Il K. Tortora. Quello che i classici dicono
il 17 giugno 1983, sulla base delle accuse di un pentito della camorra, Enzo Tortora viene arrestato.
Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato
Primo interrogatorio
K. era stato informato telefonicamente che la prossima domenica avrebbe avuto luogo un piccolo interrogatorio sulla sua questione. Gli fecero notare che in futuro ci sarebbero stati con regolarità altri simili interrogatori, abbastanza spesso anche se non ogni settimana. Era interesse di tutti portare a termine il processo il più alla svelta possibile, d’altra parte però gli interrogatori dovevano essere esaurienti sotto ogni punto di vista, e tuttavia non durare mai troppo a lungo, per via della tensione che comportavano. Per tali motivi era stata scelta questa procedura di interrogatori frequenti, ma di breve durata. La scelta della domenica come giorno di interrogatorio aveva il significato di non disturbare K. nella sua professione.
Si presupponeva che fosse d’accordo, ma nel caso che preferisse un altro giorno gli si sarebbe venuto incontro nel miglior modo possibile. Gli interrogatori, ad esempio, erano possibili anche la notte, ma naturalmente in tal caso K. non sarebbe stato abbastanza riposato. In ogni caso, se K. non si fosse fatto vivo con qualcosa in contrario, l’interrogatorio restava inteso per domenica. Andava da sé che K. sarebbe certamente venuto, non c’era sicuramente bisogno di sottolinearlo proprio ora. Gli fu comunicato l’indirizzo in cui doveva presentarsi, era una casa in una remota strada di periferia dove K. non era mai stato.
Ricevuta questa comunicazione, K. riappese il telefono senza rispondere; aveva deciso subito che domenica sarebbe andato, era certo necessario, il processo stava partendo e lui doveva opporvisi, questo primo interrogatorio doveva anche essere l’ultimo. Sostò un poco, pensieroso, vicino all’apparecchio, quando sentì dietro di sé la voce del vicedirettore che voleva telefonare ma ne era impedito dalla presenza di K. “Cattive notizie?” chiese di sfuggita il vicedirettore, non per sapere qualcosa ma per far spostare K. “No, no”, disse K., si spostò di lato, ma non se ne andò. Il vicedirettore prese il telefono, e mentre aspettava la comunicazione disse al di sopra della cornetta: “Posso farle una domanda, signor K.? Che ne direbbe, domenica prossima sul presto, di fare una gita con me sulla mia barca a vela? Sarebbe un piacere. Saremmo in compagnia, certamente verranno anche dei suoi conoscenti. Fra gli altri anche il pubblico ministero Hasterer. Vuol venire? Ma sì, venga!” K. si sforzava di prestare attenzione a ciò che il vicedirettore stava dicendo. Non era per lui cosa di scarsa importanza, perché questo invito da parte del vicedirettore, con il quale non era mai stato in buoni rapporti, suonava come un tentativo di riconciliazione e dimostrava come K. stesse diventando importante all’interno della banca e come la sua amicizia, o per lo meno la sua imparzialità, avesse acquisito valore agli occhi del dipendente che, nella banca, era il secondo per importanza. Un tale invito era un’umiliazione per il vicedirettore, anche se era stato proferito sulla cornetta, aspettando un collegamento telefonico. Ma K. doveva far seguire a questa una seconda umiliazione, e disse: “Molte grazie! Ma purtroppo domenica non ho tempo, ho già un impegno.” “Peccato”, disse il vicedirettore, e si rivolse all’interlocutore telefonico che si era collegato proprio in quel momento. Non fu una telefonata breve, ma K., nella sua distrazione, rimase per tutto il tempo vicino all’apparecchio. Solo quando il vicedirettore finì K. si spaventò e, per farsi perdonare almeno un po’ quella sua inutile sosta in piedi, disse: “Mi hanno appena telefonato di andare in un certo posto, ma hanno dimenticato di dirmi a che ora.” “Beh, allora li richiami”, disse il vicedirettore. “Non è così importante”, disse K., anche se con questo la sua scusa, già poco credibile, diventava ancor più inverosimile. Nell’atto di andarsene il vicedirettore parlò ancora di altre cose cui K. si costrinse a rispondere, anche se era impegnato a riflettere che la cosa migliore sarebbe stata arrivare domenica alle nove di mattina, perché era quella l’ora in cui, nei giorni feriali, tutti i tribunali cominciavano a lavorare.
