Jazz e xenoglossia
Jazz is not dead, it just smells funny.
(Frank Zappa)
Strano come a volte le cose si catalizzino tutte d’un colpo.
Erano mesi che avevo in mente di scrivere qualcosa sul jazz. Le idee, tante, mi giravano in testa senza trovare un punto di sedimentazione.
Poi, qualche giorno fa, in un programma di file-sharing ho visto un messaggio che diceva “Esbjörn Svensson RIP”. Così ho scoperto che Esbjörn Svensson era morto il giorno prima, il 14 giugno, durante un’immersione subacquea. Svensson, per chi non lo conosce, era il leader dell’Esbjörn Svensson Trio, noto anche come E.S.T. Tra fine anni ’90 e i primi anni del nuovo decennio avevano avuto un notevole successo in tutta Europa e persino in America con una musica che fondeva la raffinatezza armonica e lo strumentario acustico del jazz con ritmiche rockeggianti e melodie di cantabilità quasi pop. Hanno avuto un’influenza decisiva sul jazz europeo, e oggi molti nuovi gruppi (ad esempio gli [em] di Michael Wollny in Germania o il trio di Neal Cowley in Inghilterra) si ispirano a loro.
Secondo me gli E.S.T. sono stati originali per due o tre dischi, poi si sono avvitati in una formuletta senza più uscirne. Ma comunque ci sono rimasto male. Svensson aveva appena quarantaquattro anni e al di là delle mie opinioni sulla sua musica era una persona onesta, ironica, una persona perbene.
Poi sono venuto qui su Nazione Indiana, ho visto il pezzo di Gianni Biondillo sui Radiohead e sul rock contemporaneo, ho letto i nomi di Coltrane, di John Zorn, dei Weather Report.
E allora qualcosa ha ingranato, e ho pensato di buttare giù qualcuna delle idee che da un po’ mi attraversavano la mente.
Tempo fa, sempre su Nazione Indiana, avevo provato a riflettere su un’idea ricorrente, quando si parla di jazz: cioè che il jazz sia una musica intrinsecamente non-popolare, un prodotto d’élite. Durante la discussione, era venuta fuori un’altra idea altrettanto diffusa: che il jazz sia morto. O, se non morto, perlomeno mummificato, incapace di innovarsi, insomma bloccato nella sua evoluzione. Bloccato dove (e quando), è un argomento piuttosto dibattuto: a Coltrane? al free? alla fusion? Si parla comunque di almeno trent’anni fa. Poi, il silenzio, o una ripetizione più o meno pedissequa del passato.
Queste idee a me hanno sempre fatto una certa impressione: perché invece, se c’è una caratteristica che il jazz ha sempre incarnato, è stato proprio il cambiamento. Nel suo secolo o poco più di storia, il jazz ha attraversato periodicamente, grossomodo ogni dieci-quindici anni, una serie di mutazioni stilistiche che ne hanno stravolto la fisionomia: Armstrong con gli Hot Five e gli Hot Seven, lo swing, il bebop, il cool, l’hardbop, poi quella galassia di esperienze riunite sotto l’etichetta di “modalità”, poi Coltrane. E poi il free e la fusion, nelle loro numerose ramificazioni. E siamo più o meno agli anni ’70.
E poi? Quando si pensa agli ultimi 20 o 25 anni, in genere si nominano i “giovani leoni” di fine anni ’80, si accenna all’effimero acid jazz dei primi anni ‘90: poco altro. Casomai, si mette in evidenza lo sviluppo del jazz europeo, si nomina magari l’ECM. C’è chi pensa che gli unici sviluppi veramente originali, negli ultimi decenni, siano arrivati proprio dall’Europa. Un critico inglese, Stuart Nicholson, qualche anno fa ci ha scritto sopra un libro, Is Jazz Dead? (Or Has It Moved to a New Address), Routledge 2005: libro a mio parere discutibile e male argomentato, ma comunque emblematico.
Il punto è che, nell’opinione comune, il jazz pare aver perso quella capacità di assorbire i linguaggi contemporanei, digerirli, assimilarli a sé e infine reinventarli senza quasi darlo a vedere. Insomma, quella xenoglossia che era sempre stata la sua vera forza.
Però io bazzico il jazz in maniera professionale, e mi capita spesso di captare segnali contraddittori.
Ad esempio mi è capitata in mano un’intervista rilasciata dal batterista Mel Lewis a Downbeat, la maggiore rivista americana di jazz, nel 1962: Lewis affermava, testualmente, che “non si sente più nessuno che abbia un suo stile personale” (“you hardly hear anybody with a style of his own anymore”). Voglio dire, si parla dei primi anni ’60: cioè di anni in cui Coltrane aveva appena inciso “My Favorite Things” ed era appena uscito “Free Jazz” di Ornette Coleman, anni in cui circolava gente come Herbie Hancock, Freddie Hubbard, Wayne Shorter, Andrew Hill, Joe Henderson, per non parlare di Sam Rivers o di Cecil Taylor. E già si diceva che “nessuno ha più uno stile personale”.
Ne parlai qualche anno fa con Gary Burton, e la sua risposta fu che “da quando ho cominciato a suonare io, negli anni ’70, questa storia della morte del jazz torna un paio di volte a decennio. Lo sentivo dire negli anni ’70, e poi negli anni ’80, e poi negli anni ’90: però siamo ancora qui, e ogni volta arriva qualcuno a smentire tutte le previsioni”.
D’altronde, le prefiche sono in agguato da sempre. Ogni mutamento radicale nel jazz veniva salutato come l’annuncio della sua morte: la fusion (primi anni ’70), il free jazz (primi anni ’60), il bebop (metà anni ’40), persino lo swing (metà anni ’30).
E allora mi sono chiesto: non è che il jazz sta ancora mutando pelle, ma magari siamo noi che abbiamo la vista corta? Ammesso che oggi il jazz possieda ancora quella xenoglossia, dove la si deve cercare? Quali sono – se ci sono – i segnali di vita, i battiti cardiaci, le vibrazioni sul sismografo?
Primo aspetto da prendere in considerazione: i jazzisti, checché se ne voglia pensare, non vivono in un microcosmo ermetico dove si nutrono solo di rhythm changes e di assolo di Charlie Parker. Anche i jazzisti vivono fra noi, guardano MTV, vanno a fare la spesa e sentono la musica diffusa nei supermarket.
