La Muta Vocale
di
Francesco Forlani
immagine: Pomme d’Adam
Un altro cambiamento che avviene durante la pubertà riguarda la voce, che diventa più profonda a causa della stimolazione della laringe a opera del testosterone. Durante lo sviluppo della laringe (comparsa del pomo di Adamo), la voce del ragazzo può subire, per un certo periodo, strane variazioni timbriche, assumendo toni ora rauchi ora striduli, la qual cosa crea spesso un notevole imbarazzo.
Del primo bacio ricordo la data, precisa sputata. Era il 12 Giugno del 1979, a casa di Rossana, Ercole, fraz.di Caserta. Sulle note calde di Please don’t go
KC and the Sunshine Band. Fu Carmen a baciarmi, alle 19 e 50, tempi supplementari, ma io amavo Marzia.
E ricordo con precisione maniacale, con la stessa memoria di un bancario, la prima partita di pallone, la prima maglia da convocato, la numero due, succeduta alla numero 1 – perché in porta ci andavano gli scarsi – giallorossa, la sola che la mia squadra potesse permettersi. Naturale evoluzione di “squadra con maglietta bianca” contro “squadra a torso nudo”. Era il due maggio del 1978 e il giocatore che godeva in assoluto della stima dei miei compagni era Costantino detto Neskeens, per via dei capelli lunghi e del tiro da lontano. la cagliosa, come si diceva.
Ma del giorno in cui avvenne la prima separazione nella vita, quella che ti sconquassa il torace come un seno, non ricordo nulla. Non il giorno, il mese o peggio ancora l’anno. So solo che si diffuse come una malattia tra noi leva calcistica 66/67, noi che eravamo le schegge impazzite di una granata chiamata baby boom. Il primo a cui accadde infatti fu Alfonzo (con la zeta) Valentino .
Mancino,grande giocatore di cuppulone, quello delle figurine panini da piazzare per terra, in un mazzetto, e che si poteva vincere soltanto girandole, sbattendo il palmo di mano con tutta l’energia e la forza necessarie a spostare l’aria e le carte in tavola.
Giampo Brancaccio seguì a ruota. Lui non era mancino, come Alfonzo- tra le varie cause dell’epidemia qualcuno aveva imputato a quell’anomalia, della mano sinistra, la ragione del disguido, del pasticcio- e me ne resi conto proprio io. E fui io a far sì che anche lui se ne accorgesse. Fino ad allora infatti Giampo aveva una voce da fare invidia ai Cugini di Campagna, e poteva cantare Anima mia senza costringersi al falsetto. Invece al telefono, anzi seduto su una sedia accanto al telefono, quel giorno, ma quale giorno?, lo avevo confuso con suo fratello, non Alex il più piccolo, ma Massi Brancaccio la cui voce grave e impettita incuteva timore solo a sentirlo parlare. Francesco de Core e, poco dopo, suo fratello Gigi caddero invece qualche settimana dopo. Fin lì veniva almeno rispettato l’ordine cronologico della caduta, per cui il fratello più grande anticipava quelli più piccoli, almeno due, ma in un caso almeno, ovvero quello di Rino e Giustino de Sire, ci fu il contrappasso. A Giustino infatti, non solo più piccolo ma anche più mingherlino, accadde la “cosa” in largo anticipo rispetto al fratello Rino di due anni più vecchio.
Dall’idea di dover passare di lì, io ne ero terrorizzato. Almeno quanto da quella di fare l’operazione alle tonsille e alle adenoidi. Umberto de Maria un giorno, anzi qualche giorno prima, ma continuò alcuni giorni dopo arricchendo la sua asserzione con una descrizione ” certosina” di ogni dettaglio dell’operazione, compreso quella de sangue che schizzava sulle pareti, mi voleva a tutti i costi convincere che quell’operazione era naturale che si facesse, cui replicavo che non capivo come fosse così naturale visto che nessuno dei miei fratelli era stato sotto i ferri. E lui mi ritorceva contro che “quei poveretti” erano stati tagliati fuori dal progresso della medicina di cui noi eravamo i primi beneficiari, e citava a proposito l’exploit di Christiaan Barnard il cardiochirurgo che aveva da poco operato a cuore aperto un paziente o la mamma di un suo amico di Napoli, che poche settimane prima aveva accompagnato tutti e tre i figli, Davide, Mimmo e Margherita Morganti al Pellegrini…
Fu mia madre a dissipare ogni dubbio quando non vedendomi dormire più come una volta e soprattutto filarmela ogni qualvolta ci venisse a trovare zio Mimmo, primario all’ospedale civile di Caserta, da cui ero stato in precedenza traumatizzato per l’uso del cucchiaio a mò di forcina per tenermi aperta la bocca e abbassata la lingua, mi disse risoluta:
– Sciocchezze. E tu ci credi pure!