La domenica il tempo era cattivo, K. era molto stanco perché la sera prima, per una festa degli avventori abituali, si era trattenuto in birreria fino a notte tarda e quasi non aveva dormito. In tutta fretta, senza avere il tempo di riflettere e coordinare i diversi piani che aveva pensato durante la settimana, si vestì e senza fare colazione corse nel luogo in periferia che gli avevano indicato. Stranamente, benché avesse poco tempo per guardarsi intorno, si imbatté nei tre impiegati che erano al corrente della sua vicenda, Rabensteiner, Kullych e Kaminer. I primi due erano su un tram che attraversava la strada di K., Kaminer invece era seduto sulla terrazza di un caffè, e fece un inchino proprio mentre K. passava, piegandosi curioso sulla ringhiera. Tutti lo seguirono con lo sguardo meravigliandosi che il loro principale se ne andasse così di corsa; per una specie di puntiglio K. non aveva voluto andare con qualche mezzo, in questa sua faccenda provava ripugnanza a ricevere aiuto, anche il più piccolo, da chicchessia, inoltre non voleva coinvolgere nessuno, anche per non rendere nessuno partecipe della questione, sia pure alla lontana; e infine non aveva nessuna voglia di umiliarsi davanti alla commissione di indagine con una eccessiva puntualità. Comunque ora correva per arrivare se possibile alle nove, anche se non era stato neppure convocato per un’ora precisa.
Aveva creduto di poter riconoscere già da lontano l’edificio per una qualche insegna, che non si era immaginato con precisione, o per un particolare movimento di persone davanti all’ingresso. Ma la Juliusstraße, che era la strada in questione e al cui inizio K. si fermò per un istante, era formata da ambo i lati da case tutte uguali, case alte e grigie abitate in affitto da povera gente. Oggi, che era domenica mattina, la maggior parte delle finestre era occupata da uomini in maniche di camicia che si sporgevano e fumavano, o tenevano bambini piccoli sul davanzale, con attenzione e tenerezza. Altre finestre erano colme di lenzuola e materassi, sui quali, per un attimo, compariva la testa spettinata di una donna. Ci si chiamava da un lato all’altro della stradina, e un tale rumore aveva su K. l’effetto di una gran risata. Nella lunga strada, a intervalli regolari, si trovavano piccoli negozi, posti sotto il livello della strada e raggiungibili con qualche gradino, che vendevano diversi generi alimentari. Donne ne entravano e uscivano, oppure sostavano sui gradini a chiacchierare. Un verduraio, che esaltava le sue merci in direzione delle finestre, distratto quanto K., stava quasi per investirlo con il suo carretto. Un micidiale grammofono, che aveva lavorato in quartieri migliori, cominciò proprio allora a suonare.
K. procedette lentamente nel vicolo, come se ora avesse tempo o come se il giudice istruttore lo vedesse da qualche finestra e sapesse perciò che ormai K. era arrivato. Erano da poco passate le nove. L’edificio era veramente largo, esteso in modo quasi inusuale, soprattutto il portone d’ingresso era alto e largo. Evidentemente era destinato ai carichi pesanti appartenenti ai diversi magazzini che, in quel momento sbarrati, circondavano il grande cortile e portavano le insegne delle loro ditte, alcune delle quali K. conosceva dal suo lavoro in banca. Occupato, contro ogni sua abitudine, a considerare meglio tutti questi particolari, rimase fermo per un poco all’ingresso del cortile. Vicino a lui, su una cassa, sedeva un uomo a piedi nudi leggendo una rivista. Due giovani si dondolavano su un carretto a mano. Una ragazza in giacca da notte, debole e giovane, stava davanti a una pompa e attingendo acqua nella sua brocca guardava in direzione di K. In un angolo del cortile era tesa fra due finestre una corda su cui certi capi di biancheria erano già stesi ad asciugare. Sotto stava un uomo e con alcune grida dirigeva il lavoro.
K. si diresse alla scala per raggiungere la sala delle udienze, ma subito in silenzio si fermò, perché oltre a questa scala vide nel cortile tre altre rampe di scale e oltre a ciò un piccolo sottopassaggio in fondo al cortile sembrava introdurre in un secondo cortile. K. si incollerì che non gli avessero specificato meglio la sede della sala, veniva trattato dunque con particolare negligenza o quanto meno indifferenza, e aveva intenzione di dirlo chiaro e tondo. Alla fine tuttavia salì la prima scala, ripensando dentro di sé all’affermazione del sorvegliante Willem secondo cui il tribunale era attratto dalla colpa, dal che si doveva dedurre che la sala delle udienze doveva trovarsi sulla rampa che K. avesse scelto a caso.
Salendo disturbò parecchi bambini che giocavano sulle scale e che, quando K. passò in mezzo a loro, lo guardarono con collera. “Se dovrò rifare questa strada”, si disse, “dovrò portare con me dei dolciumi per conquistarmeli, oppure il bastone per picchiarli.” Poco prima di arrivare al primo piano dovette persino aspettare un attimo finché una palla finisse il suo volo, due ragazzini con aria bizzarra e adulta da furfanti lo trattenevano intanto ai pantaloni; se avesse voluto liberarsene avrebbe dovuto far loro del male, e aveva paura delle loro grida.