Esperanza Spaulding, enfant prodige (ha ventiquattro anni) del contrabbasso, qualche tempo fa me lo raccontava in un’intervista: “L’altro giorno io e il mio batterista stavamo ascoltando una raccolta di pop anni ’90 e ci siamo quasi spaventati, perché ci siamo resi conto che conoscevamo, una per una, tutte le canzoni di quella stupida compilation. Ma non possiamo farci niente: sono cose che fanno parte di noi, erano ogni giorno alla radio mentre crescevamo”.
E allora forse non è un caso se su un disco di Yaron Herman, pianista di origine israeliana residente in Francia, stella nascente del jazz d’oltralpe, si trova una versione di Toxic. Sì, la canzonetta pop di Britney Spears. (E a proposito di Israele, da lì negli ultimi anni stanno arrivando un sacco di musicisti interessantissimi: i fratelli Cohen – Avishai, Yuval e Anat –, un altro Avishai Cohen che suona il contrabbasso e non è parente del primo, i sassofonisti Eli Degibri e Ohad Talmor, il contrabbassista Omer Avital, il sassofonista Gilad Atzmon che vive e lavora in Inghilterra, anche perché in Israele gli sparerebbero addosso).
Ma si diceva di Britney Spears. Del resto non è mica una novità: Miles Davis ammirava Sly Stone e aveva in progetto di incidere con Jimi Hendrix, per non parlare di quando suonò Time After Time di Cindy Lauper. In tanti dissero che si era rincoglionito, o peggio ancora che ormai gli interessavano solo i soldi, ma in realtà non stava facendo niente di diverso da quello che avevano sempre fatto i jazzisti degli anni ’30, ’40 e ’50, quando suonavano brani tratti dai musical di Broadway. Musica leggera, popular music anche quella. E lo stesso aveva fatto Coltrane quando aveva preso un valzerino intitolato My Favorite Things (l’originale era nel musical “The sound of music”, quello che in Italia conosciamo come “Tutti insieme appassionatamente”) e lo aveva trasformato in una delle granate più dirompenti mai scagliate nel bel mezzo del jazz.
Oggi, i Bad Plus suonano I Will Survive e Smells Like Teen Spirit. Brad Mehldau, lo scontroso intellettualoide Mehldau, ha in repertorio brani dei Radiohead, di Nick Drake e degli Oasis. I Doctor 3 (Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra) hanno reinterpretato i Red Hot Chili Peppers e De Andrè. Il duo Petra Magoni-Ferruccio Spinetti, in “Musica Nuda”, ha rifatto di tutto, da Gigliola Cinquetti a Roxanne. Tiziana Ghiglioni già quindici anni fa cantava le canzoni di Tenco.
Il principio è sempre quello: puoi suonare Donna Lee o Sapore di sale, l’importante è che cosa riesci a farne. Fare “jazz” significa ingoiare un brano, rimasticarlo e sputare fuori qualcosa di completamente diverso, qualcosa di tuo. Se ci riesci, fai jazz, sennò no.
In America ci sono giovani jazzisti, come Lafayette Gilchrist o Robert Glasper, che vengono dall’hip-hop. E si sente, perché il loro jazz è diverso da quello che potevano fare i loro padri e i loro nonni.
Ecco, la scena americana. Negli anni ’80-’90, si diceva, c’erano i “giovani leoni” del neo-hardbop. Gente bravissima, come Roy Hargrove, Benny Green, Joshua Redman, Cyrus Chestnut, Christian McBride, Terence Blanchard, però rifacevano pari pari il jazz di trent’anni prima. Oggi si parla quasi soltanto di Wynton Marsalis. Se ne parla, vorrei aggiungere, spesso senza nemmeno conoscerlo bene, ma comunque pare che in America ci sia solo lui.
E invece in America c’è anche Don Byron, che ha scorrazzato un po’ ovunque, dal klezmer al rap, c’è una personalità obliqua e imprevedibile come Greg Osby, c’è Dave Douglas che ha fatto una quantità di dischi fra cui sarebbe difficile trovarne due uguali, c’è Jim Black che è una forza della natura, c’è quel genio folle e rigorosissimo di Uri Caine, c’è Ellery Eskelin che conosco poco e che dovrei approfondire. Tutti musicisti capaci di scompigliare le carte, di passare con noncuranza dal jazz alla musica contemporanea, dai deejay al free.
E anche guardando più indietro, negli anni ’80 erano già in azione John Zorn e il giro della Knitting Factory; Tim Berne, artista fulminante, di una profondità vertiginosa; Steve Coleman, personalità quasi oracolare, vera antenna catalizzatrice di tutto ciò che c’è di nuovo, e intorno a lui il gruppo noto come M-Base; Bill Frisell, che inaugurava le sue prime capriole tra punti antipodici dell’universo musicale; Butch Morris con le sue rivoluzionarie “conductions”, durante le quali faceva improvvisare orchestre intere; un maestro ingiustamente dimenticato come John Carter (si ascolti il capolavoro “Castles of Ghana”, del 1991, per avere un’idea); o quel vero e proprio guru di Henry Threadgill.
E poi c’è Jason Moran.
Ecco, se dovessi indicare uno con una sua voce, una voce che parla dell’oggi e dall’oggi, indicherei lui. Perché conosce a fondo la tradizione, ma non ha paura di essere ferocemente contemporaneo.
Prendiamo ad esempio “Artist in Residence” (Blue Note 2006), che sto ascoltando proprio in questi giorni. Il brano d’apertura, Break Down, riprende un vecchio cavallo di battaglia di Moran: un sample vocale scomposto e mandato in loop, che diventa la base ritmica per l’improvvisazione. Milestone, la seconda traccia, è un lied con tutti i crismi (alla voce c’è la moglie di Moran, un soprano classico). Refraction si lancia in sperimentazioni elettroniche. Cradle Song è una delicata berceuse sporcata da graffi, strisciature, fruscii. Arizona Landscape, un pezzo quieto e contemplativo in cui si fondono Debussy e l’honky-tonk, ammesso che riusciate a figurarvi una roba del genere. Rain comincia con una serie di piani sonori indipendenti e leggermente sfasati, quasi alla Charles Ives (un ostinato della tromba, un puntillio della kora, la batteria che mima la pioggia, il pianoforte che improvvisa atonalmente), per poi evolvere in una serie di metamorfosi: prima una sorta di ring shout, poi un fragoroso collettivo, poi dio sa cos’altro. Lift Every Voice and Sing è un vecchio spiritual attraversato da una chitarra con wah-wah, che a me suona come un divertito omaggio ellingtoniano.
