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Walzer del fiore azzurro

di Antonio Sparzani

Dopo la ballata, tocca al walzer. Thomas Mann, si diceva, era della generazione di Jung e di Rilke. E allora un altro precedente dei Fiori blu Queneauiani lo cercherò nella Montagna Incantata, lo Zauberberg, che poi si potrebbe tradurre anche Montagna magica, come lo Zauberflöte, che è il flauto magico, e se c’è un romanzo di Mann in cui tutto è metafora, tutto è trasposizione esoterica, questo è certamente – già il titolo vi allude – la Montagna incantata. L’espediente narrativo è speculare a quello del Decamerone, nel quale il luogo da cui viene visto il mondo è ad esso esterno, e una grave malattia – la peste di Firenze – ammorba il mondo: nel romanzo di Mann, il punto di vista è il luogo dove la malattia sta: spesso fatale ma non deprimente, in qualche modo spensierata e insieme nascosta, e tale quindi da creare una comunità di adepti con un inviolabile legame di intensa complicità.

Hans Castorp è il «semplice giovanotto» amburghese, che si reca in questo recesso tra i monti della Svizzera per trovare il cugino Joachim; dapprima riottoso, s’adegua poi a piccoli passi alla inquietante, ma vagamente belle-époque, atmosfera del Kuratorium e, malgrado i progetti iniziali, vi soggiornerà assai a lungo.

La vita che Hans conduce lassù è segnata da episodi e avvenimenti che Mann confeziona e dosa accuratamente, e il primo tempo di questo walzer col quale vi voglio ammiccare consiste nella passeggiata che il protagonista si concede quasi all’inizio del suo soggiorno, quando ancora crede di poter fare il visitatore e non il paziente, passeggiata che lo conduce nel primo luogo davvero fatato del romanzo. Camminata felice, almeno all’inizio, per Hans, che trova la forza e la voglia di cantare le canzoni che conosce (Cantino i bardi amore e vino / ma ancor più spesso la virtù…) e di inerpicarsi sempre più, anche se con crescente sforzo, fino a un «magnifico scenario aperto, a un paesaggio intimamente unito entro una grandiosa inquadratura di pace.»
(Mi avvalgo, con minime variazioni, della traduzione di Ervino Pocar, che spesso utilizza anche termini e giri di frase languidamente desueti, Corbaccio, Milano 1992).

Davanti a Hans, che siede su una panchina, «il terreno azzurreggiava di campanule d’una invadente pianta a cespi» (Der Grund war blau von den Glockenblüten einer staudenartigen Pflanze, die überall wucherte): c’è un’idea di rigoglio quasi eccessivo in questa breve descrizione, e la pianta non è ancora ben individuata, se non per il fatto che ha i fiori a campanella. E Hans, come stremato dalla passeggiata e dalla vista di quella troppo lussureggiante vegetazione, è colpito da una violenta epistassi che lo costringe a terra per molti minuti in un lungo sopore abitato da un vivido e quasi palpabile ricordo di un antico compagno di scuola, Pribislav Hippe, amato da lontano, e gli impone poi un «ritorno pietoso». È questa l’occasione in cui per la prima volta Hans prende coscienza che la sua permanenza nel sanatorio non si configura come una semplice visita, ma comincia ad assumere inquietanti connotati di malattia.

Passa quasi un anno – è il secondo tempo del walzer – Castorp è ormai del tutto ambientato, nei molti sensi di questa ambigua parola, in quel luogo di sofferenza e di distacco, e si dedica, come altri ospiti, oltre che a seguire – oramai anche lui – scrupolosamente la cura, alle attività più varie; e lo troviamo, all’inizio del capitolo dal minaccioso titolo “Dello stato di Dio e della mala redenzione” intento a classificare «una pianta che, mentre l’estate astronomica era cominciata e le giornate si accorciavano, cresceva abbondante in vari posti: l’aquilegia, una ranuncolacea che cresce a cespo, col gambo lungo, fiori azzurri e color viola» (die Akjelei, oder Aquilegia, eine Ranunkulazeenart, die staudenartig wuchs, hochgestielt, mit blauen und veilchenfarbnen…Blüten) , e così il fiore del primo tempo ha un nome, «La pianta cresceva qua e là, ma particolarmente folta nel quieto recesso dove egli l’aveva vista la prima volta, poco meno di un anno prima: nella remota gola silvestre, tra lo scrosciare del rio montano, col ponticello e la panca dove era terminata allora la sua libera, inconsulta e nociva passeggiata, e dove ritornava di quando in quando.»