Al primo piano cominciò la ricerca vera e propria. Non potendo chiedere esplicitamente della commissione di indagine, si inventò un falegname Lanz – gli venne in mente questo nome perché così si chiamava il capitano, il nipote della signora Grubach – e intendeva chiedere in tutte le abitazioni se abitava lì il falegname Lanz, in modo da poter sbirciare all’interno. Risultò tuttavia che ciò era possibile nella maggior parte dei casi anche senza espedienti, perché quasi tutte le porte erano aperte e bambini entravano e uscivano. Di regola erano piccole stanze con una sola finestra, nelle quali si faceva anche cucina. Alcune donne tenevano in braccio dei lattanti e con la mano libera lavoravano al focolare. Qua e là correvano con grande zelo delle ragazzine, apparentemente vestite solo di un grembiule. In tutte le stanze i letti erano ancora occupati, o da malati, o da gente che dormiva, o ancora da persone che vi si erano distese vestite. K. bussò alle abitazioni con la porta chiusa e chiese se abitava lì un certo falegname Lanz. Per lo più veniva ad aprire una donna, ascoltava la domanda e si volgeva nella stanza in direzione di qualcuno, che si alzava da letto. “Il signore chiede se abita qui un certo falegname Lanz.” “Falegname Lanz?” chiedeva quello dal letto. “Sì”, diceva allora K., anche se non c’era più dubbio che la commissione di indagine non era qui e dunque il suo compito era terminato. Molti credevano che a K. stesse molto a cuore trovare questo falegname Lanz, pensavano a lungo, nominavano un falegname, che però non si chiamava Lanz, oppure facevano un nome che aveva con Lanz un somiglianza assai lontana, oppure chiedevano ai vicini, o ancora accompagnavano K. a una porta lontana dove a loro giudizio una tale persona poteva magari abitare in subaffitto, o dove c’era qualcuno che poteva dare informazioni migliori delle loro. Alla fine K. non aveva quasi più bisogno di chiedere, ma veniva in questo modo trascinato di piano in piano. Si pentì del suo espediente, che in un primo tempo gli era sembrato così pratico. Prima del quinto piano decise di abbandonare la ricerca, si accomiatò da un operaio giovane e gentile che voleva condurlo ancor più in alto e cominciò a scendere. Poi però l’inutilità di tutta questa impresa lo infastidì, tornò ancora indietro e bussò alla prima porta del quinto piano. La prima cosa che vide nella piccola stanza fu un grande orologio da parete, che segnava già le dieci. “Abita qui un certo falegname Lanz?”, chiese. “Prego”, disse una giovane donna con occhi neri e lucenti che proprio in quel momento stava lavando biancheria da bambino in un secchio, e con la mano bagnata indicò la porta aperta della stanza accanto.
K. credette di entrare in una assemblea. Una folla costituita dalle persone più diverse – nessuno si curò di lui che entrava – riempiva una stanza a due finestre, di media grandezza, che vicino al soffitto era circondata da una galleria, la quale era a sua volta completamente occupata da persone che dovevano stare curve, con la testa e le spalle schiacciate contro il soffitto. K., oppresso dall’aria viziata, uscì di nuovo, e chiese alla giovane donna, che evidentemente non lo aveva capito bene: “Guardi che ho chiesto se abita qui un falegname, un certo Lanz.” “Sì”, disse la donna, “la prego, entri pure.” K. forse non le avrebbe dato retta, se la donna non gli si fosse avvicinata, e non avesse preso la maniglia dicendo: “Dopo di lei devo chiudere, non può entrare più nessuno.” “Molto ragionevole”, disse K. “ma già ora è troppo pieno.” Ma poi entrò di nuovo.
Passando fra due uomini che si intrattenevano proprio accanto alla porta – uno, con entrambe le mani distese, faceva il gesto di contare del denaro, l’altro lo guardava dritto negli occhi – spuntò una mano e afferrò K. Era un giovane piccolo e dalle guance rosse. “Venga, venga”, disse. K. si lasciò condurre, e risultò che nella folla caotica c’era tuttavia una strada sottile libera, che probabilmente divideva due fazioni; a favore di questa ipotesi stava anche il fatto che nelle prime file a destra e a sinistra K. non poté vedere quasi nessuno rivolto verso di lui, ma solo le spalle di persone che con parole e gesti si rivolgevano soltanto agli appartenenti alla propria fazione. La maggior parte era vestita di nero, con vecchie giacche da festa che pendevano lunghe e larghe. Solo questo abbigliamento disorientava K., per il resto avrebbe giudicato il tutto come la riunione di un circolo politico.