A questo punto non mi pongo nemmeno più il problema se sto ascoltando jazz o no. Questa musica mi emoziona, mi sorprende, mi provoca. Che cos’altro chiedere?
Poi c’è un altro fatto: il jazz migliore bisogna andarselo a cercare, perché non è necessariamente quello che si trova sugli scaffali dei negozi o si ascolta al Blue Note e alla Casa del Jazz.
In Italia, per esempio, i soliti noti girano un po’ tutti i festival (e, sia chiaro, comunque si sta parlando di musicisti come Bollani, Petrella, Gatto, Rea, Fresu, Di Battista e via dicendo, davanti ai quali faccio tanto di cappello).
Però Francesco Bearzatti, Giovanni Falzone, Mauro Negri, Daniele D’Agaro, forse meno noti, sono altrettanto interessanti. Fra i giovani, Giovanni Guidi a ventitré anni ha già inciso due bei dischi per la Cam. Andrea Rossi Andrea, che è anche un artista visivo, fa dischi pazzeschi, incredibili, visionari. C’è tutto un fiorire di collettivi che agiscono fuori dai grandi percorsi festivalieri e dalle grandi distribuzioni discografiche, spesso a livello locale, ad esempio Bassesfere a Bologna o El Gallo Rojo tra Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia.
Lo stesso fa in Inghilterra il collettivo F-IRE, nato da un’idea del sassofonista Barak Schmool, un ex-collaboratore di Django Bates (a proposito, ecco un’altra personalità completamente fuori dagli schemi). In Francia lavora Claude Barthelemy, chitarrista, suonatore di oud e due volte direttore dell’Orchestre National de France. In America operano gruppi impossibili da incasellare come i Groundtruther di Charlie Hunter e Bobby Previte, i Kneebody, o i Fellowship del batterista Brian Blade (il loro ultimo disco, “Season of Changes”, è una delle cose più emozionanti sentite quest’anno).
Mi fermo perché questo articolo sta finendo per somigliare a quello che la mia maestra delle elementari chiamava “l’elenco della lavandaia” (e, nonostante ciò, sono sicuro di star dimenticando decine di nomi). Però in fondo non mi dispiace: la mia intenzione non era di scrivere un saggio analitico, ma piuttosto di puntare qualche spillo sulla mappa, di segnalare le zone calde.
Un’ultima notazione.
Si dice sempre che il nostro è un mondo globalizzato, no?, il mondo in cui l’ovunque è diventato la vera patria, giusto?
E allora c’è da meravigliarsi se in Gran Bretagna due sassofonisti di diverse generazioni come Courtney Pine (che va per i quarantacinque) e Soweto Kinch (che ne ha trenta) danno entrambi voce alle comunità caraibiche emigrate nel Regno Unito?
Se lo stesso fa Jacques Schwarz-Bart – figlio di un ebreo francese emigrato nelle Antille e di una creola (entrambi scrittori, per inciso) – mescolando il jazz con il gwoka della Guadalupa?
Se dal Vietnam arrivano Nguyên Lê, attivo in Francia, e Cuong Vu, che negli Stati Uniti è una delle voci più sorprendenti emerse negli ultimi anni e che spazia dal Pat Metheny Group a progetti di avanguardia dura e pura?
Se si sente splendido jazz fatto da due musicisti statunitensi di origini indiane di nome Vijay Iyer e Rudresh Mahanthappa?
Se quel vecchio marpione di Herbie Hancock ha preso nel suo gruppo Lionel Loueke, uno straordinario chitarrista originario del Benin?
Del resto, anche da noi Gianluigi Trovesi lavora da anni sull’esplorazione della tradizione musicale italiana, dalla mazurca al madrigale, e tanti dopo di lui hanno seguito la stessa strada.
Qualche anno fa intervistavo Gabriele Mirabassi, un altro che ha fatto dello scavalcare gli steccati una questione di principio nel suo agire di musicista. “Il jazzista”, mi diceva Mirabassi, “è un ladro. Deve prendere quello che sente intorno a sé e farlo suo. Io sono nato in Umbria nel 1967, non a New York negli anni ’40, quindi faccio la mia musica rubando quello che ho intorno, qui e adesso. Solo così posso essere autentico, come jazzista”.
Se il jazz ha ancora un potenziale generativo, secondo me è in musicisti del genere che bisogna cercarlo. Certo, è jazz che “ha un odore curioso”, per dirla con Zappa. Ma, del resto, dalla purezza non è mai venuto niente di buono.
Bell’articolo. Complimenti.
Tuttavia penso che il jazz stia vivendo nel nostro tempo una grossa crisi d’identità. Se è vero infatti che i musicisti jazz degli anni ’30 e ’40 spesso improvvisavano su riminiscenze e citazioni tratte dalla musica “popolare” di allora (il musical di Broadway), è anche vero che nella nostra epoca tali influenze si sono moltiplicate a dismisura, per quella sorta di “globalizzazione” musicale di cui parli nell’articolo. E quindi non si sa più cosa è jazz e cosa non lo è. Nemmeno considerazioni teoriche sul carattere “audiotattile”, sul carattere improvvisativo, di questa musica sono più sufficienti a salvarne la definizione di genere. Leggo nella breve autobiografia che ha scritto Giovanni Allevi recentemente (Rizzoli, 2008) che quando fece il suo primo concerto a Napoli diversi anni fa, lui si era preparato un programma dove c’era parecchia musica classica e qualcosa di suo, eppure quando era arrivato a teatro aveva visto sulla locandina scritto “stasera concerto jazz” o qualcosa di simile. E Allevi, a mio avviso forzatamente, viene spesso ascritto, con Ludovico Einaudi, al genere jazz. Questo la dice lunga sulla percezione che ha la gente del jazz. Tutto ciò che non è classica, o contemporanea, e non è né pop né rock, diventa per semplicità una delle innumerevoli varianti del jazz. Ciò può essere considerato un elemento caratterizzante e vitalistico, ma può essere interpretato come un segnale di crisi. Insomma, parafrasando Mario Bortolotto, se la la “neue musik” del secolo scorso era la distruzione del “beat”, sembra che il jazz contemporaneo sia la decostruzione di tutta la musica che lo circonda. Una sorta di termovalorizzatore della musica.
