato ha vinto, “la città che sale”, per dirla con Boccioni, è simbolo dell’interesse privato, non di quello pubblico, e la tradizione del socialismo storico, del welfare, è ridotta a reazione involontaria: le biblioteche rionali frequentate quotidianamente dal popolo minuto, le nostre scuole sempre più povere e che non ostante tutto ancora funzionano, le casa-vacanze a Pietra Ligure per i nostri bambini, intossicati da un’aria urbana che toglie loro il respiro e il colore delle gote.
Io che di figlie ne ho due e per scelta di vita neppure ho la patente – ché in un paese civile bisognerebbe tutti muoversi con i mezzi pubblici – condivido col mio sindaco la scelta dell’ecopass. Ma, signora mia, un po’ più di coraggio: a che serve tassare solo quel francobollo di territorio? Oppure davvero crede che Milano sia tutta lì? Forse è vero che a pensar male non si sbaglia mai, e io sospetto che a molti milanesi che contano l’idea che la nostra sia una metropoli enorme che travalica gli stretti confini comunali e si estende ben oltre la provincia, ingloba la demenziale nascente provincia di Monza e si arrampica su su fino alle pendici delle prealpi, che bussa alle porte di Bergamo, che ha propaggini fin oltre il confine ticinese, questa città di sei, sette milioni di abitanti, che in confronto fa apparire Roma una simpatica successione di borghi ameni, che ha una densità di abitanti per chilometro quadrato paragonabile solo a quella di Napoli, questa area metropolitana che c’è, che vive, che pulsa, che opera, che produce, che soffre, questa città, insomma, pare che i suddetti milanesi non la vogliano proprio vedere. Un buco nero nell’immaginario non solo nazionale ma soprattutto politico amministrativo. Qui si fa la guerra dei campanili fra Corsico e Cesano Boscone; Novate e Bollate si guardano sdegnosi; Milano e Sesto progettano indifferenti fra loro identici musei fotocopia, “più belli e più grandi che pria”. L’unica cosa che li mette d’accordo sono gli zingari. Quelli non li vuole nessuno. Aspetto con ansia il progetto di un nuovo inceneritore, sospetto atterrito che a suo tempo ne faremo buon uso.
Ma ora abbiamo l’Expo, signora mia. Ebbene: ora che è davvero nostro, posso confessare, quasi sottovoce, quanta paura ho avuto di vedercelo sfilare da sotto il naso da Smirne, che aveva un progetto urbanistico molto più intrigante del nostro? (a proposito: sarà che il rendering è assai fumoso e inconsistente, ma qualcuno l’ha capito il “nostro” progetto? Com’è che di giorno in giorno continua a mutare nelle descrizioni del sindaco?) Non sarò comunque di certo io a fare le barricate “antiExpo”. Oltre al mare di turisti, la manifestazione porterà a Milano, soprattutto, decine di migliaia di scienziati, economisti, intellettuali. La mia natura positiva, i miei studi accademici, mi fanno illudere che questa possa davvero essere l’ultima occasione affinché Milano si riconosca finalmente metropoli internazionale. Anche perché, nei fatti, l’Expo lo si fa a Rho. Quindi o tassonomici lo ridenominiamo “l’Expo di Rho” (ma pare davvero poco chic), oppure decidiamo una volte per tutte che Rho, Busto, Settimo Milanese, e via via, Paderno, Cusano, Cologno, e tutta la cinta calcificata attorno alla città, è, di diritto, Milano a tutti gli effetti e si merita perciò pari dignità.
Un po’ di coraggio, milanesi, ancora un ultimo sforzo! Questa città per troppo tempo è stata ossessivamente centripeta, sempre con lo sguardo rivolto alla Madonnina. Certo le vogliamo tutti bene, ma diamole ogni tanto le spalle, cerchiamo d’essere centrifughi, decidiamo di stimolare gli altri nodi della città-rete, con simboli e funzioni forti, diamo valore e decoro a chi non vive dentro la cerchia dei Navigli. Questa è la vera grande occasione che l’Expo può regalarci: fare marketing urbano, programmare una rete ciclabile degna di una città piatta come l’olio, moltiplicare la mobilità pubblica, recuperare le periferie storiche, creare nuove centralità urbane, riprendere a costruire edilizia sociale (ché non si fa da un quarto di secolo), stimolare le università, l’associazionismo culturale, la società civile. Fare quello che Milano sa fare, come fece quando cinquant’anni fa si rigirò come un guanto per accogliere quattrocentomila persone nel volgere neppure di quattro anni. Duecentottanta persone, ogni sacrosanto giorno, vedevano per la prima volta Milano, portandosi dietro sogni e speranze. Quel popolo costruì il futuro della città, e la città gli diede cittadinanza e un tetto. Questo sa fare Milano, ve lo dice il figlio di due immigrati meridionali che si sente milanese fino al midollo. Ma l’Expo, non dimentichiamolo, lo costruiranno i nuovi immigrati. Sarà edificato da muratori rumeni, elettricisti magrebini, cottimisti albanesi, manovali senegalesi. Il nostro futuro passerà dalle loro mani. Dare loro dignità e un tetto mi pare davvero il minimo.