All’altro estremo della sala dove K. fu condotto, su una specie di podio molto basso ma ugualmente stracolmo si trovava un piccolo tavolo disposto di traverso, e dietro di esso, quasi sull’orlo del podio, sedeva un ometto grasso e sbuffante, che fra grandi risate stava chiacchierando con un uomo in piedi dietro di lui; quest’ultimo aveva appoggiato un gomito sullo schienale della sedia e teneva le gambe incrociate. Più volte l’ometto agitava in aria il braccio, come se stesse facendo la caricatura di qualcuno. Il giovane che conduceva K. fece fatica ad annunciare quel che doveva dire. Già per due volte, sulla punta dei piedi, aveva tentato di parlare, ma l’uomo lassù non lo aveva notato. Solo quando una delle persone sul podio richiamò l’attenzione sul giovane l’uomo si voltò verso di lui e, chinandosi, ascoltò il messaggio che gli veniva sussurrato. Poi estrasse il suo orologio e veloce rivolse lo sguardo a K. “Lei avrebbe dovuto comparire un’ora e cinque minuti fa”, disse. K. avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma non ne ebbe il tempo, perché appena l’uomo ebbe finito di parlare dalla parte destra della sala si alzò un mormorio generale. “Lei avrebbe dovuto comparire un’ora e cinque minuti fa”, ripeté allora l’uomo a voce più alta e subito guardò giù nella sala. Subito anche il mormorio divenne più forte, e poiché l’uomo non aggiunse altro si spense gradualmente. Ora in sala c’era molto più silenzio di quando K. era entrato. Solo la gente in galleria non cessava di fare osservazioni. Per quanto consentivano di vedere la penombra, il vapore e la polvere, quelli lassù erano vestiti peggio degli altri. Alcuni si erano anche portati dei cuscini, che mettevano fra la testa e il soffitto per non ferirsi.
K. aveva deciso di osservare più che parlare, e perciò, rinunciando a difendersi per un suo supposto ritardo, disse soltanto: “In ritardo o no, ora sono qui.” Dalla parte destra della sala, si udì ancora un applauso di approvazione. “E’ gente facile da conquistare”, pensò K., disturbato ora dal silenzio nella metà sinistra della sala, che si trovava proprio dietro di lui e dalla quale si erano alzati solo alcuni battimani isolati. Pensò a cosa poteva dire per conquistarsi tutti in una volta oppure, se ciò fosse stato impossibile, guadagnare almeno temporaneamente anche l’approvazione degli altri.
“Sì”, disse l’uomo, “ma io non sono più tenuto a concederle udienza” – di nuovo ci fu il mormorio, questa volta di dubbio significato, perché facendo con la mano un cenno alla folla l’uomo continuò – “tuttavia, in via eccezionale, per oggi la concederò. Un tale ritardo però non deve più ripetersi. E ora venga avanti!” Qualcuno saltò giù dal podio, sicché per K. si liberò un posto sul quale poté salire. Era in piedi, premuto stretto contro il tavolo, la folla dietro di lui era tanto grande che K. doveva opporle resistenza per non far cadere giù dal podio il tavolo del giudice istruttore, e, forse, il giudice stesso.
Il giudice istruttore non se ne curò, ma rimase comodo sulla sua sedia e, dopo aver detto una parola conclusiva all’uomo dietro di sé, afferrò un piccolo quaderno di appunti, che era il solo oggetto sul tavolo. Aveva un’aria scolastica, ed era vecchio, sformato da una lunga consultazione. “Allora”, disse il giudice istruttore, sfogliò il quaderno e con il tono di una constatazione si rivolse a K.: “Lei è un decoratore di pareti?” “No”, disse K. “sono il primo procuratore di una grande banca.” A questa risposta, nella parte destra di sotto della sala, seguì una risata tanto cordiale, che anche K. finì per mettersi a ridere. La gente si appoggiava con le mani sulle ginocchia ed era scossa come da un grave attacco di tosse. Persino qualcuno in galleria rideva. Il giudice istruttore, che si era ormai incollerito e che forse non aveva potere sulle persone di sotto, cercò di rifarsi sulla galleria, saltò in piedi, fece verso la galleria un gesto di minaccia e le sue sopracciglia, che altrimenti erano insignificanti, aggrottandosi enormi sugli occhi parvero folte e nere.
La metà sinistra della sala, invece, era ancora silenziosa, lì le persone se ne stavano in fila, rivolte verso il podio, e ascoltavano ciò che si diceva lassù con la stessa calma con cui prendevano il chiasso dell’altra fazione; permettevano addirittura che qualcuno delle loro file qua e là si comportasse come la gente dell’altra parte. Quelli di sinistra, tra l’altro inferiori di numero, erano fondamentalmente insignificanti come quelli di destra, ma la calma del loro comportamento faceva sì che sembrassero più importanti. Cominciando ora a parlare, K. era convinto di esprimersi secondo il loro modo di vedere.
“Signor giudice istruttore, la domanda stessa che lei mi ha rivolto, se cioè io sia un decoratore di pareti – e più che rivolgere, lei me l’ha fatta cadere in testa – questa domanda è tipica di tutto il modo di procedere nei miei confronti. Lei può obiettare che non si tratta di un procedimento, e avrebbe ragione, è un procedimento soltanto se io lo riconosco come tale. Ma è solo momentaneamente che io lo riconosco, in un certo senso per compassione. La compassione è l’unico sentimento con cui lo si può considerare; se pure si vuole, in generale, considerarlo. Io non dico che sia un procedimento da carogne, ma vorrei offrirle questa definizione perché lei stesso possa riconoscerlo come tale.”