Anche per il jazz, valgono le considerazioni che ho lasciato a commento del piccolo saggio sui Radiohead. Viviamo tempi confusi di grande crisi della creatività. E non solo in campo artistico. Uno stanco ripetersi, ciclico, nell’epoca, falsa, dell’eterno presente.
No comment sulla pesantissima censura subita nel thread “Gomorra, o Dell’agenda dei delitti e delle pene”. Complimenti a nazioneindiana per lo spirito di apertura. Però, lungi da me aprire flame o fare altro.
Non me l’aspettavo da nazioneindiana. Adieu.
Da sempre non solo il jazz ma la musica tout court è interscambio, apertura, contaminazione. In ambito strettamente jazzistico già l’Ellington della Jungle Orchestra praticava, con lineare coerenza, il recupero di una tradizione/alterità che operava come ritorno alle origine africane. L’estensione degli stilemi ritmici alle derivazioni caraibiche o centroamericane è diffusa sin dalle origini. Il free anni ’60, poi, ha allargato a dismisura questa prospettiva attraverso una sorta di internazionalismo musicale che non solo all’Africa si rifaceva (si pensi a Sun Ra, Pharoa Sanders, Alice Coltrane, etc.). Mai, può dirsi, il jazz è stato jazz e basta, né mai ha soggiaciuto a canoni stretti di riconoscibilità/etichettabilità. L’apertura al pop e alla dance music formalmente è attribuibile al Miles Davis elettrico, che nella sua genialità ne ha forgiato assai più che una sintesi. Oggi l’ambito geografico del jazz è molto più delocalizzato che in passato, sicché, se nere ne restano indiscutibilmente le matrici, componenti etnico-culturali diversificate sono entrate a farne parte a pieno titolo. John Zorn e la New Jungle Orchestra di Pierre Dorge sono forse gli esempi più validi di questa tendenza multiculturale. In un contesto siffatto, il jazz durerà quanto la storia dell’uomo e della musica, non un istante di meno.
E’ morto Esbjörn Svensson!!??
Un nuovo nome molto interessante del jazz americano è José James, il suo primo disco, The dreamer, manifesta maturità e freschezza, un’assimilazione autentica e naturale di stimoli esterni quali funk, rap, soul. MI piacerebbe sentire cosa ne pensa Sergio Pasquandrea, autore del bell’articolo di sopra.
___
*Originario di Minneapolis ma trapiantato nella pulsante New York, James mette a frutto la sua formazione jazzistica sposandola con suggestioni soul e blues (Spirits Up Above su tutte), se le canta e se le suona (letteralmente) e si mantiene su livelli compositivi e interpretativi sorprendenti.
Da evitare le facili categorizzazioni: perchè questo The Dreamer si tiene ben lontano dal jazzino epidermico e riciclato del cosidetto nu jazz, e se si eccettua qualche capriccio ritmico passeggero non adotta i pattern cari all’“electronica”. E l’impronta jazz è allo stesso tempo troppo accentuata, la sua consistenza troppo analogica, organica, per poterlo raffrontare alle produzioni, spesso piuttosto liofilizzate, del nu soul.
Ci passerete, insomma, l’utilizzo del’abusato termine “senza tempo”, per descrivere questa brillante uscita che solo una produzione leggermente “laccata” (più che leccata) può spingere ad associare superficialmente alle derive da aperitivo cui questo genere di produzioni ci hanno abituato.
C’è qui un utilizzo meno epidermico e più profondo degli stilemi del jazz vocale e del jazz soul, in grado di richiamare alla mente i grande maestri: da Terry Callier a Billie Holiday, passando per Sua Maestà John Coltrane, attraverso una galassia sonora distante anni luce dai vari Peven Everett e Musiq.
E se sarebbe francamente iperbolico (e forse un po’ blasfemo) azzardare fino in fondo l’accostamento con tali nomi sacri, sarebbe allo stesso tempo riduttivo parlare di jazzino.
Perchè, volenti o nolenti, ascolto dopo ascolto, ci si rassegna al fatto che questo sognatore è una delle prime, vere sorprese del 2008.* [Silvio Savino, da http://www.storiadellamusica.it]
Credp che jazz sia una musica contestualizzata storicamente, antropologicamente e geograficamente. Come tutti i linguaggi, dotato di grammatica e sintassi specifiche.
Per dirla in breve, una musica afroamericana del ‘900. Anche io ricordo un’intervista, tempo fa, in cui Roach diceva che nessun bianco può suonare jazz e a Marco Bertoli che rispetto a questa affermazione di Roach era perplesso, ho dovuto mandargli testo e fonte via e mail.
D’altra parte, lo dice anche Mirabassi nell’intervista che dici, che per lui jazz è una sintassi e una grammatica ma il romanzo che scrive racconta storie italiane e brasiliane. Ed è proprio qui il problema: continuare a etichettare come jazz una musica che del jazz utilizza tecniche ma che jazz non è. Il jazz forse non è morto, ma non bisogna cercarlo dove non ha senso che ci sia. Liberarsi delle etichette fuorvianti è ormai doveroso. I musicisti sono spesso più avanti dei critici. Questi ultimi hanno qualche problema di reattività ma questo è normale, in fondo.
Il fatto che io improvvisi, adotti una certa complessità ritmica, esalti una certa timbrica personale o sposti l’accento sui tempi pari non vuol dire che stia suonando jazz, of course, anche se del jazz uso alcuni parametri.
Non so se sono stato chiaro, In caso contrario me ne scuso.
PS
Quando suonava Time after time, Miles Davis, a modesto parere del sottoscritto, era rincolionito;-)
http://it.youtube.com/watch?v=AQiSxEderWg&feature=related
Ottimo compendio. Penso che ci sia anche un problema di evoluzione della metrica/forma al di là delle etichette, meglio un sano blues urbano datato 1930 che quegli organici di musica creativa improvvisata che sentivo negli anni 70, stile OMCI, un autentico aborto. Per ora continuo ad ascoltare SUN RA, un’ottima sintesi.
Marco
Ancora morti sul lavoro
Martedì 24 giugno 2008, trova la morte Ivan Ciffari, giovane operaio, il secondo, nel cantiere della riconversione a carbone della centrale Torrevaldaliga Nord – enel. Un’altra vittima delle speculazioni irrispettose delle persone, delle comunità. Per i signori del profitto si tratta senz’altro di morti accettabili, quantitativamente preventivate, sin dall’inizio. Ma per noi non è lo stesso, questo è stato sempre chiaro. Verrà il momento delle valutazioni e delle riflessioni che questo gravissimo avvenimento ci costringe a fare.