[pubblicato su Il Sole 24ore del 15 giugno 2008]

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18 Commenti

  1. E’ un’impresa non priva di eroismo cercare di coniugare l’umanistica – la letteratura – con l’urbanistica ultraconcertata del nostro tempo. Ti fa onore non rinunciare all’ideale.

    Ma: “Menomale che alcuni scrittori, spesso quelli più artigianali, di “genere”, continuava a raccontare le sue trasformazioni antropologiche”: manca un “no” (continuavano)?

  2. Articolo doveroso, non solo per chi non è milanese. Sono decenni che si parla di “Grande Milano”, intendendo proprio una Milano che si è stesa sul territorio esplodendo in tutte le direzioni come una specie di Los Angeles. Milano prosegue fuori, come dice Biondillo, è molto più grande e complessa e varia di quanto si ripete forti di un luogo comune e banale. Una città azzoppata da Tangentopoli che stenta a risalire la china.

    Bravo Gianni.

  3. Dopo aver letto il tuo articolo ho trovato sul Sole 24Ore di oggi un altro articolo su Milano, in cui si prospetta una “Milano del futuro come antitesi di Dubai”. Mi è sembrato uno slancio ingenuo e mi sono chiesto se non fossi io a essere troppo pessimista o disfattista.
    Pensando al “progetto” Citylife, degno successore del “progetto” Bicocca, ho realizzato che, no, non ero pessimista, Citylife è la prova esatta di come viene pensata la città dal mercato e dall’amministrazione.

    Mi viene in mente l’espressione “the city where nobody cares”, la città dove a nessuno importa (di nessuno, di niente) per riferirsi a New York. Sembra che Milano sia stata trasformata nella città a cui non importa di se stessa, e che molti milanesi si siano abituati a quest’idea. Invece è una buona speranza sapere che a qualcuno ancora importa di Milano.
    Grazie per il tuo articolo.

  4. Quando si parla di Milano, chissà perché, si esagera sempre. Nel bene o nel male.

    Mi fanno ridere di pancia quelli, e sono molti, che descrivono Milano come una specie di avamposto dell’Inferno sulla Terra, una città distopica e invivibile. Ma mi fanno ridere ancora più forte quelli che parlano di Milano come se fosse davvero una metropoli di levatura internazionale, una specie di New York europea.

    La verità è che Milano è una cittadina di medie dimensioni, moderatamente cosmopolita, relativamente tranquilla. Semplicemente, una città normale.

    Lo scrivo da milanese, e felice di essere tale.

  5. Jiwaki,
    proprio ieri Mario Botta mi diceva che quello che non sopporta di CityLife è sembrare un pezzo di Dubai trapiantato a Milano! ;-)

  6. Grande articolo, sottoscrivo in pieno. L’Ecopass è l’estremo tentativo dei ricconi di barricarsi in casa… mentre i barbari d’ogni dove premono sulle frontiere. Girare il punto di vista è l’unica possibilità per rendere grande Milano.

  7. milano orami é solo aria calda dai motori dei condizionatori buttata in faccia,
    fotomodelline con book sottobraccio,
    aperitivi scadenti,
    multe sul parabrezza,
    magrebini che fuggono dalla 90 in vista dei controllori…
    oggi piú che mai capitale immorale di un italia in decaduta.
    eppure la amo per quello cheé stata e che neanche ho visto data la giovane etá,
    per gente come l’Ingegnere, che ne raccontava le fiere e i macelli…
    non é il mercato a dettare lo sfacelo tra l’altro dell’ architettura,
    nn so neanche come si chiami, sono quei cinque minuti di ingrifamento
    per cui si é disposti a buttare via lavoro di anni…

    quando una cittá smetta di offrire la “possibilitá” non puó piú chiamarsi tale..

    e quando moriranno i mobilieri di Cantú, che fare, mio cuore rubato?

    grazie Gianni

  8. Per quanto può contare, ancora una volta mi trovo a leggere un gran bel pezzo di Biondillo, che secondo me è uno bravo davvero.
    E dopo aver scoperto che “per scelta di vita neppure ho la patente – ché in un paese civile bisognerebbe tutti muoversi con i mezzi pubblici”, lo ammiro ancora di più.

  9. […] ma certo, mi sono persa tanto, non posso pretendere di sapere come la città sia cambiata negli anni, e per questo mi affido ancora a uno scrittore, Gianni Biondillo, di cui su Nazione Indiana ho trovato questo. […]

  10. “Milano secondo me non è una città qualsiasi.
    Tantomeno è una “cittadina di medie dimensioni”.
    Allora Firenze cos’è, un paesello?”

    Dipende: stiamo ragionando in termini globali o nazionali?

    Nel primo caso, Milano è una città di dimensioni medio – piccole.

    Nel secondo caso è effettivamente una metropoli. Come estensione, popolazione, mentalità e atmosfera.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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