K. si interruppe e guardò giù nella sala. Ciò che aveva detto era pungente, forse anche più pungente di quanto avesse avuto intenzione, tuttavia era esatto. Avrebbe meritato approvazione in qualche punto, ma tutti erano silenziosi, evidentemente aspettavano tesi ciò che sarebbe seguito, forse si preparavano in silenzio a un’esplosione che ponesse fine a tutto. Fu un disturbo che in quel momento si aprisse la porta in fondo alla sala, facendo entrare la giovane lavandaia che evidentemente aveva finito il suo lavoro e che, nonostante tutta la cautela che impiegò, attirò su di sé gli sguardi di alcuni. Solo il giudice istruttore diede a K. una gioia diretta, perché sembrò subito colpito dalle parole di K. Finora aveva ascoltato in piedi, perché era stato sorpreso dal discorso di K. mentre si era alzato per minacciare la galleria. Ora, in quella pausa, si sedette lentamente, come se nessuno dovesse accorgersene. Forse per ridare calma al suo aspetto prese di nuovo il quaderno.
“Non serve a niente”, continuò K., “anche il suo quaderno, signor giudice istruttore, conferma quel che dico.” Contento di udire solo le proprie parole tranquille in quella riunione di estranei, K. osò persino portar via il quaderno al giudice istruttore e sollevarlo in alto per un foglio centrale, come se ne avesse ribrezzo, sicché le pagine fitte di scrittura, macchiate e bordate di giallo, pendevano in basso da un lato e dall’altro. “Ecco gli atti del giudice istruttore”, disse, lasciando cadere sul tavolo il quaderno. “Ci legga pure dentro con calma, signor giudice istruttore, non ho davvero paura di questa lista delle colpe, anche se mi è inaccessibile, dato che posso prenderla solo con la punta di due dita.” Poteva essere solo un segno di profonda umiliazione, o almeno così doveva intendersi, il fatto che il giudice istruttore afferrò il quaderno non appena caduto sul tavolo, cercò di metterlo un po’ in ordine e lo riprese per leggerlo.
I volti delle persone nelle prime file erano rivolti a K. con tanta tensione, che questi per un poco guardo giù verso di loro. Erano generalmente uomini anziani, alcuni con la barba bianca. Che fossero loro gli elementi decisivi, quelli che potevano influenzare tutta l’assemblea? Questa non si era lasciata scuotere neppure in virtù dell’umiliazione del giudice istruttore dall’inerzia in cui era sprofondata quando K. aveva cominciato a parlare.
“Ciò che è avvenuto a me”, continuò K. più piano di prima, indagando sempre i volti della prima fila, il che dava al suo discorso un’aria distratta, “ciò che è avvenuto a me è solo un caso singolo e quindi in sé di poca importanza, e non lo prendo molto sul serio. Esso è però il segno di come si procede nei confronti di molte persone. E’ per questi che io sono qui, non per me.”
Involontariamente aveva alzato la voce. Da qualche parte qualcuno applaudì con le mani alzate gridando: “Bravo! E perché no? Bravo! E ancora bravo!” Qui e là, nelle prime file, qualcuno si carezzava la barba, nessuno si voltò per quel grido. Nemmeno K. gli attribuì importanza, ma ne fu incoraggiato; ora non gli sembrava neanche più necessario che tutti applaudissero convinti, bastava che in generale si cominciasse a riflettere sulla cosa e che ogni tanto il discorso convincesse qualcuno.
“Non cerco un successo da oratore”, disse K. sull’onda di queste riflessioni, “né d’altra parte sarei capace di ottenerlo. Il signor giudice istruttore parla senz’altro meglio di me, in fondo è il suo mestiere. Quel che voglio è solo l’aperta discussione di una evidente ingiustizia. Ascoltate: dieci giorni fa sono stato arrestato, dell’arresto in sé me ne infischio, ma questo non c’entra adesso. Sono stato assalito a letto la mattina presto, forse – dopo ciò che ha detto il giudice istruttore non è più escluso – l’ordine era di arrestare un decoratore di pareti altrettanto innocente quanto me, comunque hanno scelto me. La stanza accanto era occupata da due sorveglianti grossolani. Se fossi un brigante pericoloso le precauzioni non avrebbero potuto essere più adeguate. E poi questi sorveglianti erano plebaglia scostumata, mi hanno riempito le orecchie di chiacchiere, intendevano farsi corrompere, volevano sottrarmi con l’inganno abiti e biancheria, volevano denaro per portarmi la colazione dopo avermela mangiata tutta sotto gli occhi senza alcun pudore. E non basta. Sono stato portato in un terza stanza davanti all’ispettore. Questa era la stanza di una signorina di cui ho grande stima, e ho dovuto assistere a come, per mia causa ma senza mia colpa, questa stanza venisse in certo modo sporcata dalla presenza dei sorveglianti e dell’ispettore. Non era facile rimanere calmi. Tuttavia ci sono riuscito, e ho chiesto all’ispettore del tutto tranquillamente – se fosse qui dovrebbe confermarlo – quale fosse la causa del mio arresto. E quale fu la risposta di questo ispettore, che ho ancora davanti agli occhi mentre se ne sta sulla sedia della suddetta signorina come immagine della più stupida presunzione? Signori, non mi ha risposto fondamentalmente nulla, forse non sapeva nulla per davvero, mi aveva arrestato e questo gli bastava. E ha fatto anche di più, nella stanza di quella signorina ha portato tre impiegati di basso rango della mia banca, che non si sono fatti scrupolo di toccare e mettere in disordine delle fotografie di proprietà della signorina. La presenza di questi impiegati aveva naturalmente anche un altro scopo, al pari della mia affittacamere e della sua donna di servizio dovevano diffondere la notizia del mio arresto, danneggiare la mia reputazione e soprattutto mettere a repentaglio la mia posizione in banca. Niente però di tutto questo è minimamente riuscito, anche la mia affittacamere, persona assai sempliciotta – voglio citarla qui a suo onore, si chiama signora Grubach – persino la signora Grubach è stata abbastanza intelligente da capire che un tale arresto non ha un significato molto maggiore della molestia che può capitare di subire per strada ad opera di ragazzi insufficientemente sorvegliati. Ripeto, tutto ciò mi ha procurato solo fastidi e una collera momentanea, ma non potevano forse esserci conseguenze peggiori?”