“La tragica morte di Ivan.” Eventi di questo tipo impongono che si ascolti in silenzio quello che la vita ha da insegnarci. Se parole devono essere spese, debbono dimostrare di essere utili per migliorare la nostra condizione.
In primo luogo, e sopra ogni altra cosa, esprimiamo tutto il nostro grande, profondo cordoglio, viva partecipazione al dolore della famiglia e dei cari di Ivan, uno di noi. 24 anni di vita, di mestiere operaio, uomo come noi, la vita stroncata come sappiamo.
In questo momento di raccoglimento, e rabbia, dobbiamo fare i conti con i pericoli che su tutti noi incombono. Decenni di vuote chiacchiere in favore della sicurezza sul lavoro, mentre nei cantieri l’unico valore è: il profitto dei padroni. Da questo assunto loro non retrocedono, salvo riempirsi la bocca di falsità in occasione di simili eventi luttuosi. Ma alla prova dei fatti, sembra che non faccia poi tanto scandalo la morte in cantiere, per i signori della speculazione: l’uomo, vivo o morto, è solo ridotto a un numero. Un valore meramente quantitativo che entra in un bilancio, previsto sin dall’inizio.
Per noi questi numeri restano cifre di un pensiero inaccettabile, disumano e disumanizzante. Da combattere. Intanto, in noi, si fa strada una consapevolezza tanto amara da non poter essere digerita: daremmo qualsiasi cosa per poter sperare che altre morti legate a TVN siano evitabili. Ma è una sperenza vana. Sulla nostra testa pende un destino ineluttabile, che non è quello della morte naturale. E’ quello della morte, della sofferenza per le patologie legate all’inquinamento, riguardo al quale il nostro territorio non teme confronti. Altre morti verranno entro pochi anni, grazie al carbone di TVN.
E’ scienza, è statistica, di nuovo: numeri per descrivere le patologie e le morti che l’inquinamento da carbone ci regalerà. Tanto è vero che sulle carte sono già quantificate anche in termini di risarcimenti economici.
Tanto per rinfrescare la memoria a tutti, le stime di externe.info (EU) parlano di centinaia di milioni di euro per le spese mediche nei 25 anni di esercizio della centrale a carbone. Del resto, come si motivano i milioni che enel scucirà all’amministrazione Moscherini e alle altre?
Semplice: si pretende di aver comprato la nostra salute.
Come accade per tutte le lotterie, quella di morte di TVN non ci dice in anticipo chi sarà sorteggiato. Ci dà invece la certezza che tanti e tanti di noi e dei nostri figli dovranno soffrire e morire per le conseguenze dell’inquinamento da carbone: tutti parteciperemo all’estrazione.
Queste morti resteranno dolore privato delle famiglie colpite, perché giornali e necrologi pubblici non parlano dei morti per l’inquinamento, delle stragi lente. Porto, le vecchie centrali ad olio combustibile, TVS, Montalto di Castro, cementifici, etc: abbiamo già dato. E invece, su tutto questo si va ad aggiungere il carbone, col suo carico insostenibile.
Se non saremo tutti noi a gridare che vogliamo sì lavoro, ma pulito e non al prezzo della vita o della salute, rischiamo di conoscere da vicino il cordoglio che oggi colpisce terribilmente i cari di Ivan. La causa sembra diversa, ma in realtà è sempre la stessa: il profitto dei potenti. Ivan siamo noi. Se ci uniamo per fermare il carbone possiamo lasciarci alle spalle rischi tragici che non vogliamo. Ricordiamo che la nostra vita non è di destra, né di sinistra o di centro: questo dolore e queste preoccupazioni ci riguardano tutti.
Comitato dei cittadini liberi- nocoke Alto Lazio
@Rodolfo
Sei stato chiarissimo, e sono d’accordo con quanto dici sulle “etichette”. Oggi certe cose si chiamano “jazz” o per convenienza commerciale, perché jazz “fa figo” (vedi Allevi o Einaudi), o perché non c’è un’etichetta migliore per definirle, e allora si adotta un termine-ombrello come “jazz”, che significa tutto e niente.
A proposito di Roach, ho imparato per esperienza che quel che dicono i jazzisti nelle interviste va sempre preso con le pinze. Credo che Roach parlasse per motivi molto più “politici”, che non strettamente musicali.
Mah…sarà che per anni mi sono divertito a suonare al Capolinea di Milano ma per noi “musicisti” il jazz non era “tutto o niente” (parlo di jam session con i fratelli Faraò, ad esempio), era quella musica con delle identità, matrici ben definite, “so what” era “so what” e non era , anche se coverizzata, un’ibridazione acid-jazz stile Ronny Jordan o Incognito, bravissimi tra l’altro!.
Marco
Dicevo “tutto e niente” nel senso che oggi il termine si è allargato fino a comprendere virtualmente di tutto.
Il che, per me, non è un male, basta tener presente che sotto l’ombrello del “jazz” ci sono i musicisti più diversi. Tanto per fare un esempio, ormai Jan Garbarek (che fra l’altro ha cominciato con uno stile che si rifaceva ad Ayler o all’ultimo Coltrane) non c’entra più niente con quello che uno come Marsalis chiamerebbe “jazz”.
Io, per me, non ho mai creduto molto alle etichette. Se una musica è bella, l’ultima cosa che vado a chiedermi è come si chiami o a che genere appartenga.
Un articolo molto interessante che svela che il Jazz è vivo.
Ho imparato molto leggendo il brano.
Io se dovessi indicare un solo nome…, beh ne indicherei tre che hai citato anche tu (in ordine di apparizione) Henry Threadgill, Jonh Zorn e Don Byron.
In Italia, Trovesi e il solito Bollani, ma anche Sepe (ancor più trasversale e “folcloristico” dei citati due). Se i Bad Plus suonano I Will Survive, il Sepe nazionale suona Stayin’ Alive, e la fa cantare in latino: Vivimus!
Hai ragione, aitan, Sepe è un grande.
Se non mi è venuto in mente, forse è perché il suo range stilistico è talmente ampio che il jazz ormai è solo una minima fetta di quel che fa.
Però l’attitudine con cui suona è jazzistica al 100 per 100!
@aditus
Interessante, José James, anche se quel che sento mi sembra soprattutto un nu-soul raffinato, con robuste nervature jazzistiche (bella la versione di Moanin’).
Molto bravo, comunque.