Ascoltate bene: era finita la sua «libera passeggiata», oltretutto nociva a causa di quella violenta epistassi: un pezzo della libertà di Hans se n’era andato, il Berghof stava ormai prendendo possesso di lui.
Adesso, a distanza di tempo, Hans era capace di raggiungere tranquillamente quella stessa gola silvestre servendosi di una scorciatoia, senza più la fatica che era stata necessaria la prima volta, Hans fa ormai armonicamente parte del contesto e vi si reca abbastanza spesso: «se il tempo era sereno, vi si recava dopo la seconda colazione, talvolta già dopo la prima, e approfittava anche delle ore fra il tè e la cena per visitare quel luogo preferito, sedersi sulla panca dove gli era venuta un giorno quella copiosa epistassi, ascoltare con la testa piegata su una spalla il fragore del torrente e osservare attorno a sé il limitato paesaggio e il tappeto di aquilegie azzurre che erano di nuovo in fiore.»

Vi andava, Hans, per stare solo, per pensare con calma a idee e avventure recenti e lontane, tuttavia «per spaventare così bizzarramente il suo nobile cuore bastava la razionale considerazione che l’aquilegia, lì dove un giorno, in uno stato di diminuita vitalità, gli era apparso Pribislav Hippe in carne e ossa, non fioriva ancora, ma presto sarebbe tornata a fiorire, e tra pochissimo le “tre settimane” sarebbero diventate un anno tondo intero.»

Hans fa ormai parte di quella comunità isolata dal resto del mondo, non gli appaiono più i fantasmi della sua adolescenza, si dedica invece a «domande e distinzioni, … delle quali … in quanto borghese aveva cominciato a sentirsi responsabile, benché anche lui laggiù in pianura non le avesse mai … scorte, ma lì sì, in alta montagna, donde, dal contemplativo isolamento di cinquemila piedi d’altezza, vedeva il mondo laggiù e le creature, e faceva le opportune riflessioni … » come i dieci giovani che, distanti da Firenze, ne narrano con divertita e distaccata allegria le segrete storie.

Alla fine delle sue meditazioni Hans «rievocò le immagini dei due nonni, l’uno accanto e contro l’altro, il ribelle e il ligio, che vestivano di nero per ragioni diverse, e ponderò la loro dignità, meditò e cercò di chiarire accoppiamenti come forma e libertà, spirito e corpo, onore e infamia, tempo ed eternità, … e provò una breve ma violenta vertigine al pensiero che l’aquilegia era fiorita di nuovo e l’anno [s’intende della sua permanenza al Berghof, ndr.] si stava conchiudendo.»

Ed ecco il terzo tempo del walzer. Joachim, il cugino di Hans, che questi era andato a visitare al sanatorio, è un militare di carriera e vuole tornare al suo reggimento, sia completa o no la sua guarigione. Hans lo accompagna nell’ultimo colloquio col medico capo, il Hofrat Behrens, perché in un certo senso, ancorché superficiale, si sente partecipe della stessa sorte del cugino. Il medico ci oppone alla partenza di Joachim, ma questi è irremovibile, il dovere viene prima della malattia, e impone la propria volontà. A quel punto il medico si arrende e Hans chiede a sua volta con voce tremante se il suo caso possa dirsi risolto; e quando il medico lo dichiara guarito Hans si ribella e gli chiede se per caso stia scherzando, al che segue, da parte del medico, uno scoppio d’ira terribile.
Ma quando i cugini si allontanano, terminato il colloquio, e Joachim vanta la vittoriosa affermazione della propria volontà, Hans tace e tacitamente ri-assume la pratica quotidiana della cura «si avvolse nelle due coperte di cammello, con gesti brevi e sicuri, secondo quella sacra pratica della quale laggiù al piano non si aveva un’idea, e giacque, cilindro regolare e senza pieghe, sulla sua eccellente sedia a sdraio nella fredda umidità del pomeriggio di primo autunno … sentiva che il viso e le dita gli si irrigidivano a causa del freddo e dell’umidità. C’era avvezzo e provava un senso di gratitudine verso quel tenore di vita, che ormai considerava l’unico possibile, per la prerogativa di poter stare lì isolato [in Geborgenheit, dice l’originale, al sicuro] a ripensare ai fatti suoi.»

Hans deve restare, malgrado riconosca l’apparente opportunità di andarsene offerta dalla partenza del cugino, perché più integrato di Joachim nella società del Berghof, perché deve aspettare il ritorno di Clavdia Chauchat – che ha gli occhi da kirghisa come quel suo amato amico di scuola, Pribislav – e perché avvertirebbe come una diserzione l’abbandono della situazione al sanatorio, «diserzione da larghe responsabilità che lassù gli erano imposte dall’eccelsa figura detta homo dei, tradimento contro gravi e accaloranti doveri di “regno”, che, a rigore, trascendevano le sue forze naturali, ma lo rendevano bizzarramente felice, mentre li adempiva, sia lì nella loggia sia tra l’azzurra fioritura del suo recesso.»

[non vorrei dare l’impressione, a chi non ha letto La montagna incantata, che il romanzo si concluda così; così non è infatti, e questo è solo un walzer ricavato al suo interno. a.s.]