Quando K., a questo punto, si interruppe e volse lo sguardo al silenzioso giudice istruttore, credette di accorgersi che costui con lo sguardo faceva un cenno a qualcuno nella folla. K. sorrise e disse: “Proprio ora il signor giudice istruttore, davanti a me, fa a qualcuno di voi dei segnali segreti. Così fra di voi ci sono persone che vengono manovrate da quassù. Non so se questi segnali debbano dare il via a fischi o applausi, e del tutto coscientemente, per il fatto stesso di tradire la cosa anzitempo, rinuncio a sapere il significato dei segnali. Mi è del tutto indifferente, e autorizzo apertamente il signor giudice istruttore a dare ordini ai suoi dipendenti prezzolati laggiù non con segnali segreti, ma ad alta voce, dicendo ad esempio una volta: ora fischiate, e la volta dopo: ora applaudite.”
Il giudice istruttore, per imbarazzo o impazienza, si voltava da una parte e dall’altra della sedia. L’uomo dietro di lui, con cui già prima si era intrattenuto a parlare, si chinò di nuovo verso di lui per fargli coraggio in generale, o forse anche per dargli qualche particolare consiglio. Sotto, la folla chiacchierava a bassa voce ma con vivacità. Le due fazioni, che prima sembravano avere opinioni tanto opposte, si erano mescolate, singole persone mostravano con il dito K., altre il giudice istruttore. Il vapore simile a nebbia diffuso nella stanza era oltremodo opprimente, e impediva persino di distinguere con precisione chi stava più lontano. In particolare doveva essere fastidioso per chi stava in galleria, e costoro, sia pure rivolgendo timidi sguardi in direzione del giudice istruttore, erano costretti a fare domande a bassa voce a chi partecipava all’assemblea per sapere meglio cosa stava succedendo. Altrettanto a bassa voce veniva loro risposto, tenendo le mani davanti alla bocca come per difesa.
“Sono subito alla fine”, disse K., e in mancanza di una campanella colpì il tavolo con un pugno, e per lo spavento le teste del giudice istruttore e del suo consigliere si separarono istantaneamente: “Io sono al di fuori di tutta la questione e perciò la giudico con tranquillità, e nel caso che vi importi qualcosa di questo sedicente tribunale avrete un gran vantaggio dallo starmi a sentire. Vi prego di rimandare a dopo le vostre reciproche esternazioni su quel che dico, perché non ho tempo e presto me ne andrò.”
Subito si fece silenzio, tanto era il dominio di K. sull’assemblea. Non si gridava più dappertutto come all’inizio, neppure si applaudiva più, ma sembrava che tutti fossero ormai convinti o sulla strada per esserlo.
“Non c’è dubbio”, disse K. a voce molto bassa, perché provava piacere per l’attenzione tesa di tutta l’assemblea, in questo silenzio si levò un brusio che era ancor più incoraggiante dell’approvazione più esaltata, “non c’è dubbio che dietro tutte le manifestazioni di questo tribunale, e quindi nel mio caso dietro l’arresto e l’interrogatorio odierno, si nasconde una grande organizzazione. Una organizzazione che impiega non solo sorveglianti corrotti, ispettori imbecilli e giudici istruttori, che è nel migliore dei casi gente limitata; ma anche oltre a ciò, in ogni caso, una casta di giudici di grado alto e supremo, con l’inevitabile, innumerevole seguito di fattorini, scrivani, gendarmi e altre forze ausiliarie, forse persino carnefici, non mi tiro indietro davanti a questa parola. E dov’è, signori, il senso di tutta questa organizzazione? Consiste in questo, nell’arrestare persone innocenti e mettere in moto contro di loro un procedimento insensato e per lo più, come nel mio caso, privo di risultati. In questa insensatezza del tutto, come si potrebbe evitare la peggiore corruzione degli impiegati? E’ una cosa impossibile, non ne verrebbe a capo per se stesso neppure il giudice di grado più alto. E’ per questo che i sorveglianti cercano di rubare i vestiti di dosso agli arrestati, è per questo che gli ispettori piombano nelle abitazioni altrui, è per questo che persone innocenti, anziché essere interrogate, devono subire un’umiliazione di fronte a un’intera assemblea. I sorveglianti mi hanno raccontato di depositi dove si portano le proprietà degli arrestati, mi piacerebbe vedere una buona volta questi depositi dove le sudate proprietà degli arrestati marciscono, se pure non vengono rubate da disonesti impiegati dell’ufficio.”