Il jazz è morto,
cos’è il jazz,
dove va il jazz,
viva il jazz.
Questioni che ci si pone dall’altra parte della barricata.
Non credo che i musicisti pensino “questo è jazz?” mentre improvvisano sul loro strumento,
siamo noi, ascoltatori, critici, appassionati che ci arrovelliamo su questi termini.
Resta comunque una considerazione affascinante, perché permette di partire dal conosciuto per disperdersi nell’infinito mare delle nuove possibilità.
Penso allo stupefacente, spigoloso, alieno mOnk.
Era troppo moderno per il Jazz contemporaneo?
Era poco fotogenico per l’immagine del nuovo Jazz?
Lui, così avanti musicalmente per il suo contesto storico, registra da subito alcuni dei dischi più modernamente complessi del secolo scorso. Ma incide anche dei capolavori di semplicità, che partono dalle filastrocche dei bambini, resi sublimi da una nuova visione armonica. E, come se non bastasse, ri-suona alcuni degli standard più interessanti della storia di questa musica, nell’unico modo a lui possibile, stravolgendoli dalla base e lanciandoli, sbilenchi, nel futuro.
Addirittura, in un disco per me bellissimo, si confronta con l’universo sonoro del Duca, un classico del Jazz “rimasterizzato” dal genio della nuova musica moderna.
Eppure, ai suoi esordi, si parlava solo di Bird, di Dizzy, del Divino Miles.
Loro erano il Be-Bop, loro erano il Jazz.
Ma mOnk era là, sotto gli occhi di tutti, riconosciuto e rispettato dai musicisti ma, per un bel pezzo, fuori dal Jazz-Business.
Il suo primo disco lo ha inciso a trent’anni.
MOnk è inclassificabile, genio puro, le etichette impazziscono su di lui.
E questo è il punto.
Oggi la musica (non so più come chiamarlo questo Jazz) è innanzitutto un prodotto commerciale, a prescindere dal supporto. E, come tale, deve avere un’etichetta chiara e ben riconoscibile per gli acquirenti (non per gli appassionati, che si arrovellano). E allora giù dischi di ragazzini tredicenni, di ragazzette con voce sensuale (e belle cosce, magari), concerti dove la parola jazz è scritta solo sul cartellone, ma che non ne hanno niente nell’anima, LIVE di vegliardi che piacciono tanto al pubblico pagante o spettacoli di revival della bella canzone, vestiti di Jazz.
E questa non vuole essere una critica purista o una difesa integralista dei valori del jazz (e quali poi, cambiano sempre) anzi.
Io ho amato la rilettura di Tenco da parte di Tiziana Ghiglioni.
Credo che nella nostra storia musicale si possa trovare l’humus adatto per nuove sonorità (anche se non sempre sposano le caratteristiche in jazz). Penso a Trovesi, appunto, a Mirabassi, al Gaslini dei Dischi della Quercia, al grande Mario Schiano, ai progetti di Paolo Damiani, alle radici friulane di Bearzatti, alla “napoletaneità” di Maria Pia de Vito…
Io credo che, come caratteristica fondamentale, questa musica che è stata chiamata jazz, deve mantenere la capacità di esplorare nuovi percorsi partendo dalle strade maestre.
Io penso che questa musica è una specie di macchina del tempo, che fa delle tracce del passato remoto le coordinate per scoprire il futuro.
Io so che le cattedrali musicali di domani, poggeranno sulle fondamenta sonore gettate ieri.
Ma finché le direzioni saranno dettate dalle major discografiche, dai promoter dei festival, dagli sponsor, dall’audience, dai grafici dei profitti, dai supermercati della cultura, dai critici che non criticano mai, dalle scuole tutte uguali a se stesse, dal pubblico delle grandi fiere, dovremmo accettare le etichette e le mezze parole.
E arrovellarci per capire se è Jazz.
Thelonious mOnk è Jazz.
Thelonious è morto,
il Jazz di mOnk Vive.
L’elemento che ha sempre caratterizzato il jazz è stato l’improvvisazione. Concetto in realtà che significa quasi l’esatto contrario di quello che il termine porta naturalmente a pensare. L’improvvisazione jazzistica tradizionale si muove all’interno di precise regole di armonia, non è libera espressione di qualsiasi evento sonoro. Scale, modi, sequenze di accordi, che vengono scelte liberamente ma che sono precise nella loro struttura e accuratamente catalogate.
Ancora l’estroso Giovanni Allevi – che, sia detto a scanso d’equivoci, ammiro per la sua capacità carismatica di far appassionare al pianoforte tanti giovani – in più di un’intervista ha detto che lui si considera un compositore di musica contemporanea, o “classica contemporanea” (un nonsense che rende bene l’idea), perché la sua musica “è tutta scritta”, cioè non è “improvvisata”.
E qui secondo me torna l’equivoco improvvisativo sul jazz. Il ragionamento, al limite, potrebbe pure reggere, entro certi limiti, se non fosse che Nikolai Kapustin (http://www.nikolaikapustin.net/) ha sparigliato le carte in tavola. La musica di Kapustin sembra all’ascolto jazz genuino – lui stesso agli inizi ha suonato in ensemble jazzistici – e tuttavia è tutta, ma proprio tutta scritta.
E dunque il canone jazzistico non risiede quasi più nell’improvvisazione. Cos’è allora il jazz (a parte quello storicamente determinatosi alle origini)?
In realtà quel che caratterizza il jazz non è tanto l’improvvisazione intesa come creazione di melodie ex-novo, quanto piuttosto la disponibilità a ripensare l’esecuzione di un brano rispetto alle circostanze in cui essa ha luogo.
Mi spiego: Billie Holiday non ha mai “improvvisato” una nota, nel senso che ha sempre eseguito le melodie dei brani, senza fare scat né altro. Solo che l’esecuzione non era mai uguale, ma minimi particolari variavano a seconda dell’espressività che la cantante voleva assegnare, dell’interazione con gli altri musicisti, del fatto che il bassista o il batterista suonassero una certa cosa che la stimolava, ecc.
In altre parole, il jazzista non ha necessariamente un rapporto primario con un medium visuale prestabilito (lo spartito), ma piuttosto conserva una griglia mnemonica fatta da una parte di melodie, accordi, strutture formali, ecc., dall’altra parte di un repertorio di mezzi espressivi da adattare sul momento.