– Giurami Mamma che non è vero, che non è come quando ci siamo fatti la vaccinazione contro il colera…
Che l’indomani eravamo tutti a mostrare il tatuaggio più riuscito sul braccio sinistro, e a interpretare come un Rorschach le dimensioni e l’aureola della bruciatura.
Ora, per capire il fenomeno dilagante, della perdita della prima voce, avevo bisogno innanzitutto di ascoltarla, la mia voce. Che fino ad allora pensavo essere esattamente come quella dei miei compagni, e visto che la loro stava cambiando o trasformata si era già, era venuto meno un termine di paragone, di confronto. Mio fratello Geppi aveva un registratore Grundig, talmente prima generazione che quando finiva la cassetta di girare il tasto play restava su. Ma era possibile “record” e così feci. Quando la sentii parlare, per la prima volta, rimasi dapprima sconcertato poi incuriosito da cosa avesse da dirmi. E così non solo il tono, il ritmo, il colore mi era estraneo ma anche le parole che la vestivano per quanto fossi stato io il sarto occasionale di quelle poche frasi.
Mi pareva la voce di una donna. Non di mia madre e men che meno delle mie sorelle che applicavano nei miei confronti lo schema catenaccio di Helenio Herrera per ogni tipo di situazione che prevedesse una qualche condivisione, il canale, uno dei due, da vedere alla tele, o il film al cinema, uno dei tre in cui andare. Era quella la voce di una donna segreta, ignota ai più, come l’amica dell’amica che qualcuno aveva avuto la fortuna di conoscere a una festa e che nessuno avrebbe mai più rivisto. Era una voce, una donna che teneva compagnia, ti sorrideva, e francamente rideva in ogni occasione mancata, ma soprattutto riuscita, di grande figura di merda.
Come quando Toni Cola, credo, ebbe l’idea di partire in missione, Maneata come prova di coraggio collettiva. Che poi consisteva a palpare, ma senza nemmeno soffermarsi più di tanto, il sedere di una ragazza, preferibilmente non del quartiere, quasi sempre al bar Gorizia, angolo corso Giannone, via G.M. Bosco, allora un’ impasse incastonata come un diamante in mezzo alla campagna. Io ci andai, per quanto mi ripetessi dentro che la cosa non mi interessava, ma forse era lei che mi parlava, la voce di dentro, a manifestare una totale indifferenza alla pratica. e così a missione finita, e se si vuole riuscita per via di due tre maniate andate a bersaglio, tornando verso casa, inavvertitamente toccai una ragazza piuttosto in carne che non considerando il mio fallo involontario mi rifilò uno schiaffone che mi ritrovai in calcio d’angolo, dritto e rosso come una bandierina.
E tanto più l’ascolto di quella registrazione, della voce, mi rendeva meno solo, tanto più l’idea di perderla mi pareva insopportabile. I ragazzi, si sa, quando ancora bambini si inventano sempre una strategia di superamento della paura attraverso una sottile sperimentazione preventiva del male, una simulazione dell’esperienza. Così nei sogni architettano le prove generali dei funerali dei genitori, quasi solo per svegliarsi nella notte in un mare di lacrime. Prima di passare poco tempo dopo a immaginare il proprio funerale osservando dall’alto il dolore degli altri, la commossa partecipazione di chi ti vuole bene e che provoca nel sognatore un sorriso, una compiacente soddisfazione. Un bel risveglio scandito dalla tenace quanto mai illusoria percezione di essere amato dal mondo. Ma in quel caso, cosa inventarsi per non appuntarsi il bottone nero al bavero per l’avvenuta scomparsa della voce?
Del giorno in cui avvenne la prima separazione nella vita, quella che ti sconquassa il torace come un seno, non ricordo nulla. La sua partenza fu muta, improvvisa. Altri me l’avevano fatto notare come io avevo un tempo portato altri ad accorgersene.
Quella voce mi aveva abbandonato. Di punta in bianco senza preavviso. Parlavamo, parliamo come i padri, abituati al tono grave delle parole.
Tranne quando si piange – capita anche agli adulti- raggiunti dalla commozione, e allora ridiventa viva la voce della donna che ci aveva abitato.
I commenti a questo post sono chiusi
La voce è un’opinione: non sappiamo mai quando l’abbiamo cambiata.