K. fu interrotto da uno stridio in fondo alla sala, si riparò gli occhi per vedere, perché la torbida luce del giorno rendeva biancastro e accecante il vapore. Si trattava della lavandaia, che K. aveva riconosciuto subito come un importante fattore di disturbo quando era entrata. Ora non si poteva stabilire se fosse colpa sua oppure no. K. vide soltanto che un uomo l’aveva attirata in un angolo presso la porta, e lì si premeva contro di lei. Non era stata lei però a lanciare quel suono stridulo, ma l’uomo, che aveva la bocca contratta e guardava verso il soffitto. Intorno ai due si era formato un piccolo cerchio, quelli sulla galleria vicina sembravano entusiasti che la serietà indotta nell’assemblea da K. fosse in tal modo interrotta. Sotto la prima impressione, K. avrebbe voluto correre laggiù, inoltre pensava che sarebbe stato interesse di tutti ristabilire laggiù l’ordine e per lo meno espellere i due dall’aula, ma le prime file davanti a lui rimasero saldamente immobili, nessuno si spostò e nessuno lo lasciò passare. Al contrario gli fu impedito, uomini anziani tenevano il braccio davanti a sé e la mano di qualcuno – non ebbe il tempo di girarsi – lo afferrò da dietro per il colletto, K. non pensava più alla coppia, gli sembrò che la sua libertà venisse limitata e che ora l’arresto diventasse una cosa seria, così saltò giù dal podio senza tanti riguardi. Ora si trovava faccia a faccia davanti alla folla. Forse non aveva giudicato bene la gente? Aveva attribuito troppa efficacia al proprio discorso? Avevano forse simulato finché parlava e ora che era giunto alle conclusioni erano stufi di simulare? Che facce intorno a lui! Con piccoli occhi neri ammiccavano qua e là, le guance cascanti come negli ubriachi, le lunghe barbe rigide e spelacchiate nelle quali affondavano le mani come se volessero non accarezzarle, ma affilarsi gli artigli. Sotto le barbe però, e questa fu la vera scoperta, brillavano sul risvolto della giacca dei distintivi di grandezza e colore diversi. Tutti, per quel che poteva vedere, avevano tali distintivi. Tutti appartenevano allo stesso gruppo, le fazioni, di destra e di sinistra, erano apparenti, e quando K. improvvisamente si voltò vide gli stessi distintivi sul colletto del giudice istruttore, che, le mani in grembo, guardava giù tranquillo. “Allora è così!” esclamò K. spalancando le braccia, questa improvvisa scoperta esigeva spazio, – “a quel che vedo siete tutti impiegati, siete proprio voi la banda corrotta contro cui parlavo, vi siete ammassati qui come spettatori e ficcanasi, avete fatto finta di formare delle fazioni e per mettermi alla prova uno ha anche applaudito, volevate imparare come si seducono le persone innocenti! Ma non siete venuti qui per niente, almeno spero, perché delle due l’una, o vi siete divertiti a vedere qualcuno che si aspettava da voi la difesa dell’innocenza, oppure… lasciami o te le suono”, gridò K. a un vecchio tremante che gli si era troppo avvicinato – “oppure avete davvero imparato qualcosa. E con questo vi auguro buona fortuna nelle vostre faccende.” Prese alla svelta il suo cappello che si trovava sull’orlo del tavolo, e nel silenzio generale, certo il silenzio della più assoluta sorpresa, si affrettò all’uscita. Il giudice istruttore era però, a quanto pareva, ancor più veloce di K., perché lo aspettava vicino alla porta. “Un momento”, disse, K. si arrestò, senza però guardare il giudice istruttore ma la maniglia della porta, che aveva già preso in mano. “Volevo solo farle notare”, disse il giudice istruttore, “nel caso non se ne fosse ancora reso conto, che lei oggi si è privato del vantaggio che una udienza in ogni caso significa per un arrestato.” K. rise in direzione della porta. “Straccioni”, esclamò. “Tutte queste udienze io ve le regalo”, aprì la porta e si affrettò giù per la scala. Dietro di lui si alzò il rumore dell’assemblea tornata vivace, che evidentemente, come fanno gli studiosi, discuteva l’accaduto.