Anche lo spartito jazzistico è solo una traccia da cui partire per “estemporizzare” l’esecuzione. Certi dettagli (abbellimenti, intenzione ritmica, quella “spinta” che costituisce il cuore dello swing) vengono lasciati liberi.
Vincenzo Caporaletti definisce il jazz una delle musiche “audio-tattili” in quanto si basano da una parte sull’udito (e non sulla vista, ossia sul medium scritto), dall’altra dalla memoria fisica, corporea dell’esecutore.
Giovanni Allevi *non è* jazz non solo perché la sua musica non ha nulla di jazzistico nel lessico, nell’intenzione ritmica, ecc., ma perché manca proprio l’elemento dell’estemporizzazione: Allevi non fa che rieseguire una traccia scritta, esattamente come chi esegua Bach o Chopin.
Vorrei aggiungere: non so bene che cosa sia oggi il jazz.
Trovo molto efficace un paragone che mi espose una volta il pianista Aaron Goldberg: probabilmente oggi c’è un “nocciolo” di musiche che si possono definire jazz nel senso più “completo” della parola, perché si rifanno a una precisa tradizione in termini di modalità esecutive, elementi ritmici, strutture formali, ecc. Poi, intorno, ci sono dei cerchi sempre più ampi, che hanno sempre meno punti di tangenza con il jazz, o che magari ne riprendono solo alcuni elementi e non altri.
Per dire: la musica di Brad Mehldau si rifà a una precisa tradizione del piano-trio jazzistico, e anche quando reinterpreta i Radiohead li traduce secondo quel linguaggio.
Invece un musicista come il libanese Rabi Abou-Khalil parte dalla tradizione musicale del Medio Oriente e vi innesta alcuni elementi jazzistici, ad esempio un certo tipo di improvvisazione solistica, insieme ad altri che di jazzistico non hanno nulla (le poliritmie, le scale modali, ecc.). Quello è jazz? Sì, per certi versi, no per altri.
Il punto, secondo me, è che negli ultimi 20-30 anni la tradizione che una volta si chiamava “jazz” e che aveva seguito un percorso (più o meno) lineare si è ramificata formando un delta di esperienze, molte delle quali ormai si sono allontanate irrimediabilmente dalla matrice originaria.
Ma questo non mi sembra un problema, fintanto che le musiche conservano un proprio valore estetico.
Per inciso, mi chiedo spesso quanto la nostra visione di un jazz come evoluzione “lineare” non sia un aritificio prospettico. Noi vediamo un’evoluzione da Armstrong a Dizzy Gillespie e poi a Clifford Brown o Miles Davis, ma non so se un ascoltatore dell’epoca poteva pensarla così.
Un ascoltatore dei tardi anni ’50 vedeva classificate sotto l’etichetta di “jazz” Armstrong, “So What”, il quintetto di Roach e Brown, Duke Ellington, Stan Getz, persino i primi dischi di Ornette Coleman.
Io penso che molti si ponessero, già allora, le stesse domande che ci stiamo ponendo noi.
Bella discussione.
Condivido con Aitan e Sergio l’entusiasmo per Sepe.
segnalo una bella riflessione su giovanni allevi, scritta da max viel (già ospitato varie volte su ni). istruttivi anche i commenti.
http://maxviel.wordpress.com/2008/04/30/giovanni-allevi-ovvero-il-musico-della-porta-accanto/
ps: W sepe.
Se devo dirla tutta, Allevi mi sembra uno dotato di una discreta tecnica (ma non superiore a quella di qualsiasi diplomato di Conservatorio) e della capacità di scrivere melodie orecchiabili, di matrice molto più pop che “classica contemporanea”, come vorrebbe sostenere lui.
Se qualche legame col jazz c’è, potrebbe essere una estrema semplificazione del Jarrett del Koln Concert, che a sua volta è già una semplificazione del Jarrett degli altri dischi in solo.
Il resto fa parte della mitologia che gli è stata creata intorno (il “genio”, quello che “ha riportato in vita la musica contemporanea”, eccetera eccetera) e che lui alimenta più o meno consapevolmente.
Comunque non ce l’ho certo con lui, che fa onestamente il suo mestiere. Sempre meglio che un adolescente ascolti Allevi, piuttosto che il Marco Carta o il Tiziano Ferro di turno.
Forse deborda un poco dalla discussione, ma:
vorrei segnalarvi un artista interessantissimo, naturalizzato europeo, il quale lavora proprio a cavallo tra improvvisazione e quella ripetizione di stimoli esterni in un nuovo linguaggio – che da personale si fa subito universale (in fondo, il miracolo della musica) -: quello che mi pare definiate come jazz. Si tratta di Misha Alperin, che, come gran parte dei musicisti che incidono per ECM, soffre di quella sindrome da inclassificabilità. Dalla metabolizzazione di musiche e ritmi popolari attestata dall’attivita del Moskow Art Trio, di cui è leader con Arkady Shilkloper, all’attenzione verso la musica più strettamente colta (Night, del 1998, con Anja Lechner al violoncello), fino alle musiche dell’ultimo Her first dance, ispirate alla musica balinese delle orchestre gamelan, il percorso di Alperin è tutto un variare – a mio parere – su una matrice jazz ben stabile, che rappresenta il nucleo del suo creare come pure della sua discografia (mi riferisco ai due dischi più esplicitamente jazz: North Story, con Tore Brunborg al sax tenore e Jon Christensen e Terje Gewelt alla sezione ritmica, la stessa del successivo splendido First Impression, dove ai sassofoni compare un certo John Surman).
Bello questo articolo di Sergio (come anche gli altri del resto), e interessante la discussione. Spesso mi chiedo se le “grandi musiche”, jazz, classica, siano estinte e se abbia ancora senso chiamarle così. In parte Sergio mi risponde che vi è una contaminazione quasi totale, e possiamo ormai parlare di “musica”, e che questa musica è “bella” o “brutta” ecc. Sono abbastanza d’accordo, però mi piace pensare ancora al jazz, con le sue regole i suoi stili, la sua evoluzione. Per dire, Bitches Brew, che all’epoca, ricordo, suscitò commenti scandalizzati e indignati dei puristi, per me è jazz.
Un’altra cosa che forse c’azzecca poco, ma visto che si parla, anche, di Radiohead e affini…
il nuovo disco dei Sigur Ros (che hanno visibili riferimenti al minimalismo americano più che al jazz) è SPLENDIDO.