Io lo so quando accadde. Più o meno quando ti conobbi, in via G.M. Bosco. Con molta pazienza, e qualche ricerca in soffitta, potrei dirti anche il giorno e l’ora: era ieri, alle 15,28
Ros
e forse hai ragione tu. pensa che in questi minuti stavo riflettendo su una cosa.In home page di NI ci sono -mi verrebbe da dire come al solito ma fa troppo partizan- dei post molto densi. E il caso ha voluto che queste mie inattuali considerazioni si trovassero poco prima di un articolo appello che concerne i nostri luoghi. Se si seguono i diversi link si entra in un mondo fatto di persone straordinarie, si direbbe qui a Torino , “sul pezzo”, sia che si tratti dei laboratori di animazioni fatti nelle elementari, o del maestro Pignataro e della stessa band nuove tribù zulù. Del resto sia io che te conosciamo maurizio (Braucci) e sappiamo il culo che si fa lavorando sul territorio, quel territorio, esattamente come te.
E allora, vengo alla domanda, mi chiedevo, perché nonostante tutto, dovevo raccontare questa storia della voce. Perché stare lì a cercare di capire, studiare- un’amica mi aveva addirittura mandato un bellissimo documento su uno studio fatto sulle laringi degli scimpanzé per capire questa storia della parola- un fenomeno così inattuale, come quello della Muta Vocale, invece di servire la causa generale, ovvero mettere le proprie energie e perché no, il proprio corpo in “kelle terre”?
da “dialogo notturno tra due scriba casertani”
Bellissimo effeffe: questo brano mi ha toccato il cuore, perché trovo sempre nel gesto di offrire un ricordo, un dono precioso. E forse facile di evocare l’infanzia, il giardino selvatico e luminoso dell’infanzia, più delicato valicare la soglia dell’ adolescenza nell’ombra del ricordo. Forse per un ragazzo perdere la voce d’infanzia è cercare tremolante la voce dell’uomo futuro, forse nella voce perduta, c’è l’impronta del mondo femminile, di questa dolcezza che resta come un rimpianto. Nella fragilità di un uomo sveglia il ritorno nell’infanzia.
Per me la perta dell’infanzia corrisponda al dolore del corpo e al rinunciare della libertà fisica, al terribile sentimento di avere lasciato il miraggio di attraversare il mondo, di danzare: solo scrivere puo dare il miraggio di cambiare di pelle, solo nuotare nel mare puo dare il miraggio della leggerezza.
ma concedersi “il lusso” di parlare d’altro forse è un po’, a suo modo, “servire la causa generale”, raccontare lo stupore infantile e le sue vertiginose rivoluzioni è un po’ come immaginare uno spazio in cui non c’è troppa guerra, non c’è troppa immondizia.
grazie, molto bello.
r
il meglio è “parlare d’altro” parlando sempre fra e sotto e sopra e attraverso le righe del medesimo stesso non altro.
,\\’
In kelle terre c’è già troppa gente, la folla è claustrofobica. E invece c’è bisogno, qui, di fabbricanti di sogni: di un Capitano coraggioso, per esempio; di un folletto dandy, oppure, che legge nello spirito. A ciascuno il suo, adorato effeffe: perché tu possa interrogarti su una magnifica assenza e io possa immaginare di raggiungerti\vi quando ho bisogno di un sonno sereno. Magari a mezza strada, su una panchina des jardins de Louxembourg. Sai? quella accanto all’orto botanico
Ros
*En kelle terre remenghene sempre petele de menderle che fenne premevere perenne, melgrede mennezze e chemerre, e che chentene…*
Anni fa qualcuno [mi pare Umberto Eco] rispondeva in questo modo ad una strana teoria, che affermava gli scimpazé, o altre scimmie antropomorfe, fossero impossibilitati ad articolare discorsi, a causa della loro laringe, capace di una sola vocale.
@Rosaria
(cui avevo segretamente dedicato questo testo)
forse hai ragione tu. Bread and roses, cantavano le capitane coraggiose. Eppure la recente esperienza di gruppo che abbiamo avuto al liceo di Procida, cinque mesi su un progetto dedicato alla Vita Nova, è stata la cosa più bella che mi sia capitato di fare. Sicuramente hai ragione tu, con quello che tu chiami passaggio del testimone (potrebbe essere uno schema da applicare in partita) ma mi piange il cuore anche solo all’idea di saperti “incatenata” al lavoro sporco e noi fuori (in tutti i sensi, n’est ce pas Capitano?) a interrogare l’infanzia.
@ soldato blu
anga kalla à vara, anga ta àlla razan
però non dimenticarti della sindrome del generale Custer :-)
Amo leggere Ni perché si sente anche la voce dell’amicizia, dell’amore.
Rosaria ha ragione, effeffe è una bella personna, che sa instillare la sua passione di vivere come un arte. Non lo connoscero mai, perché vivo lontano in una Francia che mi pesa sul cuore. Ho incontrato personne di talento su NI, ma sono tutte partite dalla Francia in un volo migratore…
Per mille fulmini, credevo che mi svelassi i misteri della muta consonante, la famosa H il cui suono si è perso durante un attraversamento dell’Atlantico sul triangolo delle Bermude
capitano esigo da te un racconto
a te la scelta “navigante”
effeffe