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5 Commenti

  1. Non ho capacità tali da affrontare i rimandi a un’opera così intensa come la “Montagna Incantata” – di cui purtroppo possiedo l’edizione “I corvi” della casa editrice Dall’oglio, in cui una certa Bice Giachetti-Sorteni ci propone l’inaccettabiele: Giovanni Castorp. Penso sia questo il motivo per cui non l’ho riletta quante volte avrei voluto.
    Mentre quello che sembrerebbe solamente un accenno per ragioni linguistiche al “Flauto magico” potrebbe rivelarsi davvero un invito ad arare terreni promettenti, meravigliosi: magici appunto.
    Ma anche per questo a me mancano le forze.

    Invece: il “fiore azzurro”.

    Quando Freud e Jung si recarono per la prima volta, assieme, in America, invitati da Università che avrebbero dato loro modo di esporre le loro teorie – e concedendo ai due lauree honoris causa – durante il viaggio, in nave, Freud se ne uscì con questa frase: “Stiamo portando la peste, e loro non lo sanno”.
    Ma non soltanto questo, su quella nave. Perché allora si compì anche la rottura tra i due.
    Avvenne così: i due si erano messi d’accordo di interpretare uno i sogni dell’altro. Il sogno fatidico fu quello di Jung – quello dei “due teschi”. Jung non concordava per niente con quello che ne traeva Freud: un inconscio desiderio di morte di Jung per sua moglie e per sua suocera. Lo disse anche, a Freud, ma quello insisteva. Alla fine decise di inventarsi o accentuare alcuni particolari per dare pienamente ragione a Freud. Così che la finisse di fare domande per estorcere qualcosa che suffragasse la sua tesi.
    Il sogno di Freud che doveva essere intepretato da Jung, richiedeva anch’esso della chiarificazione di alcuni particolari intimi. Ma quando Jung li chiese a Freud questi rispose che non glieli poteva dire, perchè ciò avrebbe compromesso la sua autorità.
    “In quel momento – commenta Jung – perse ogni autorità nei miei confronti”.

    La scissione determina due modi di vedere l’inconscio.
    Il modo – il mondo – freudiano lo vede come una sorta di discarica, che richiede operazione, operazioni di bonifica che traendo energia da quello – una specie di inceneritore – rafforzino l’io.
    Il modo – il mondo – junghiano vede invece l’incoscio come caverna contenente tutto ciò che è vita, vitalità le cui caratteristiche non sempre sono positive, ma che possono essere anche distruttive. Anzi è proprio questo l’inconscio *unione degli opposti*.

    E’ chiaro che nel mondo freudiano non ci può essere nessun “fiore azzurro”.
    Mann, infatti, che non è tutto freudiano – vedi “Giuseppe e i suoi fratelli” e il “Dialogo” con Carl Kerényj – usa ancora, nella “Montagna incantata” la metafora della malattia. Del tutto freudiana.
    Ma non è che questa sia del tutto sbagliata, perchè anche nello junghismo vengono presi in considerazione aspetti “patologici”. Solo che vengono individuati nel “rapporto” che si ha con l’incoscio, non nell’oggetto come tale.

    E d’altronde proprio qui sta la difficoltà con il “fiore azzurro” o “fiore d’oro”.

    Che d’altronde non ci siamo inventato noi:

    “Eraclito identifica il fuoco periodico con il dio eterno, il destino con il logos che produce tutte le cose dal concorso degli opposti”

    “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu
    potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos”.

    Per chi volesse affrontare in un confronto diretto il “fiore” e saperne gioie e pericoli – tra tutta la sterminata letteratura specialistica in proposito – a parte la “letteratura assoluta”, per me resta decisivo, insuperabile: ELVIO FACCHINELLI, La freccia ferma, tre tentativi di annullare il tempo, Edizioni L’erba voglio, 1979. Ma oggi riedito dall’Adelphi.

  2. Ancora una volta il difetto genetico dell’incapacità di dosare lo spessore delle consonanti mi ha tradito: Elvio Facchinelli è Elvio Fachinelli.

  3. Luchino Visconti pensò per molti anni di fare un film da “La Montagna Incantata “,di Mann perchè voleva raccontare partendo dal punto di vista della malattia, lo leggevo ieri pomeriggio, in un libro ormai introvabile ” Luchino Visconti” di Gaia Servadio, ma ne parlano anche altri che sul regista hanno scritto parecchio. Tradurre in un film “La Montagna Incanatta” risultò impossibile e Visconti ripiegò sul Mann più accessibile di “Morte a Venezia”.

    Complimenti per questo pezzo.

  4. Grazie molte dei giri di Walzer.

    Ma di quando nel capitolo Profusione di armonie nel Kuratorium arriverà un grammofono, una traboccante cornucopia di godimenti artistici, sereni o mesti, di cui Castorp di fatto si impadronirà, rapito, mentre il preciso presentimento di una passione nuova, di un’incantesimo, d’un incarico amoroso gli empiva l’anima e delle sue psichiche preferenze musicali e dello sgomento ascoltando La canzone del tiglio di Schubert forse è un’altra storia che davvero sarebbe bello raccontare ed ascoltare qui prossimamente…

    Grazie delle suggestioni azzurre.

    ,\\’

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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