Sempre riguardo le contaminazioni, in questo caso tra rock jazz elettronica e – di nuovo – minimalismo, il trombettista norvegese Arve Henriksen è un buon esempio. L’ho sentito recentemente alla rassegna Bergamo Jazz e devo dire di esser rimasto basito.
http://it.youtube.com/watch?v=KH-qK5az_5k
(Alperin è quello con pochi capelli)
Dice sergio falcone: “Viviamo tempi confusi di grande crisi della creatività”.
Non lo credo. In verità lo pensavo anch’io un tempo… poi ho capito che la creatività c’era ma era da un’altra parte. E’ sempre difficile capire le trasformazioni quando si è nel mezzo perchè la sindrome dei Good Ole Boys (*) è sempre in agguato, mentre è più facile vedere i cambiamenti creativi quando sono già stati realizzati.
Un esempio: nel ‘99 mi sono legato a una sedia come Vittorio Alfieri e mi sono messo ad ascoltare musica che all’epoca mi faceva ribrezzo, la dance elettronica, House Techno Breakbeat eccetera…
E finalmente ho capito dov’era andata a finire tutta la creatività che non vedevo più nei miei dintorni culturali.
Quanto al jazz… dobbiamo renderci conto che, come dice la pubblicità di Matrix 3, “tutto ciò che ha inizio ha anche una fine”.
Certo è che il jazz in questo periodo sembra cercare la vita da altre creature più o meno vive come un vampiro disperato. Lo ha sempre fatto. Quello che colpisce è però che il “mal di massa” non ha risparmiato neppure il jazz e oggi la massa pensa che il jazz sia ciò che si suona nei locali o che comunque è stato digerito dalla cultura di massa… un popjazz ibrido e accademico, un flusso di coscienza massificato basato su un linguaggio che negli anni ‘60 era gia’ vecchio.
La musica rinascimentale ha i propri cultori che la vivificano e la rinnovano anche nel Duemila… ciononostante rimane sempre musica Rinascimentale… suonata oggi. Anche il jazz mi sembra subire lo stesso destino, insieme alla musica classica e la sorellastra contemporanea. Si puo’ suonare il jazz oggi, “contaminarlo” con altri generi o rifugiarlo in un accademismo filologico. Nel momento in cui è riconoscibile come una componente è però e comunque già situato in un inventario di musica del passato. A mio modesto parere.
E dunque sono d’accordo con Rodolfo… il jazz è morto, viva il jazz e viva le nuove invenzioni musicali… magari derivate dal jazz.
Su Allevi e la musica classica o contemporanea invece… mah sarebbe come identificare Bocelli con la lirica o Leone di Lernia con il Rock’n’roll… E’ un fenomeno di puro marketing che con la qualità (di scrittura e di performance) ha ben poco a che fare…
(*) La sindrome dei Good Ole Boys è quella per cui si crede che tutta la musica esistente sia soltanto quella che si conosce… cosi’ come i gestori del locale interpellati da Belushi su quale musica si faccia da quelle parti rispondono: “ Di tutte e due i tipi: il country e il western”.
Su Allevi non vi voglio dire cosa mi riferì “Gaetanone” Liguori, che lo ebbe come allievo per breve tempo in conservatorio, qui a Milano…
;-)
(ad Andrea Raos: lo so che stai soffrendo, ma giuro che prima o poi te lo presento Gaetano)
E io è meglio che non vi dico che razza di commenti giravano nel backstage e nell’ufficio stampa di Umbria Jazz l’altro anno, quando Allevi fu ospite del festival (e ovviamente fece il tutto esaurito al Teatro Morlacchi).
In quel caso a fare un po’ senso non era il povero Allevi, quanto chi lo aveva invitato per fare un po’ di cassetta e poi lo sbeffeggiava dietro le spalle…
Approfitto per ringraziare chi ha letto e commentato l’articolo.
Da domani e per le prossime due settimane sarò, spero, a sollazzarmi sotto il sole e non sono sicuro di poter disporre di un accesso a internet, quindi non so se potrò seguire altri commenti.
Di nuovo grazie a tutti, e alla prossima.
*non voglio dire […] è meglio che non vi dica*:
dite!
Citavo Allevi solo per dare l’idea di come qualsiasi genere musicale moderno “crossover” venga in realtà percepito dalla gente come una delle infinite varianti del jazz.
Pur non essendo un appassionato di quel tipo di musica, che comunque ammicca al pop (per lunghezza dei brani, per l’importanza data al titolo, per la piccola storiellina sull’ispirazione che ci viene appiccicata sopra), riconsco ad Allevi il grande merito di aver avvicinato tanti giovani allo studio della musica. Un fenomeno interessante è che molti dei fan di Allevi sono anche studenti di pianoforte o pianisti principianti. E inoltre molti insegnanti di pianoforte hanno inserito nel repertorio per i propri studenti proprio brani di Allevi, così come avevano fatto e fanno con i brani facili in stile pop e jazz di Remo Vinciguerra. Addirittura è stato pubblicato uno spartito di alcuni brani di Allevi in trascrizione per pianoforte a quattro mani. Tutto cio è lodevole. Lodevole perché non rimanda a una fruizione passiva della musica, e perché fornisce l’entusiasmo necessario per poter proseguire gli studi musicali.
Molti dei “santoni” della musica post-jazzistica non si pongono neanche il problema, ripiegati come sono in contorcimenti solipsistici e affermazioni di virtuosismo, non facendo quasi nulla per la diffusione della cultura musicale.
«Here error is all in the not done».
Egregio Cristoforo Prodan,
senza puzze sotto il naso da parte mia, credo che l’arte non debba avvicinarsi alle persone, semmai le persone devono avvicinarsi all’arte. That’s the question! E non è da poco, la differenza.
gianni, ti leggo solo oggi. accidenti, che memoria che hai… sì, mi farebbe molto piacere ovviamente!
sono io che ringrazio sergio per l’ottimo pezzo che ci ha mandato. buone vacanze!
Piacerebbe tanto anche a me conoscere quel militante e estroso assai pianista di Gaetano Liguori.
Quanto a Umbria Jazz e agli show del Morlacchi…, l’ultima volta che ci andai fu nell’89, ero un ragazzetto, ma il TG regionale mi fece un’intervista in cui dissi peste e corna. Ero triste per come si stesse snaturando un festival bellissimo alla ricerca del consenso facile e di qualche biglietto al botteghino.
Meglio Pomigliano Jazz, meglio Berchidda, meglio Rocella Jonica, meglio Vignola…