Tratto da “Il processo ” di Franz Kafka
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Immenso Kafka, grande Tortora.
Tanto grande da non sopravvivere alle carceri italiane.
Ma davvero vogliamo parlare di questa archetipica vicenda???
Perchè, se ne dobbiamo parlare senza che il medico ce l’abbia ordinato, vuol dire che dovremo parlarne sul serio…
In caso contrario, non foss’altro per mero riguardo a nostra sorella morte corporale, che un giorno tutti dovremo conoscere, meglio – molto meglio – andare a mare ed ascoltare le sue, di storie.
Ma se proprio aleggia questa voglia, ciascuno la esterni battendo un colpo. Secco, please.
TOC.
Vale et ego.
hai ragione tu
abate
tremendamente quando parli di archetipi
e terribilmente quando scrivi di riguardo.
Ogni volta che mi capita tra le mani la foto di Enzo Tortora ripenso a quella di Tognazzi capo delle BR, firmata dal gruppo della rivista il male di Sparagna, pochi anni prima.
E la stessa incredulità mi coglie ogni volta. Come se l’immagine, quella di Tortora, al pari di quella di Tognazzi non fosse vera – e allora nemmeno la vicenda lo era- e che in questa sovrapposizione, a causa di quello slittamento si può ancora pensare a Enzo Tortora senza pensarci. E mi sono chiesto perché tutti quelli che credevano all’innocenza di Tortora non hanno assaltato la prigione in cui era per farlo evadere. Mai come in quel caso l’innocenza era evidente. E lo ha stabilito la giustizia poi, mi pare, in modo inconfutabile. O allora si è tutti colpevoli a prescindere e dunque non si può che accettare una tragedia del genere, un errore di simile portata, facendo spallucce o finta di niente. Come se la macchina della giustizia fosse l’unica rimasta nella nostra cultura occidentale a rappresentare dio in terra, a scarrozzarlo tra le umane miserie senza che ci si possa “ribellare”. O allora si dice di non credere in dio, di non credere alla giustizia, col pericolo di ritrovarsi a credere alla fine che questa storia non sia mai accaduta, e che Enzo Tortora non sia mai esistito.
effeffe
Tortora e Tognazzi per la serie sbatti il mostro in prima pagina…la storia di Tognazzi capo delle Br è forse ancora più assurda di Tortora camorrista. Se penso poi a come e perchè è iniziata la vicenda di Tortora…che assurdità! Tuttavia il prezzo più alto l’ha pagato proprio Tortora, il dolcissimo presentatore di Portobello, programma che è stato l’antesignano di tantissimi format tv. Il film che rappresenta bene questo genere di situazioni kafkiane è Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Elio Petri, con un grandissimo Volontè. Oggi si potrebbero verificare ancora casi del genere? E quando hai subito un danno come questo chi o cosa potrebbe mai risarcirti?
effeffe: una traduzione molto bella che mi ha fatto ritrovare un libro che amo per l’ambiente d’incubo, il sentimento turbo di vivere in un luogo che fa viaggiare in una frontiera indecisa. Per esempio la descrizione della strada squallida puo delimitare un luogo reale di miseria, ma nella sua impeccabile monotonia dice lo strano.
La vista dei ragazzi fa pensare a un cattivo scherzo. La figura dell’innocenza annuncia invece che K è arrivato in un luogo di tortura.
Immagino il sentimento di follia che cattura un uomo, quando è accusato e che non capisce cio che accade. Sembra allora che la realtà si distorce e ti chiedi: sono pazzo o gli altri sono pazzi?
viki
vedi quella di tognazzi era una bufala studiata da pazzi scatenati che si inventarono prime pagine di veri giornali con false notizie. E alle edicole la gente ci cascava. Tognazzi in realtà non fu mai arrestato ma si prestò al finto arresto proprio per le ragioni che hai evocato
effeffe
La folle creatività del “Male” risultò, quindi, profetica in un senso, non colto allora, che, soltanto adesso, effeffe, ci mette sotto gli occhi.
Mi pare comunque che andrebbe pensato più attentamente il fatto, come lo esprime ff, che “mai come in quel caso l’innocenza era evidente”.
Perchè fu proprio questo: il paradosso dell’impossibilità, data quella premessa, che si potesse trattare di un errore.
E quindi, o il dover pensare che “qualcosa di vero c’è”: altrimenti non l’avrebbero fatto, oppure pensare al “complotto”.
Ma pensare al complotto senza alcuna prova? E poi, perchè?
Perché, allora, “la macchina della giustizia era l’unica, ancora, a rappresentare il dio in terra”.
Poi, indebolita che fu, ci pensò poi la mafia, a Capaci e in via Amelio, a riportarla nella giusta collocazione – giusto il proprio comportamento – colpendo proprio coloro che tentavano di mantenerla all’altezza della propria dignità.
Oggi non possiamo, purtroppo, che “prendere atto”.
Chi ha mai più possibilità di “fare politica” con il PD veltroniano?
Bene il disegno di legge sulle intercettazioni.